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Cf2R (Centre Français de Recherche sur le Renseignement), 1° maggio 2014 (trad. Ossin)


Donne kamikaze, o della jihad al femminile

Fatima Lahnait (*)



"L'inchiostro del sapiente è più sacro del sangue dei martiri" (1)


Il 23 ottobre 1983, un kamikaze appartenente al partito sciita (2) Hezbollah provocò la morte di 241 soldati statunitensi in un attacco suicida contro la sede dei Marin a Beirut. Quasi simultaneamente, l'edificio Drakkar, che ospitava i soldati francesi, fu
anch'esso bersaglio di un attentato: 58 paracadutisti uccisi (3). Due mesi dopo, il presidente Ronald Reagan ritirò le truppe dal Libano. L'impatto di questa azione fu avvertito in tutto il mondo e questa azione viene ancora oggi spesso citata da Al Qaida (4).


Il 9 aprile 1985, Sana Khyadali, una giovane libanese di 16 anni, si fece esplodere al volante di un'auto imbottita di tritolo, vicino ad un convoglio militare israeliano, uccidendo due soldati. Fu la prima donna a commettere un attentato suicida in Medio Oriente. Tra il 1985 e il 1986, cinque altre donne intrapresero azioni di questo tipo in Libano.


Gli attentati suicidi sono stati utilizzati in Medio Oriente, fin dall'inizio degli anni 1980, in Libano (avvenimenti determinanti nell'utilizzazione dello "shahid", martire) e nel conflitto Iran-Iraq. Simili attacchi sono diventati dei punti di riferimento per il terrorismo (5) mondiale e hanno suscitato vocazioni.



Sana Khyadali



Se le azioni estreme non sono, tuttavia, un fenomeno nuovo, la partecipazione delle donne a questi atti di carneficina e di dolore devastante ha sempre suscitato un combinato di stupore, ripulsa e pubblico interesse (6). Come comprendere il desiderio di morte di queste donne che aspirano a morire ma anche ad uccidere? Perché scelgono di indossare una cintura esplosiva e di morire in nome di Allah, della liberazione della Palestina o della Cecenia?


All'origine delle azioni kamikaze: l'ispirazione giapponese

In giapponese, l'espressione kamikaze significa "vento divino". In origine essa designava il tifone che distrusse, alla fine del XIII° secolo, una parte della flotta mongola venuta a invadere il Giappone, consentendo ai samurai di vincere l'invasore (7).


Questo episodio ispirò, durante la Seconda Guerra Mondiale, la creazione di una unità aerea con compiti di missioni suicide, improntata alla tradizione samurai della fedeltà e dell'onore fino alla morte. Le navi statunitensi si avvicinavano all'arcipelago giapponese e l'aviazione doveva ritardarne l'avanzata per difendere l'integrità territoriale. Arrendersi non era auspicabile. I raid kamikaze debuttarono allora nell'ottobre 1944 in un contesto di disperazione.


I tokkotai, giovani aviatori all'inizio volontari, avevano ricevuto una formazione sommaria. Si attaccavano alla cintura delle granate per far sì che l'impatto dei loro apparecchi, lanciati contro le navi da guerra statunitensi, provocasse danni importanti. Si annodavano anche intorno al capo una fascia bianca tradizionale decorata con un sole rosso, come facevano i samurai prima del combattimento. Prima di partire all'attacco, si riunivano intorno al loro ufficiale superiore per recitare il tanka, un poema di addio, con riferimento al dovere del sacrificio, poi bevevano un ultimo saké (alcol di riso).


Alcuni kamikaze hanno espresso, nelle ultime lettere scritte alle famiglie, la tristezza di dover morire per salvare la patria. Ma non potevano rifiutarsi di sacrificarsi, per paura di subire, loro e le famiglie, l'onta del disonore. Gli aerei dei kamikaze non avevano sufficiente carburante per potere tornare alla base ed erano spesso scortati, nella loro unica e ultima missione, fino al raggiungimento del bersaglio.


Le donne Giapponesi non sono state coinvolte nelle azioni suicide. Molte sono coloro che, per contro, si sono suicidate gettandosi nel vuoto coi loro figli, dall'alto delle scogliere delle loro isole all'arrivo degli Statunitensi.


La cintura di esplosivo e la benda, questa volta decorate con citazioni religiose, intorno alla testa sono gli ornamenti cui si sono ispirati i kamikaze mussulmani, candidati al martirio, per esibirsi nei messaggi registrati prima delle operazioni. Si tratta dell'unica somiglianza che si può rinvenire tra i tokkotai, elementi delle forze armate di un paese in guerra che si ponevano obiettivi militari, e i kamikaze contemporanei (8).



I kamikaze nella jihad

I motivi che spingono qualcuno a entrare nel rango dei martiri (9) possono collegarsi a differenti fattori: turbe psichiche, pressione sociale, disonore, ideologia religiosa, aspetti finanziari (le retribuzioni alle famiglie), situazioni di repressione, lotta per l'emancipazione. E anche le donne sono sensibili all'appello alla jihad. "Se vi fate esplodere e ucciderete i nemici dell'islam, voi pranzerete col profeta", è uno degli argomenti usati per convincere i candidati ad un attentato suicida (10).


