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ProfileIntervento, settembre 2017 - Sono almeno venti anni che a Napoli il problerma dei campi Rom viene affrontato ricorrendo al fuoco e alla violenza. Sullo sfondo, le inerzie e le incapacità di governo delle amministrazioni comunali (nella foto, il rogo del campo Rom di Cupa Perillo)
 
Corriere del Mezzogiorno (editoriale), 6 settembre 2017
 
I pogrom di Napoli contro i Rom
Nicola Quatrano
 
Per considerare «nuovo» e positivo il modo in cui si sta affrontando l’ennesima emergenza dell’incendio nel campo rom di Cupa Perillo, c’è bisogno di una buona dose di autoreferenzialità. E anche di un pizzico di ingenuità, dato che spesso qualcosa sembra «nuovo», per la semplice ragione che non se ne conosce la storia
 
L'incendio del campo Rom di Cupa Perillo
 
La trama, in realtà, è di quelle già troppe volte viste. L’insediamento di Cupa Perillo era «abusivo» e ci abitavano più di 700 persone, ma Regione, Città Metropolitana (entità inconsistente che, per dare un segno di vita, ha recentemente deciso di assumere 27 staffisti) ne hanno semplicemente ignorato la presenza per anni. L’amministrazione de Magistris, dal canto suo, si era impegnata in un piano di alloggi e infrastrutture alternativo, che si è perso però nei meandri dell’inefficienza comunale, ed è oggi inesistente come la Città Metropolitana senza staffisti. Con una perdita peraltro di 7 milioni di fondi europei, come ha denunciato Andrea Cozzolino.
 
Il campo era «abusivo», dicevamo, e capitava talvolta che l’Autorità se ne ricordasse, ma solo per mandare squadre di operai incaricati di tagliare gli allacci volanti di acqua ed elettricità. Più spesso se ne ricordavano gli abitanti di Scampia (e non solo), che lo usavano come discarica per rifiuti di difficile smaltimento. Rifiuti che i servizi comunali non rimuovevano (anche se in gran parte si trattava di monnezza di napoletani «non abusivi») e che dunque ogni tanto bisognava bruciare, qualunque cosa contenessero. Insomma, una spirale di degrado infinita, cui da anni si sarebbe dovuto porre rimedio. E infatti erano in programma uno sgombero e la messa in opera di soluzioni alternative. Il fuoco si è dimostrato senz’altro più efficace.
 
È così da venti anni. Nel 2014 fu il turno del campo di via del Riposo, anch’esso abusivo, anch’esso da tempo immemorabile in attesa di essere sgombrato, con trasferimento degli occupanti in altro sito. Ci hanno pensato gli abitanti del quartiere a cacciarli brutalmente con minacce e bastoni. Stesso scenario nel 1999, nel campo sorto spontaneamente sotto il ponte della metropolitana di Scampia, anche allora si risolse la questione con il fuoco. Nel 2008, a Ponticelli, fu la tecnica dell’aggressione e dell’intimidazione violenta che allontanò i rom che il comune non riusciva a collocare altrove. Nel 2011, ancora un incendio liberò un edificio occupato della Maddalena, che il proprietario inutilmente rivendicava da tempo. Sempre nel 2011, un altro incendio sgombrò il campo di Gianturco e, nel 2012, quello di san Pietro a Patierno. Insomma pare che solo la violenza estrema riesca a «risolvere» situazioni che l’inerzia degli amministratori e la loro incapacità di governo lascia incancrenire per anni. Una bella contraddizione per una città che si oppone a Salvini perché «xenofobo e razzista», e poi usa il fuoco e i bastoni al posto delle ruspe.
 
Anche le soluzioni che si stanno adottando per assistere gli sgombrati hanno il carattere del dejà vu, oltre ad essere foriere di nuove tensioni (come le polemiche di questi giorni dimostrano). Una parte degli sfollati è stata collocata nell’Auditorium di Scampia, con gradoni che potrebbero risultare fatali ai bambini, gli altri nella caserma Boscariello di Miano, un quartiere privo di servizi che da tempo sperava di trasformare questa struttura in una «cittadella dello sport». Insomma il problema viene scaricato come al solito sui cittadini più poveri e penalizzati (a nessuno è venuto in mente di collocare «provvisoriamente» gli sgombrati nella villa comunale, o a Posillipo o nella Floridiana). In vista, dunque, nuove tensioni… e altri incendi.
 
Al centro di questa storia di poveri contro poveri, di inerzie amministrative che favoriscono soluzioni violente, c’è poi un popolo mal sopportato, la cui cultura è così irriducibilmente diversa da risultare indigeribile. Un popolo che ha le sue «cattive» abitudini e che ha subito (anche se nessuno sembra ricordarlo) l’Olocausto nazista proprio per i suoi «comportamenti asociali», la sua «propensione a delinquere», perché «ruba i bambini e li fa caritare». Generalizzazioni, a volte falsità, che però sopravvivono e ancora alimentano violenze e pogrom, come quelli napoletani.
 
Un popolo che è invece vario e diverso, non riducibile agli stereotipi diffusi tra i «gagé» (gli altri, in lingua Rom), e che ha certamente i suoi ladri, ma del quale bisognerebbe conoscere anche la musica, la poesia. Basta andare a Saintes Maries de la Mer, nella Camargue, per la grande festa di Santa Sara la Nera, e farsi prendere dall’allegria dei colori, dalle raffinate sonorità, dalla civiltà delle corride non cruente, dall’antica spiritualità che aleggia nel vento. Diceva con ragione Fabrizio de André che il popolo Rom andrebbe insignito del premio Nobel per la pace, per il solo fatto di girare il mondo da 2000 anni senza armi, senza intenti offensivi, senza velleità di conquista, col solo scopo di vivere, di fare dell’aria azzurra la propria casa.