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Vuoi vedere che adesso le vittime sono i soldati marocchini?

Tel Quel, settimanale indipendente fino a quando non si tocca il tema del Sahara Occidentale, ha pubblicato un servizio “esclusivo” da Laayoune nel quale si attribuisce agli aggrediti la responsabilità delle violenze. Va bene, ma perché allora non si consente l'ingresso nei territori ai giornalisti e agli osservatori indipendenti? Perché il Marocco (e la Francia sua alleata) hanno impedito l’apertura di una inchiesta da parte dell’ONU?
Per quanto ci riguarda, continuiamo a pensare che in Sahara Occidentale vi sia un aggressore (Marocco) e un aggredito (popolo saharawi), e tuttavia non abbiamo problemi a  pubblicare anche versioni differenti  degli avvenimenti, per quanto ci sembrino incredibili. Leggerle è utile intanto per comprendere quali sono gli obiettivi della propaganda ufficiale marocchina


Layoune a ferro e fuoco
di Driss Bennani, inviato speciale (Tel Quel n. 447 - novembre 2010)

Laayoune. Di solito è già all’aeroporto che si può capire che aria tiri in città. Ed è chiaro che questo martedì 9 novembre la “temperatura” del capoluogo del Sahara sia molto alta. Sulla pista, diverse decine di uomini in divisa lavorano intorno a due grandi veicoli militari, mentre un elicottero della Gendarmeria reale si appresta a decollare. Fuori, sette veicoli delle Forze Armate Reali controllano l’ingresso del parcheggio, incredibilmente vuoto. I militari, appostati ai checkpoint, sono equipaggiati con giubbotti antiproiettili, caschi con visiere, maschere antigas e scudi antisommossa. Nel centro città si assiste a un’incessante sfilata di camion militari e staffette di polizia. I poliziotti appostati intorno agli edifici pubblici o nei grandi incroci sono armati con fucili a pompa. L’atmosfera è pesante, opprimente.
A peggiorare le cose, Laayoune appare disperatamente deserta in questo pomeriggio inoltrato, per quanto soleggiato. I negozi sono chiusi, come anche le banche, le amministrazioni, le scuole o i caffè. La città non si è ancora ripresa dal suo “lunedì nero”. Per più di cinque ore, poco dopo lo smantellamento del campo di Agdim Izik, diverse centinaia di manifestanti hanno messo a ferro e fuoco diversi quartieri, bruciato decine di auto e saccheggiato molti negozi, caffè e edifici pubblici. “E’ stata una cosa mai vista, ci dice un testimone. Non avevamo mai raggiunto un tale livello di violenza in Sahara. La situazione era totalmente fuori controllo. E’ stato necessario l’intervento dell’esercito perché fosse ristabilito l’ordine”. I danni sono visibili. Dei veicoli completamente bruciati bloccano ancora il passaggio in certe strade. Edifici interi sono stati evacuati. Sportelli automatici delle banche sono sventrati, cocci di vetro e di pietre (molte pietre)cospargono l’asfalto. Gli scontri sono stati particolarmente violenti e il bilancio è pesantissimo. Undici persone (tra cui dieci poliziotti) hanno perso la vita nelle ultime 48 ore. L’apocalisse era tuttavia prevedibile. Cronologia.