Secondo Hegel, la lotta per il riconoscimento di sé comporta uno scontro tra padrone e schiavo, ma non prevede la morte. Se lo schiavo muore, il padrone non potrà più esercitare la propria egemonia e il suo dominio (11). Il ricorso alla sacralità del martirio significa che la lotta per il riconoscimento può oramai prevedere anche la morte - in una dimensione più spettacolare - allo scopo di guadagnarsi una dignità immaginaria fuori da un mondo che nega a quel soggetto ogni dignità. Per reclutare kamikaze di ogni età, le organizzazioni terroristiche devono dunque sviluppare il culto del martirio.


Nel Corano, l'espressione istishhad deriva dalla radice araba shahada, significa testimoniare, e non morire di una morte santa.


Ogni volta che "morire per Allah" viene menzionato nel Corano, è nell'ambito di espressioni come "uccidere per la causa di dio" (sura II versetto 154) o "lottare per la causa di dio" (sura IV versetto 74) (12). "La causa/la via di dio" (Sabil Allah) è l'espressione più importante che viene utilizzata per indicare ciò che verrà poi conosciuto con l'espressione "martire" (13). I primi mussulmani che hanno sofferto o perso la vita per avere professato l'unicità di dio sono per definizione "martiri".

Nelle società mussulmane, il martire, shahid, è un personaggio a metà strada tra l'eroe e il santo: è colui che muore lungo la via di dio, al servizio della Umma (nazione dell'islam, l'insieme dei mussulmani), partecipando ad una jihad (guerra santa), che testimonia della sua fede con il sacrificio di sé.


L'interpretazione dell'espressione jihad (esercitare una forza, sforzarsi) ha continuato a evolvere nel corso dei secoli. Nel Corano si trova l'espressione "al jihad bi anfusikum" (lottare con la vostra anima) o anche "al jihad fi sabil" (impegnatevi nel cammino di dio). Fi sabil Allah significa anche "per l'amore di dio, per la causa di dio".

La jihad offensiva è ispirata alla volontà di distruggere il nemico dell'islam ricorrendo ad una violenza legittimata dalla religione. La lotta implica l'uccisione dell'avversario, di volta in volta l'infedele e l'oppressore (14).


Numerosi sapienti mussulmani interpretano la jihad essenzialmente come una lotta nel senso spirituale. La jihad più importante è quella rivolta verso se stessi, verso la ricerca della conoscenza, della perseveranza di fronte alle prove della vita, la pratica di un buon comportamento. Mentre la lotta armata è un aspetto secondario della jihad, rivolta verso l'esterno.


Lo shahid versa il suo sangue per dare così testimonianza della verità della sua fede. Si considera come un combattente che non può infliggere perdite al nemico se non sacrificandosi. Si tratta di un ideale di resistenza che impone di giungere fino a morire al servizio di una causa considerata come sacra.


In tal modo, le organizzazioni terroristiche islamiste usano la religione per legittimare e perdonare il suicidio che comporta la morte anche di altri, indicando delle ricompense post mortem che spetterebbero al martire, come il perdono di tutti i peccati, un posto in Paradiso, l'intercessione in favore di settanta membri della famiglia, l'esenzione dai patimenti della tomba, la gratificazione di settantadue vergini.
Ci si può allora interrogare sulla prima motivazione dello shahid: è la causa che si difende o il Paradiso sperato?



L'esclusione delle donne dalla santità e dal martirio nel monoteismo


"La donna è un essere necessariamente sottomesso all'uomo ed è  conseguentemente inadatta ad assumere funzioni di autorità" - San Paolo


Nella cultura ebraica non si è sviluppato un equivalente del termine "martire". L'espressione utilizzata in ebraico per designare il martire è kiddoush hashem (15), che vuole dire "santificazione del nome di dio", per la difesa del quale, in certi casi estremi, l'ebreo può giungere a sacrificare la sua vita e morire da martire. Dovrà allora recitare il "chema", la preghiera principale del giudaismo, vera e propria professione di fede che ricorda l'unicità di dio, come fecero i martiri ebrei dell'antichità (16).


In latino e in greco, la parola "martire" che designa il suppliziato, ha anch'essa una radice che significa "testimonianza". La nozione cristiana di martire, il supplizio, è legata alle sue origini ebraiche, la storia dei martiri ebraici maccabei, II° secolo avanti Cristo, integrata dalla storia del cristianesimo greco del IV° secolo (17). Nel cristianesimo, essere un martire, un santo, significa occupare un posto importante nel campo religioso. Questa "carriera" di santo è tuttavia quasi esclusivamente riservata agli uomini. Lo stesso dio è un personaggio maschile, egli è il padre ed ha avuto un figlio, non una figlia.


Le donne, dal canto loro, non possono diventare sante se non attraverso sofferenze estreme che esse stesse si infliggono (flagellazioni, digiuni estremi) o che subiscono, come le "vergini martiri" dei primi secoli del cristianesimo, che hanno rifiutato di rinunciare alla loro fede.


Anche nell'islam, nonostante che qualche donna mussulmana abbia preso parte a degli attentati suicidi negli ultimi anni, esse non sono rappresentate nel pantheon dei martiri iraniani o di Al Qaida. Il martirio delle donne non ha ancora infatti un suo posto nella jihad. Una esclusione deliberata che fa di esse dei cittadini di secondo piano, con una acquiescenza più o meno tacita da parte loro.


