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ProfileAnalisi, ottobre 2017 - Trent’anni fa, il 15 ottobre 1987, veniva ucciso il presidente del Burkina Faso Thomas Sankara (nella foto), in un complotto organizzato da Francia, Stati Uniti e militari liberiani. Un omaggio alla sua memoria

 

Oumma, 19 ottobre 2017 (trad. Ossin)
 
Solo la sovranità è progressista
Bruno Guigue
 
Durante il 25° summit dei paesi membri dell’Organizzazione dell’Unità africana, il 26 luglio 1987, il presidente del Consiglio nazionale rivoluzionario del Burkina Faso denunciava in questi termini il nuovo asservimento dell’Africa: “Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato i soldi sono quelli che ci hanno colonizzato, sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie, sono i colonizzatori che hanno indebitato l’Africa.” Il debito del Terzo Mondo è il simbolo del neo colonialismo. Esso perpetua il diniego di sovranità, piegando le giovani nazioni africane ai desiderata delle ex Potenze coloniali.
 
Thomas Sankara
 
Ma il debito è anche il sistema progressivo con cui si abboffano i mercati finanziari. Prelievo parassitario sulle economie fragile, esso arricchisce I ricchi dei paesi sviluppati a detrimento dei poveri dei paesi in via di sviluppo. “Il debito (…) dominato dall’imperialismo è una conquista sapientemente organizzata perché l’Africa, la sua crescita, il suo sviluppo obbediscano a norme che ci sono completamente estranee, facendo in modo che ognuno di noi divenga lo schiavo finanziario, o meglio lo schiavo tout court di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’astuzia, la furberia di piazzare i fondi da noi con l’obbligo di rimborsarli”.
 
Decisamente era troppo. Il 15 ottobre 1987, Thomas Sankara cadde sotto i colpi di congiurati, a beneficio della “Francafrica” e dei suoi fruttuosi affari. Ma il capitano coraggioso di questa rivoluzione soffocata aveva detto l’essenziale: un paese non può avere sviluppo se non è sovrano, e questa sovranità è incompatibile con la subalternità al capitale mondializzato. Confinante col Burkina Faso, la Costa d’Avorio ne sa qualche cosa: colonia specializzata nella monocoltura di esportazione del cacao fin dagli anni 1920, è stata rovinata dalla caduta dei prezzi e trascinata nella spirale infernale del debito.
 
Il mercato del cioccolato vale 100 miliardi di dollari ed è controllato da tre multinazionali (une svizzera, una statunitense ed una indonesiana). Con la liberalizzazione del mercato voluta dalle istituzioni finanziarie internazionali, queste multinazionali dettano le loro condizioni all’insieme della filiera. Nel 1999, lo FMI e la Banca Mondiale hanno preteso la soppressione del prezzo garantito al produttore. Siccome il prezzo pagato ai piccoli coltivatori si è dimezzato, questi utilizzano per sopravvivere centinaia di migliaia di bambini-schiavi. Impoverito dalla caduta dei prezzi legata alla sovrapproduzione, il paese è anche costretto a ridurre le tasse sulle imprese. Privato delle sue risorse, schiavo del debito e giocattolo dei mercati, il paese è in ginocchio.
 
La Costa d’Avorio è un caso di scuola. Un piccolo paese dall’economia fondata sulle esportazioni (il cacao rappresenta il 20% del PIL e il 50% dei proventi dell’esportazione) è stato letteralmente fatto naufragare da stranieri che mirano solo a massimizzare i loro profitti con la complicità delle istituzioni finanziarie e la collaborazione dei dirigenti corrotti. Thomas Sankara l’aveva capito: se è asservita ai mercati, l’indipendenza di un paese in via di sviluppo è una pura finzione. Se non molla i legami con la mondializzazione capitalista, si condanna alla dipendenza e alla povertà. In un libro profetico pubblicato nel 1985, Samir Amin definiva questo processo di rottura “la deconnessione dal sistema mondiale”.
 