Giovedì 4 novembre: segnali premonitori
Tutto comincia dunque giovedì 4 novembre. Tre settimane dopo l’innalzamento del campo di Agdim Izik a est di Laayoune, i dirigenti marocchini hanno oramai un’idea fissa: evacuare l’accampamento prima di sabato 6 novembre, anniversario della marcia Verde. Nella sede della wilaya le riunioni si susseguono. Il ministro dell’interno vi partecipa personalmente e dà prova, secondo le nostre fonti, di una “grande capacità di ascolto e di molto sangue freddo”. Alla fine della giornata si trova infine un accordo. Il wali e i rappresentanti degli abitanti  del campo firmano anche un processo verbale congiunto. E’ l’epilogo… o quasi. “Durante la riunione, racconta la nostra fonte, i negoziatori di Agdim Izik hanno preteso che non vi fossero saharawi che occupano posti di comando nell’amministrazione marocchina e hanno effettivamente ottenuto il trasferimento di Khelli Henna Ould Errachid e di qualche altro wali dell’amministrazione centrale.  Questo non faceva presagire niente di buono”, Intorno alle 22.30, i rappresentanti del campo sono tornati alla sede della wilaya. Avevano un brutta cera. Gli abitanti del campo hanno – come sembra – respinto i termini dell’accordo. Esigono che il processo verbale venga firmato dal ministro dell’interno in persona. “Impossibile, la cosa delegittimerebbe ancor più l’autorità locale”, rispondono gli alti dirigenti del ministero. Al termine di una maratona di riunioni, la wilaya di Laayoune si impegna alla fine ad aprire uno sportello nel campo, per facilitare le operazioni di registrazione degli abitanti che aspirino a beneficiare dei lotti di terreno e delle pensioni elargite dalla Previdenza sociale. Le due parti si salutano nella tarda serata.

Venerdì 5 novembre: i negoziati non approdano a nulla
All’inizio della mattinata una delegazione ufficiale guidata dal wali della regione giunge al campo di Agdim Izik. “Era incaricata, conformemente agli accordi raggiunti il giorno prima, di organizzare l’apertura dello sportello nel campo e ad assicurarsi che tutto procedesse bene”, spiega un funzionario della wilaya di Laayoune. Una formalità insomma. Ma l’accoglienza loro riservata dai responsabili del campo è tutt’altro che amichevole.   Decine di giovani, a piedi o su fuoristrada, formano una catena umana tutto intorno alle tende montate in pieno deserto. Gli slogan sono particolarmente virulenti, addirittura minacciosi. I nuovi giunti non sono visibilmente i benvenuti. Che cosa spiega questo mutato atteggiamento?   “I negoziatori del campo avrebbero così voluto protestare contro la presenza dei chioukh (capi delle tribù, allineati sulle posizioni del Marocco, ndt)nella delegazione ufficiale. Ma era solo un pretesto, afferma una fonte associativa a Laayoune. La verità è che lo smantellamento del campo va contro gli interessi personali o politici di alcuni dei responsabili di Agdim Izik”. Dopo qualche ora di attesa, il wali e i suoi accompagnatori tornano sui loro passi. Sono arrabbiatissimi coi responsabili del campo. Viene improvvisata una riunione di crisi a Laayoune. “Questa gente non cerca una soluzione. Vogliono invece prolungare la crisi”, conclude un alto responsabile del ministero dell’interno. Sabato, la celebrazione del 35° anniversario della marcia Verde trascorre dunque in un’atmosfera molto tesa nelle principali città del Sahara. Nel suo discorso, il re non fa alcun riferimento alla situazione di Agdim Izik. Si rivolge piuttosto ai Saharawi di Tindouf, assicurando loro la sua protezione e la sua benevolenza. “E’ un modo – spiega un osservatore – di non attribuire un profilo nazionale agli avvenimenti di Laayoune”. Ma in Sahara non sfugge a nessuno il mutamento di tono. La città trattiene il respiro. L’intervento militare è imminente. Bisogna solo trovare un pretesto.

Domenica 7 novembre: si prepara una risposta
Nel corso della giornata, il procuratore generale di Laayoune dichiara che “allo stato attuale vi sono dei vecchi, delle donne e dei bambini  da considerare sequestrati nel campo di Agdim Izik”. Un po’ troppo grossa vero? Non proprio, risponde un avvocato di Laayoune: “Vi sono persone che avevano delle vere rivendicazioni sociali e che hanno cercato di smontare le loro tende dopo avere ricevuto terre epensioni, ma è stato loro impedito. Non sono molte, ma lo Stato aveva la giustificazione legale per smantellare il campo con la forza”(Secondo questo avvocato, se dei banditi tengono in sequestro delle  persone, mettiamo in una banca, lo Stato avrebbe la giustificazione legale per distruggere l’intero quartiere, ndt).
A metà mattinata, la strada di comunicazione verso il campo è oramai bloccata e centinaia di auto vengono rimandate indietro verso Laayoune. Alle 17 qualche veicolo tenta di forzare un posto di blocco della Gendarmeria reale. Le forze dell’ordine rispondono con lanci di bombe lacrimogene. La tensione è al massimo. Nella serata una decina di persone riesce in qualche modo a raggiungere il campo. Ma nessuno dormirà questa notte.  Racconta una fonte associativa: “Noi cercavamo ancora di calmare gli animi all’interno del campo, quando alcune autorità ci hanno chiesto di andarcene nella prima serata. I negoziati erano terminati, dicevano”.