Infatti i partigiani di Al Qaida, che hanno vissuto per anni nelle società occidentali moderne, e si sono iniziati alle tecnologie di punta (tecnologie dell'informazione, ingegneria moderna, ecc), non hanno imitato l'Occidente in tema di relazioni uomo-donna. In questo campo, essi hanno deliberatamente scelto di mantenersi fuori dal modello occidentale, tenuto conto che "la famiglia è uno degli spazi dove è possibile costruire una identità islamica, profondamente differente dall'identità occidentale" (18).


Secondo loro i generi sono complementari ma non uguali. Il ruolo della donna è di prendersi cura della famiglia, e il compito dell'uomo è di assicurarle una vita decente e assicurarsi che non le manchi nulla. Il posto della donna è in casa, quello dell'uomo è nello spazio pubblico. Le donne dovrebbero essere caste e pudiche, gli uomini dovrebbero essere virili e proteggere l'onore della famiglia. Questa ideologia, vecchia come il mondo, non ha evidentemente niente di specificamente islamico.


Ma nella realtà, le relazioni tra gli uomini e le donne nelle società mussulmane contemporanee sono rette da una dialettica in cui le donne, che sono state madri, sorelle, figlie o mogli, sono sempre più indipendenti e sfidano lo statuto degli uomini come soli attori sociali nell'ambito pubblico. Le donne sono il tallone d'Achille delle civiltà mussulmane che conoscono profonde trasformazioni.


Gli uomini tentano di opporsi a questa inevitabile evoluzione, irrigidendo di più il divario uomo-donna. L'apparente assenza di cambiamento che si constata non  è la difesa di un comportamento tradizionale, ma piuttosto un tentativo di regressione legato ad un riflesso identitario, un rifiuto di riconoscere i cambiamenti in corso, che provoca una nuova forma di rigidità.


Il rifiuto da parte dell'uomo di permettere alle donne di mettere in pericolo la loro vita rientra in questo tentativo di resistenza alla evoluzione in corso. L'obiettivo non è di tutelarle, ma di privarle del diritto alla individualità attraverso un battesimo del fuoco. Infatti la sacralizzazione dell'individuo eroico permetterebbe loro di emergere, di apparire realmente nello spazio pubblico come individui. A partire dal momento in cui le donne sacrificassero la loro vita per ciò che ritengono essere una nobile causa, gli uomini sarebbero costretti a dover riconoscere la loro preminenza sociale.


In Iran, uno degli slogan di Hezbollah era "il pudore delle donne è garantito dal sangue dei martiri" (19). Il diniego di accordare alle donne l'accesso allo spazio pubblico e il loro mantenimento sotto il dominio degli uomini sono, in altri termini, giustificati dal sangue che gli uomini versano come martiri. Gli uomini acquistano in tal modo uno stato di superiorità che le donne non possono raggiungere perché esse non hanno accesso ad una morte santa.


Non potendo porre la loro vita in pericolo, esse sono poste "sotto la protezione degli uomini", che così negano loro il diritto all'autodeterminazione nel campo del profano. La dissimmetria sociale viene perpetuata, addirittura esacerbata.


Le donne si vedono rifiutare l'accesso al rango di martire a causa di un tabù sociale immutabile piuttosto che per ragioni politiche. Sia in Iran, che in Algeria, in Egitto o in Afghanistan, ciò significa che esse non possono disporre della loro vita e della loro morte nello stesso modo degli uomini. E tuttavia la supposta innocenza delle donne costituisce un importante vantaggio per aggirare le misure di sicurezza, in Sri Lanka piuttosto che in Cecenia o in Israele.



L'emancipazione e l'affermazione di sé con la morte: un concetto universale?

"Quando le donne diventano bombe umane, loro intento è di fare una dichiarazione, non solo in nome di un paese, di una religione, di un leader, ma anche in nome del loro genere" - Clara Beyler (20)


La partecipazione delle donne ad atti terroristici non è un fenomeno recente. Esse hanno partecipato ad azioni terroriste almeno dal XIX° secolo, ed hanno svolto un ruolo nel terrorismo moderno che si è maggiormente sviluppato a partire dagli anni 1960.


Gli esempi classici comprendono le donne che hanno partecipato nei ranghi del FNL alla battaglia di Algeri negli anni 1950 e agli inizi degli anni 1960 (21), le campagne terroriste della banda Baader-Meinhof (1968-1977) in Germania con Ulrike Meinhof, i dirottamenti aerei palestinesi dalla fine degli anni 1960 fino alla metà degli anni 1970 e le Brigate Rosse italiane negli anni 1970 e 1980. Donne sono state strumenti di terrore anche in Uganda, in Africa del Sud, in Sierra Leone, in Colombia, nelle Filippine, in Irlanda del nord (22). Anche la loro partecipazione ad attentati suicidi non è un fenomeno recente, benché il loro numero sia limitato.