Quando si analizza la storia dello sviluppo, un fatto salta agli occhi: i paesi messi meglio sono quelli che hanno pienamente conquistato la loro sovranità nazionale. La Repubblica popolare cinese e I nuovi paesi sviluppati dell’Asia orientale, per esempio, hanno promosso politiche economiche proattive e promosso una industrializzazione accelerata. Queste politiche si fondavano – e ancora si fondano largamente – su due pilastri: la programmazione statale delle iniziative pubbliche e private e l’adozione più o meno sistematica di un protezionismo selettivo.
 
Questa constatazione dovrebbe essere sufficiente a spazzar via le illusioni dell’ideologia liberale. Lungi dal fondarsi sul libero gioco delle forze di mercato, lo sviluppo di molti paesi è il risultato, nel XX secolo, di una combinazione di iniziative delle quali lo Stato ha dettato sovranamente le regole. Da nessuna parte si vede uscire lo sviluppo dal cilindro magico delle economie liberali. Dovunque è stato l’effetto di una politica nazionale e sovrana. Protezionismo, nazionalizzazioni, crescita della domanda interna, educazione per tutti: è lunga la lista delle eresie grazie alle quali questi paesi hanno scongiurato – in modo diverso e a prezzo di varie contraddizioni – i tormenti del sottosviluppo.
 
Non me ne vogliano gli economisti da salotto, la storia insegna il contrario di quello che pretende la teoria: per uscire dalla povertà, è meglio la morsa di uno Stato sovrano della mano invisibile del mercato. E’ così che la pensano i Venezuelani che tentano dal 1998 di restituire al popolo i ricavati della manna petrolifera privatizzata dall’oligarchia reazionaria. E’ quello che volevano fare Mohamed Mossadeq in Iran (1953), Patrice Lumumba in Congo (1961) e Salvador Allende in Cile (1973) prima che la CIA li facesse sparire dalla scena. E’ quello che Thomas Sankara voleva per un’Africa caduta nella schiavitù del debito all’indomani della decolonizzazione.
 
Si obietterà che questa diagnosi è sbagliata, dal momento che la Cina ha proprio conosciuto uno sviluppo folgorante a causa delle riforme liberali di Deng. E’ vero. Una iniezione massiccia di capitalismo mercantile nelle zone costiere ha garantito tassi di crescita fantastici. Ma questa verità non deve far dimenticare che nel 1949 la Cina era un paese miserabile, devastato dalla guerra. Per uscire dal sottosviluppo ha fatto sforzi colossali. Le mentalità arcaiche sono state scosse, le donne emancipate, la popolazione educata. A prezzo di molte contraddizioni, le infrastrutture del paese, la nascita di un’industria pesante e lo statuto di potenza nucleare sono stati conquistati durante il maoismo.
 
Sotto lo stendardo di un comunismo ridipinto coi colori della Cina eterna, Mao ha posto in essere le condizioni materiali dello sviluppo futuro. Se oggi in Cina si costruisce ogni anno l’equivalente dei grattaceli di Chicago, non è perché la Cina è diventata capitalista dopo aver conosciuto il comunismo, ma perché essa ne ha realizzato una specie di sintesi dialettica. Il comunismo ha unificato la Cina, le ha restituito la sua sovranità e l’ha liberata degli strati sociali parassitari che ne ostacolavano lo sviluppo. Molti paesi del terzo mondo hanno tentato di fare lo stesso. Molti di essi hanno fallito, di solito a causa di un intervento imperialista.
 
In materia di sviluppo, non esiste alcun modello. Ma solo un paese sovrano che si sia dotato di una velatura sufficiente può affrontare i venti della mondializzazione. Senza la capacità di tenere sotto controllo il suo proprio sviluppo, un paese (anche ricco) rischia la dipendenza, condannandosi all’impoverimento. Le multinazionali e le istituzioni finanziarie internazionali hanno preso nelle loro reti molti Stati che non hanno alcuna convenienza ad obbedire loro. Leader di uno di quei piccoli paesi presi alla gola, Thomas Sankara rivendicava il diritto dei popoli africani all’indipendenza e alla dignità. Egli restituiva i colonialisti di ogni tipo al loro orgoglio e alla loro cupidigia. Sapeva soprattutto che il bisogno di sovranità non è negoziabile e che solo la sovranità è progressista
 
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