Lunedì 8 novembre: il giorno più lungo
L’assalto viene realizzato alle 6 e 30. Il dispositivo di sicurezza mobilitato è impressionante. Camion militari, centinaia di gendarmi, poliziotti ed elementi delle Forze ausiliarie circondano il campo. Vengono collocati degli altoparlanti che chiedono agli abitanti di lasciare le tende e dirigersi verso i bus messi a loro disposizione sulla strada verso Smara. E’ il caos. Il movimento della folla è disordinato. Fuoristrada corrono a forte velocità in diverse direzioni. “Nel momento in cui le prime persone hanno cominciato ad abbandonare il campo, altre hanno attaccato le forze dell’ordine con bottiglie Molotov e lanci di pietre”, racconta un testimone che ha assistito alle operazioni di evacuazione. Due camion-cisterna militari rispondono con getti d’acqua calda. Senza grandi risultati. Il campo si stende su diversi ettari, ed è dunque difficilmente controllabile. Le tende vengono progressivamente smantellate, ma i militari avanzano su un territorio minato. Alcuni cadono in vere e proprie imboscate. “Si sono resi conto di avere a che fare con vere e proprie milizie addestrate al combattimento”, analizza un osservatore locale.
Alle 8, due ore appena dopo l’inizio delle operazioni, 80 militari sono già ricoverati d’urgenza all’ospedale militare di Laayoune. Accusano traumi cranici e ferite d’arma bianca. Durante gli scontri, alcuni sono anche freddamente (e atrocemente) uccisi. “A un certo punto, racconta un poliziotto, un gendarme si è ritrovato solo tra le tende. E’ stato allora circondato da una ventina di persone. Dopo averlo riempito di botte, uno degli assalitori l’ha sventrato con un coltello e ha urinato sul suo cadavere”. Un altro militare, appartenente alle Forze Ausiliarie questa volta, è stato attaccato da alcuni giovani che si trovavano a bordo di una jeep. “Essi lo hanno prima steso per terra, poi gli hanno rotto la testa con una grossa pietra. E come se non fosse sufficiente, lo hanno sfigurato assestandogli diversi colpi al viso. Era già morto quando, alla fine, lo hanno intenzionalmente schiacciato sotto le ruote dell’auto”, racconta il padre di Yassine Bouguettaya, inumato a Laayoune mercoledì 10 novembre. (L’inviato speciale di Tel Quel riporta solo le testimonianze degli aggressori, si guarda bene dal riprendere le denunce delle vittime, i saharawi, ndt)
Alla fine saranno (almeno) 10 elementi delle forze dell’ordine a perdere la vita nel corso di questi scontri.
Come si spiega un bilancio così pesante? “I militari avevano ricevuto l’ordine preciso di non fare ricorso alle armi da fuoco. Lo smantellamento del campo doveva avvenire pacificamente (sic!), senza alcuna vittima civile”, spiega un militare che vuole restare anonimo.  Sarà, ma come è possibile non sparare quando la propria vita è in pericolo? “La disciplina di questi militari è stata sbalorditiva, quasi sovrumana, afferma un responsabile dell’amministrazione territoriale di Laayoune. Se avessero fatto ricorso alle armi da fuoco, vi sarebbe stata una vera e propria carneficina, tenuto conto della densità della popolazione del campo e la complessità del terreno di operazioni”  (Ed è proprio una carneficina ciò che denunciano sia il Fronte Polisario che i militanti saharawi di Laayoune, mentre il Marocco vieta l’ingresso di osservatori indipendenti nei territori, lasciando entrare solo giornalisti “embedded”  come l’inviato speciale di Tel Quel, ndt).
 