Nei decenni successivi all'azione kamikaze di Sana Khyadali, numerose organizzazioni hanno imitato l'esempio libanese e utilizzato donne kamikaze al fianco dei loro omologhi maschi. Gli attentati suicidi che hanno coinvolto donne kamikaze si sono moltiplicati in tutto il mondo (Sri Lanka, Israele, Cecenia, Turchia, India, Pakistan, Uzbekistan, Iraq).


Tra il 1985 e il 2006, più di 220 donne kamikaze si sono sacrificate, quasi il 15% del totale dei kamikaze, inclusi quelli intercettati prima dell'operazione (23). Anche donne originarie di paesi occidentali sono state arruolate per perpetrare attacchi suicidi in Medio Oriente, come la belga Muriel Degauque, convertita all'islam, che nel 2006 commise un attentato suicida che provocò la morte di cinque poliziotti nel nord di Bagdad.


Tra gennaio 2008 e maggio 2008, non meno di 17 donne sono state coinvolte in attentati suicidi, essenzialmente nei mercati, uccidendo più di 130 persone, ferendone altre 300. Vale a dire una sensibile accelerazione a confronto dei "soli" otto attacchi perpetrati da donne kamikaze nel 2007, e dei quattro attacchi del 2005 e 2006.


Infliggersi la morte e tentare in tal modo di infliggerla ad altri è una considerazione che ha attraversato le epoche, le frontiere, le etnie, le tendenze religiose, i generi.



Il sacrificio delle donne tamil

Se la pratica kamikaze si dimostra uno strumento di liberazione che sfida lo stato di diseguaglianza e di subordinazione delle donne nelle società mussulmane, lo stesso vale nella società sri lankese, dove donne appartenenti alle Black Tigers (24) hanno seminato il terrore in nome della causa separatista?


Nello Sri Lanka l'auto sacrificio era diventata una norma piuttosto che un atto eccezionale nel conflitto per l'indipendenza della regione tamil (25). Il sostegno collettivo e il condizionamento sociale della società tamil, a dominanza induista, hanno contribuito a rendere normali questi atti, molto più di una religione, una causa o un indottrinamento mistico. Il sacrificio di sé era uno strumento di lotta contro l'oppressore.


La prima operazione riuscita di una donna Black Tiger fu l'assassinio del Primo ministro indiano Rajiv Gandhi, il 21 maggio 1991, in India. La kamikaze è stata poi dipinta come vittima di uno stupro da parte di soldati indiani.


In seno ai Black Tiger, le donne kamikaze rispondevano ad imperativi politici e organizzativi, ma non solo. Il contesto sociale e culturale deve essere preso in considerazione per capire il loro impegno. Infatti non vi era grande differenza tra gli uomini e le donne nell'organizzazione, le donne kamikaze non hanno costituito una minaccia più importante per la società degli uomini kamikaze. Esse già facevano parte di unità di combattimento attive come gli uomini. Avevano ricevuto una identica formazione e erano obbligate alle medesime performance. Di conseguenza le donne Black Tigers non avevano bisogno di dimostrare di essere uguali agli uomini.


Il loro sacrificio era quasi un prolungamento dell'idea di maternità nella cultura tamil. Agire come bomba umana simbolizzava un sacrificio, compresa  e accettata per una donna che non sarà mai madre (26). Altre sono state le considerazioni prevalse tra i kamikaze ceceni.



Le vedove nere

I kamikaze hanno svolto un ruolo di primo piano nella campagna di terrorismo contro l'occupazione russa e ciò nonostante che la maggioranza della società cecena si sia opposta alle azioni suicide. L'utilizzazione, fin dagli esordi del conflitto, di donne kamikaze, le chakidki (versione russa della parola araba shahida), da parte dei ribelli separatisti ceceni è stata giustificata dall'impatto emotivo provocato sui nemici e dalla motivazione e la volontà delle candidate.


Esse hanno effettuato le operazioni più rischiose. Il 26 ottobre 2002, diciannove donne kamikaze, vestite con abiti di lutto neri e con delle bombe attaccate al corpo, hanno partecipato alla occupazione del teatro Dubrovka Bilan: 129 ostaggi uccisi durante l'assalto da parte dei militari. facendosi esplodere, queste donne hanno cercato più la vendetta sull'occupante russo che una ipotetica uguaglianza donna/uomo (27).


I media le hanno soprannominate "vedove nere", quando si è scoperto che molte avevano agito per vendicare la morte di membri della loro famiglia (mariti, figli, fratelli).


La maggior parte di loro era volontaria. Solo qualcuna è stata costretta da un membro della famiglia. Esse hanno spesso spiegato l'azione glorificando l'ideologia jihadista wahhabita, utilizzata in Cecenia per giustificare il terrorismo (essere chakidki consentirà loro di ritrovare i familiari in paradiso), e con la volontà di ottenere giustizia sociale, di lottare contro l'invasore e di vendicare i familiari uccisi dai Russi. La loro principale motivazione risiede dunque nel trauma personale che hanno subito.


Le guerre di Cecenia (28) hanno annientato la speranza della popolazione. La ribellione islamista anti russa vi è nata e si è poi propagata in tutto il Caucaso (29), dove l'ideologia wahhabita della jihad glorifica il martirio e promuove la jihad per la creazione di un califfato mussulmano mondiale.