Orrore in città
Poco prima delle 9, la situazione degenera pericolosamente. Gli insorti forzano i posti di controllo e si dirigono verso la città. Vi giungono dalla strada per Smara. Decine di Land-Rover, con ognuna a bordo decine di giovani incappucciati, armati di coltelli o randelli, seminano il terrore a Laayoune. “Non tutti provenivano dal campo, riferisce un giornalista locale. Alcuni si sono uniti agli insorti provenendo dalle loro case del centro città”. A metà mattinata, l’avenue di Smara (una delle più importanti arterie di Laayoune) cade nelle mani degli insorti. Vi installano delle barricate improvvisate e saccheggiano il CRI, la Corte d’Appello, la sede dell’Anapec, la sede della regione, oltre a diversi  uffici amministrativi… Danno fuoco a decine di auto e distruggono molti negozi, appartenenti per la maggior parte a coloni marocchini. A qualche centinaio di metri da piazza Dchira, i manifestanti incendiano un deposito di vernici al pian terreno di uno stabile di quattro piani. La deflagrazione è assordante. Lo stabile è avvolto immediatamente da una spessa coltre nera. Viene evacuato d’urgenza.
Gli insorti avanzano adesso verso la città. Collocano delle bandiere del Polisario sulle vetrine di alcuni negozi, gridando freneticamente Allah Akbar. Anche le banche sono prese a bersaglio. Le casseforti di due sportelli automatici, nonostante siano solidamente incassate nel muro, sono letteralmente divelte dai manifestanti. Laayoune vive le sue ore peggiori dai moti del 1999.
Nel caos, un membro delle Forze Ausiliarie viene freddamente sgozzato da uno degli insorti, nel bel mezzo della folla. I manifestanti formano un cerchio di pietra intorno alla spoglia e l’esibiscono come un trofeo di guerra. Un altro funzionario viene schiacciato da una Land Rover che cercava di fuggire dopo aver dato fuoco ad un ufficio pubblico. “La rapidità di esecuzione e l’organizzazione di queste truppe è spaventosa, riferisce una fonte che ha assistito a questi atti di vandalismo. Ogni gruppo di insorti era composto da una trentina di persone a piedi, seguito da quattro auto piene di coltelli, bottiglie Molotov e di pietre. Davanti a ogni gruppo, una guida indicava i luoghi da attaccare e quelli da lasciare stare”. Cosa faceva la polizia intanto? “La maggior parte delle forze di sicurezza era ancora impegnata nel campo. Nel centro della città, i rari poliziotti presenti si limitavano a dare la caccia a qualche gruppo e poi battevano in ritirata aspettando rinforzi”, racconta un  testimone. Alla fine della mattinata gli insorti controllavano diversi quartieri della città. Spesse nuvole di fumo nero vagano nel cielo di Laayoune.

All’assalto di Laayoune TV
Alle 11.30 gruppi di insorti forzano la barriera di sicurezza della televisione regionale di Laayoune. Più di venti persone si introducono nei locali dell’emittente. “Volevano bruciare lo studio e cercavano di mettere le mani sul direttore della stazione. Secondo loro, Laayoune TV è uno strumento della propaganda marocchina che bisognava a ogni costo distruggere”, confida un giornalista presente al momento dell’attacco. Interviene d’urgenza il prefetto di polizia, scortato da un battaglione militare. Gli insorti scappano ma riescono a bruciare due auto e sequestrano un agente della Scurezza. Questo sarà rilasciato qualche ora più tardi. “Questa insurrezione non è stata improvvisata, spiega un responsabile dei servizi di sicurezza. I ribelli avevano un messaggio da trasmettere. Essi hanno attaccato solo i beni dei coloni marocchini per terrorizzarli e spingerli ad andarsene. Bruciando veicoli ed edifici pubblici, intendevano contestare la sovranità marocchina in Sahara. Uccidendo i militari e risparmiando i civili, assumono metodi da milizia e dichiarano guerra aperta alle autorità”. Vi è stato decisamente un salto di qualità.
Poco prima di mezzogiorno, si organizza la risposta dei coloni marocchini. Gruppi di giovani e meno giovani scendono in strada, decisi a difendere i loro negozi e i loro beni. E assalgono quasi esclusivamente edifici di proprietà di saharawi e si rendono protagonisti di diversi atti di vandalismo. “Alcuni hanno perfino eretto dei posti blocco dove occorreva gridare “Viva il re” per passare senza problemi”, racconta un testimone (ciò che il testimone non racconta, o l’inviato speciale non riporta, è che questi coloni erano protetti e sostenuti dalla polizia mentre compivano atti di saccheggio, ndt)
Alle 13 l’esercito entra in città. I militari sono accolti da salvatori o da liberatori, con grida e slogan nazionalisti (dai coloni naturalmente, non dai saharawi, ndt). Molti coloni montano addirittura sui veicoli militari e agitano nervosamente la bandiera marocchina. L’operazione di smantellamento del campo intanto si avvia al termine.  65 persone sono fermate. Si contano centinaia di feriti, soprattutto tra le forze dell’ordine (oltre ai decessi). A mezzogiorno la città è quasi irriconoscibile. Le truppe prendono posizione nei principali incroci. I militari assaltano con violenza alcune abitazioni alla ricerca dei fuggitivi. In serata, vetture con altoparlanti “raccomandano” alla gente di rientrare in casa. Laayoune si lecca silenziosamente le sue ferite.

Martedì 9 novembre: non è più Laayoune…
 Alle prime luci dell’alba la città offre uno spettacolo desolante. “Attraversando l’avenue Smara, mi sono sentito come a Bagdad o a Gaza sotto le bombe. Non avrei mai creduto di vivere una simile esperienza”, afferma un militante associativo di Laayoune. Le scuole restano chiuse, e anche i negozi, i caffè, le banche, gli uffici dell’amministrazione. A mezzogiorno una fila interminabile si forma davanti ad una delle rare boulangerie aperte. Nelle case ci si pone delle domande: chi sono i responsabili della rivolta? Cosa volevano ottenere? Come spiegare tanta violenza?
“A Laayoune vi è stato prima di tutto un pericoloso disservizio in termini di sicurezza, tuona un osservatore. Lo Stato avrà forse avuto ragione a smantellare il campo, a non ricorrere alle armi, ma perché non ha posto in sicurezza la città? Eppure le autorità sapevano che migliaia di persone, per lo più scontente, si sarebbero riversate a Laayoune, che avrebbero potuto fomentare disordini. Il comportamento delle autorità e inspiegabile”.
Malgrado i nostri ripetuti tentativi, nessun responsabile locale né alcun rappresentante del ministero dell’interno ha voluto rispondere alle domande che abbiamo loro rivolte a questo proposito. Anche l’identità dei fautori dei disordini resta un mistero. “I militanti indipendentisti non hanno mai ucciso nessuno. Degli abitanti scontenti non possono spontaneamente mettere a ferro e fuoco la città. Di fatto, tenta di analizzare un osservatore, ci siamo trovati di fronte a delle vere e proprie milizie addestrate per questo genere di operazioni. Una sorta di cellula dormiente che ha approfittato dell’occasione per passare all’azione”. Un’altra fonte, vicina agli ambienti giudiziari, spiega che “diverse frange di popolazione si sono di fatto coalizzate per realizzare l’insurrezione”. Ci sono certamente attivisti indipendentisti estremisti, abituati alle bottiglie molotov e agli scontri con le forze dell’ordine. A questi si sono certamente aggiunti abitanti e responsabili del campo di Agdim Izik, furiosi per lo smantellamento del loro “piccolo regno” ed anche qualche sfaccendato, esaltato dal caos generalizzato.
Ma nel gruppo, precisa la nostra fonte, “c’è senz’altro della gente che aveva un programma ben preciso e dei metodi criminali importati, come quello di sgozzare i militari”. Il riferimento all’Algeria è appena velato. Molti insorti sono giovani che hanno raggiunto in massa il Marocco, l’estate scorsa, provenienti dai campi di Tindouf, senza alcun controllo di identità, prosegue la nostra fonte.  Sono stati spalleggiati dalla mafia del contrabbando, a corto di affari dopo che il Marocco ha bloccato l’accesso delle frontiere a sud”. Secondo le ultime notizie, dei algerini sarebbero stati arrestati questa settimana a Laayoune. Che cosa vi facevano? Sono coinvolti negli atti di violenza che hanno sconvolto la città? Mistero. “Si sa per contro che molte persone fermate potrebbero essere perseguite per atti di terrorismo, davanti al tribunale competente, a Rabat e Salé”, confida una fonte giudiziaria. Uno scoop.