Tale tendenza religiosa non era presente prima della prima guerra di Cecenia. Essa è stata importata dai paesi arabi, attraverso reti terroriste come Al Qaida che sono state assai attive nella edificazione di mosche e di madrase. Lottare in nome dell'islam ha consentito l'associazione alle reti internazionali del jihad, l'accesso ai finanziamenti e di tenere uniti tutti i movimenti etnici della regione.


Da parte sua, il governo russo, che temeva lo smembramento della Federazione, ha spesso affermato che il movimento terrorista ceceno esisteva solo in ragione dei finanziamenti e delle forze esterne. Ma questa versione non teneva conto dei reali attentati ai diritti dell'uomo che vi sono stati in Cecenia e che continuano ad alimentare le azioni dei ribelli jihadisti (30).



Le shahidate palestinesi

Sono state le Palestinesi a definire, in larga misura, l'immagine dell'azione kamikaze tra le donne nel mondo. Il fenomeno, glorificato, soprattutto in Medio Oriente, ma anche condannato, ha suscitato l'interesse di numerosi analisti.


"Shahida fino a Gerusalemme" (31), dichiarò Yasser Arafat il 27 gennaio 2002, quando Wafa Idris si fece esplodere in una delle principali strade di Gerusalemme, uccidendo un israeliano e ferendo quattro altre persone, diventando la prima donna palestinese kamikaze (32).



Wafa Idris


Le testimonianze dei suoi amici e della sua famiglia suggeriscono che la motivazione del suo suicidio era personale piuttosto che nazionalista o religioso. Wafa Idris era una infermiera di 27 anni, ripudiata da suo marito, che era anche suo cugino, dopo nove anni durante i quali non era riuscita ad avere figli. La sua condizione di donna divorziata e sterile in una società tradizionale patriarcale, peso economico in casa dei genitori, l'ha collocata in una situazione senza uscita. Il solo modo di "riscattarsi" dalla condizione di inferiorità alla quale l'ambiente la condannava è stato di diventare una shahida per riguardo verso la sua nazione (33).

Si sarebbe dunque suicidata perché la sua vita era miserabile? Per disperazione, o per sacrificarsi per il suo paese? Non ha lasciato cassette video dietro di lei.


Ma qualsiasi sia stato il motivo profondo, ha comunque raggiunto il suo obiettivo nella misura in cui è riuscita a essere riconosciuta come donna e come eroina. E' stato l'atto in se stesso che il popolo ha colto. L'approvazione è stata unanime. Venne incoronata come eroina in tutto il mondo arabo e presentata come simbolo del nuovo femminismo mussulmano, l'espressione "nobile ed eroica" della volontà delle donne mussulmane in generale, e delle donne palestinesi in particolare, di impegnarsi nella lotta contro i nemici dell'islam, in primo luogo di Israele.


Tra l'azione di Wafa Idris del gennaio 2002 e il mese di maggio 2006, sessantasette donne palestinesi hanno tentato di compiere attacchi suicidi (34). Tutte queste donne martiri avrebbero dunque deciso di prendere la loro vita nelle loro mani? Erano davvero donne indipendenti e determinate, con propositi ben fermi e dotate di qualità eccezionali? La realtà di fatto è più complessa.


Le donne come Wafa Idris erano prede facili per i reclutatori. Questi scelgono preferibilmente donne poste al bando dalla società, depresse, nubili, senza figli, divorziate, stuprate o che hanno avuto delle precedenti relazioni.



Motivazioni e versioni contradditorie

Nonostante tutte le conquiste sociali e politiche raggiunte, le donne sono ancora considerate nelle società mussulmane, come madri che "hanno il paradiso ai loro piedi" (35), come il sesso debole, la cui natura materna innata non è compatibile con le azioni kamikaze, un atto considerato non femminile. Per tale ragione, il loro ruolo nell'arena attentato-suicida è stato definito scioccante, se non inconcepibile.


Contrariamente all'entusiasmo col quale hanno difeso il diritto e il dovere degli uomini a impegnarsi nelle azioni contro Israele, e nonostante gli elogi con cui hanno ricoperto la kamikaze Wafa Idris, la maggior parte degli uomini palestinesi hanno ritenuto che non vi era alcun bisogno di servirsi di donne kamikaze ed espresso la loro opposizione a questo fenomeno.


Questa opposizione non è dovuta a principi di negazione morale del diritto religioso e nazionalista delle donne a condurre in porto l'azione.   Riflette soprattutto il timore di una possibile degradazione dell'onore delle donne palestinesi, che comporterebbe di riflesso un pregiudizio al loro onore in quanto uomini. Nessuno di loro si accorge di una grossa contraddizione: sono uomini quelli che reclutano le donne kamikaze!