Mercoledì 10 novembre: le voci si rincorrono
La città si sveglia con una voce inquietante. Gli insorti ancora in libertà avrebbero cominciato a rapire i bambini. Falso allarme. Alcuni militanti e giornalisti ricevono minacce di morte per telefono. Molti hanno scelto di lasciare momentaneamente i loro domicili e di istallarsi in hotel, o a casa di parenti o amici. “Vuol dire che non è ancora finita, sospira un militante associativo. L’ordine è forse ristabilito, ma il panico si impossessa di tutti gli abitanti”. A partire da mezzogiorno, la vita riprende dolcemente in tutte le principali avenue di Laayoune. Ogni tanto si vedono camion trasportare le auto bruciate durante i moti. “Ci vorranno almeno due settimane per pulire e non meno di un anno perché gli immobili e gli uffici saccheggiati siano sistemati del tutto”, afferma un deputato locale. A mezzogiorno arrivano il ministro dell’interno e il direttore generale della DGSN (servizi di informazione), ma si chiudono negli uffici della wilaya.
Poco dopo la preghiera di Al Asr, uno dei militari uccisi nel corso degli scontri di lunedì viene inumato nel cimitero del quartiere industriale di Laayoune. Per le autorità vi è solo un governatore locale. Le esequie ufficiali (si possono a questo punto definire così?)si concludono nel giro di qualche minuto. Il padre del defunto riceve la bandiera nella quale era avvolta la spoglia di suo figlio. Frena le lacrime, mentre getta un ultimo sguardo alla tomba ancora fresca, senza dubbio contrariato per la scarsa considerazione riservata a un soldato caduto per la patria.



Comunicazione. Servizio minimo
I militari caduti a Laayoune vengono inumati con discrezione, uno dopo l’altro, in diverse città del paese. Perché non hanno diritto a esequie ufficiali, visto che sono morti nell’esercizio delle loro funzioni?
Perché il Marocco non comunica (o lo fa assai timidamente) i dati delle perdite subite tra gendarmi, poliziotti e Forze ausiliarie? “Il comportamento delle autorità è molto strano. Parlando di questi morti, le autorità potrebbero migliorare il morale delle truppe massicciamente presenti nel Sahara occidentale. Politicamente queste comunicazioni permetterebbero anche di sottolineare il carattere criminale e selvaggio dei fautori dei disordini e di qualche indipendentista”, considera una fonte giornalistica a Laayoune. I responsabili del ministero dell’interno giocano in realtà la carta della prudenza. “Le accuse nei confronti degli arrestati potrebbero essere gravissime – precisa una fonte poliziesca di Laayoune – come anche le connessioni che potrebbero essere scoperte con delle organizzazioni straniere. Tutto questo sarà comunicato a tempo debito. Ma, per il momento, i responsabili preferiscono rispettare la procedura ed evitare un fracasso che potrebbe togliere credibilità a tutta l’operazione”.  (e il giornalista “embedded” se la beve… ndt)