Le manifestazioni commoventi svoltesi in Cisgiordania e nella striscia di Gaza in memoria di queste donne che si sono fatte esplodere, come gli inneggiamenti nei loro confronti apparsi sui media arabi, hanno dato l'impressione che le donne kamikaze fossero indipendenti, pienamente coscienti di quanto facevano; donne che tentavano di svolgere un ruolo attivo e uguale nella lotta armata e che erano completamente appoggiata dalla società palestinese. La questione che si pone è di sapere se questa immagine unidimensionale nei media sia radicata nella realtà. C'è un divario tra il mito che circonda le donne kamikaze palestinesi e la realtà personale e sociale nella quale operano, che può avere spinto molte di loro a offrirsi  volontarie per queste missioni? (36)


Le numerose e contraddittorie versioni fornite ai media da candidate kamikaze illustrano la fluttuazione tipica dei loro motivi - ragioni personali, politiche e religiose, compensi finanziari per le famiglie, ecc - e delle circostanze nelle quali si sono offerte volontarie  (37). Nonostante gli slogan femministi fieramente proclamati dopo ogni azione dai simpatizzanti stranieri, simili posizioni non erano affatto evidenti all'avvio. In interviste rilasciate durante la detenzione, alcune kamikaze hanno riconosciuto che la loro difficile situazione personale era stata sfruttata per spingerle a offrirsi volontarie, senza che esse avessero potuto ben riflettere sull'atto che avevano intenzione di commettere.


Dopo una lunga detenzione, indottrinate dalle loro compagne di cella, sono apparse delle candidate kamikaze più bellicose, che invece di motivazioni personali hanno spiegato la volontà di partecipare ad azioni suicide con argomenti nazionalisti e religiosi (sacrificarsi per dio e la Palestina), e/o altruisti (la ricompensa in denaro sarà devoluta in favore degli orfani palestinesi), e di eroismo (38). In prigione esse hanno costruito, accettato o adattato queste narrazioni, e formattato la loro storia per spiegare il loro impegno. Si sono metamorfosizzate in portabandierea dell'islam e della "lotta nazionale palestinese contro il nemico sionista", un nemico demonizzato, i cui atti giustificano qualsiasi azione, ivi compreso l'assassinio cieco di innocenti.


Le donne kamikaze sono comparse quasi esclusivamente nelle società fortemente conservatrici, dove le donne non hanno lo stesso status né godono degli stessi diritti dei maschi. In alcune organizzazioni come il PKK curdo e la LTTE dello Sri Lanka, i leader promettevano che le donne che avessero partecipato a simili operazioni avrebbero aperto la strada ad altre donne per ottenere uno stato uguale a quello dell'uomo, ed in tal modo emanciparsi. Per quanto già integrate nei gruppi armati, esse non avevano mai ottenuto dei posti di comando. Dunque la promessa di promozione di genere per le colleghe di sesso femminile se si fossero offerte volontarie per delle operazioni suicide si è dimostrata una semplice chimera.


Tutte avevano attraversato delle tragedie personali tanto gravi che le loro condizioni di vita erano diventate insopportabili nel seno della loro cultura e della loro società. Ciò comportava il fallimento di tutti i loro progetti personali, una vita considerata come insignificante. Il suicidio è desiderato allora come una scelta ragionata, premeditata, che segna la mancanza di speranza. Una lotta per la dignità.


Se le stesse donne attribuiscono degli obiettivi femministi alle loro azioni, si tratta di una giustificazione a posteriori, diversa delle motivazioni più immediate che le ha spinte alla missione. Promuovere gli interessi di genere è talvolta una causa importata destinata a riscattare l'aberrazione di una azione kamikaze perpetrata da una donna.


L'aspirazione al martirio, per le kamikaze palestinesi ma anche per altre nel mondo, può riflettere un bisogno autentico di partecipare alla lotta contro il nemico del loro popolo, ma questo non modifica in alcun modo il loro stato sociale ineguale e inferiore, né la reticenza delle loro società tradizionali ad includerle in simili operazioni.


Esse non sono responsabili della pianificazione delle operazioni e sono spedite in missione con poche informazioni circa gli obiettivi, il calendario dell'attentato, e il modo in cui l'operazione sarà condotta. Le donne suscitano meno sospetti e hanno più agio di superare i punti di controllo e gli altri ostacoli di sicurezza. Inoltre esse non posseggono competenze guerresche specialistiche e una missione suicida in se stessa richiede poco investimento nella formazione, in termini di tempo e di denaro (meno di 150 dollari). Esse permettono una ottimizzazione delle risorse umane e materiali.



Occupare il campo e l'attenzione pubblica

Il fatto che una donna attiri di più l'attenzione dei media è un vantaggio in sé. L'organizzazione e la sua causa godranno quasi automaticamente di una maggiore esposizione mediatica, cosa che costituisce un obiettivo immediato dell'attentato. Di conseguenza, il morale e l'entusiasmo tra i militanti di base ne uscirà rafforzato.


I media israeliani, ponendo attenzione alle motivazioni personali e sociali dei kamikaze, senza veramente tener conto dei motivi nazionalisti, hanno contribuito a perpetuare lo sciovinismo nelle società arabo mussulmane. Nello stesso tempo, i media arabi hanno sviluppato l'idea di una partecipazione egalitaria delle donne alla jihad nazionalista (39).


Così la partecipazione delle donne ad attentati suicidi è stata utilizzata come arma di propaganda dalle loro organizzazioni. Hanno consentito ai reclutatori di proiettare una immagine di partecipazione di tutti i segmenti delle loro società rispettive alle lotte etno nazionaliste e/o religiose. Tuttavia, nonostante la retorica e il temporaneo onore di cui queste donne hanno goduto nell'esecuzione delle missioni, esse non sono riuscite a promuovere nessuna delle questioni di uguaglianza che pure sono collegate ai loro gesti. Di conseguenza il concetto di morire per l'uguaglianza si è tradotta in risultati negativi su due piani: questo obiettivo non è stato raggiunto né è stato la motivazione principale delle volontarie. E' più spesso servito da giustificazione, esplicitamente o implicitamente attribuita, da parte di coloro che le hanno inviate, al gesto delle donne kamikaze.


Il culto, incoraggiato dai media arabi, della figura di Wafa Idris e le espressioni di identificazione tra le Palestinesi hanno creato un nuovo modello per le ragazze e le donne palestinesi, e per le donne mussulmane anche al di là del teatro del conflitto israelo-palestinese che cercano di seguire il suo esempio (40). Subito dopo l'azione di Wafa Idris, questi media hanno a lungo dibattuto sulla questione della legittimità della partecipazione delle donne agli attentati suicidi.


Nonostante che le risposte delle organizzazioni terroriste laiche fossero state entusiaste, lo sceicco Ahmad Yassine, capo spirituale dell'organizzazione religiosa e politica Hamas, è sembrata più ambivalente. Secondo lui, da un punto di vista religioso e operativo, non è necessario per le donne farsi coinvolgere in attentati terroristi. Una simile partecipazione è del tutto indesiderabile perché il movimento islamico non poteva impegnare tutti gli uomini palestinesi chiedendo loro di partecipare alla jihad e ad atti di sacrificio di sé (41). Assicurare l'esistenza della nazione era ben più importante (42).


Ma nel 2004 una fatwa (43) dello stesso sceicco Yassine approvò sul piano religioso l'attentato suicida di Rim Riashi, il primo commesso da una donna col patrocinio di Hamas: "Le donne che commettono attentati suicidi e uccidono degli ebrei sono ricompensate in paradiso diventando più belle delle 72 vergini promesse agli shahid (44)".Rim Riashi, 22 anni e madre di due bambini, pare avesse una relazione con un leader di Hamas e doveva morire per salvare l'onore di suo marito e della sua famiglia.


Quando i media arabi e palestinesi hanno nuovamente presentato una prospettiva femminista, ciò ha suscitato qualche critica. La simpatia espressa da taluni ha avviato il dibattito sulla questione. "Sulla base di quale passaggio del Corano e del Hadith, una giovane madre può abbandonare la sua vera jihad, che consiste nell'allevare i figli, uno dei quali ha ancora bisogno del suo latte" (45)"


Peraltro le donne non sono particolarmente diverse dagli uomini terroristi. Come si vede nel pregevole film Paradise Now(46), anche gli uomini kamikaze provengono generalmente dalle fasce marginali della società palestinese, e hanno conosciuto difficoltà personali che li hanno resi facili prede dei reclutatori. Nel caso degli uomini, però, i media per lo più commentano i motivi di vendetta che li hanno spinti, o il contesto economico difficile, lasciando intendere che questi terroristi non avevano nulla da perdere. Apparentemente sarebbero spinti solo da motivi di sicurezza o economici, e i giornalisti intervistano raramente i candidati martiri sulle loro frustrazioni e il loro stato sociale di celibi mussulmani senza futuro.


Gli ultimi decenni hanno provato che le donne, ancora percepite in alcune culture come le creatrici dolci ed ingenue della vita umana, possono anche, in talune circostanze (lotta contro l'invasore o l'empio, per la causa delle donne), lottare e comportarsi come i maschi per pretendere lo stato di martire. Incoraggiate dalla società, sfruttate da alcune organizzazioni, sofferenti per la loro situazione personale, obbedendo alle norme o sfidando le norme patriarcali, le donne non sono più solo le madri di quelli che osano donare la propria vita per uccidere.


Benché il loro numero resti ancora modesto, alcune sono diventate "emissarie di morte" (47), restando pur sempre, come i loro omologhi maschi d'altronde, dei poveri diavoli o degli agnelli sacrificali.



Note:


•[1] Hadith attribuito al profeta Maometto. Hadith : tradizione, parole e atti del profeta.

•[2] Nello sciismo, la cultura del martirio si fonda sul martirio di Hussein nel 680, a Kerbala.

•[3] Robert A. Pape, The strategic logic of suicide terrorism, in American Political Science Review, agosto 2003, pp. 323-361.

•[4] I due attacchi sarebbero stati realizzati da Hezbollah libanese, con l'aiuto dei  Pasdaran iraniani.

•[5] « Terrorismo : insieme di atti di violenza (attentati, rapimenti di ostaggi, ecc.) commessi da una organizzazione o un gruppo di individui al fine di creare un clima di insicurezza [...] per dare sfogo ad un odio nei confronti di una comunità, di un paese, di un sistema » (Enciclopedia Larousse). Occorre sottolineare che taluni gruppi/Stati considerano che il terrorismo rientra nel diritto alla resistenza contro l'oppressione.

•[6] Fatima Lahnait, « Female suicide bombers : victims or murderers ? », pp. da 71  a 82, in Suicide bombers : the psychological, religious and other imperatives, diretto da Mary Sharpe, NATO/IOS Press, 2008.
•[7] Emiko Ohnuki-Tierney, Kamikaze, Cherry Blossoms, and Nationalisms : The Militarization of Aesthetics in Japanese History, University of Chicago Press, 2002, 411 pagine.

•[8] Emiko Ohnuki-Tierney, op. cit.

•[9] « Martire : Persona che ha subito la morte o sopportato la tortura a causa della sua fede religiosa o per una causa alla quale si sacrifica: I martiri della Resistenza » (Dizionario Larousse).

•[10] A Bagdad, se annunciate all'autista di un taxi : « Pranzerò col profeta », l'autista abbandonerà immediatamente il veicolo per timore di un attentato suicida. E il veicolo potrà così essere recuperato o rubato.

•[11] Axel Honneth, The struggle for recognition : the moral grammar of social conflicts, MIT Press Edition, 1996, 240 pagine.

•[12] Farhad Khosrokhavar, Les nouveaux martyrs d'Allah, Flammarion, 2002, 370 pagine.

•[13] Il martirio: tortura, supplizio, morte che qualcuno subisce, in generale per la difesa della propria fede, della propria causa: il martirio di Saint Étienne. Grande dolore fisico o morale; stato, situazione estremamente penosa: tutta la sua vita è stato un martorio. Soffrire il martirio.

•[14] Si ritrova questo principio in altre religioni, ma anche nei fenomeni rivoluzionari del 1789 in Francia, nei movimenti nazionalisti, o ancora nel patriottismo della Seconda Guerra Mondiale.

•[15] Jacob Katz, Exclusion et tolérance. Chrétiens et juifs du Moyen Âge à l'ère des Lumières, Lieu Commun/Histoire, 1987, n°1, p.124.

•[16] Delphine Horvilleur, Le Chéma Israël, www.akadem.org, maggio 2012.

•[17] Raphaëlle Ziadé, les martyrs Maccabées : de l'histoire juive au culte chrétien, Edition Brill, 2007, 392 pagine.

•[18] Farhad Khosrokhavar, Les nouveaux martyrs d'Allah, op. cit.

•[19] Farhad Khosrokhavar, L'islamisme et la mort - le martyre révolutionnaire en Iran, L'Harmattan, Paris, 1995, 424 pagine. L'autore analizza, tra l'altro, il ruolo dei bambini martiri durante la guerra Iran-Iraq (i bambini erano utilizzati per fare esplodere le mine onde permettere o facilitare il passaggio dell'esercito.

•[20] Clara Beyler, Messengers of death : female suicide bombers, ICT Herzliya, 2003.

•[21] Monique Gadant, Le nationalisme algérien et les femmes, l'Harmattan, 1995, 302 pagine.

•[22] Cindy NESS (sous la direction de), Female Terrorism and Militancy Agency, Utility and Organization, Routledge, 2008, 242 pagine. R. Kim CRAGIN et Sara DALY, Women as terrorists : Mothers, Recruiters and Martyrs, Séries Praeger Security International, 2009, 142 pagine.

•[23] Yoram Schweitzer, "Palestinian female suicide bombers : reality vs myth", pp. da 25 a 41, in Female Suicide Bombers : Dying for Equality ?, edito da Yoram Schweitzer, Jaffee Center for Strategic Studies, Tel Aviv University, 2006.

•[24] I Black Tigers o Tigri Tamil, guerriglia del LTTE sri lankese, raggruppava i volontari al martirio, è stato uno dei gruppi terroristi più sanguinari , provocando  901 vittime in 76 attentati tra il 1987 e il 2001.

•[25] Arjuna Gunawardena, "Female Black Tigers : A different Breed of Cat ?, pp. da 81 a 90",  in Female Suicide Bombers : Dying for Equality ?, op. cit.

•[26] Ibidem.

•[27] Anne Speckhard and Khapta Akhmedova, "Black widows : The Chechen Female Suicide Terrorists", pp. 69-78, in Female Suicide Bombers : Dying for Equality ?, op. cit.

•[28] Prima guerra cecena : 1994-1996. Seconda guerra cecena : 1999-2000

•[29] Il 29 dicembre 2013, una donna kamikaze caucasica si è fatta esplodere nella stazione di Volgograd, in Russia, bilancio : 17 morti tra cui la terrorista. L'indomani, nella stessa città, un uomo kamikaze si è fatto esplodere in un bus, 14 morti.

•[30] La Repubblica cecena ha come presidente Ramzan Kadyrov, filo russo.

•[31] Frase pronunciata durante un discorso a Ramallah, davanti a un pubblico composto essenzialmente da donne.  Yasser Arafat inventò il termine shahida, che fino ad allora esisteva solo al maschile, per ricordare l'importanza del ruolo della donna nell'intifada (sollevamento) contro Israele.

•[32] Alia Tabaï, « Une kamikaze au-dessus de tout soupçon », Jeune Afrique, febbraio 2002

•[33] Barbara Victor, Shahidas - les femmes kamikazes de Palestine, Flammarion, Paris, 2002, 275 pagine.

•[34] Yoram Schweitzer, "Palestinian female suicide bombers : reality vs myth", pp. 25-41, in Female Suicide Bombers : Dying for Equality ?, op. cit.

•[35] Hadith musulmano (tradizione) che pone l'accento sull'obbligo di rispetto per la madre, per il credente che vuole andare in paradiso.

•[36] Yasmina Khadra, L'attentat, Julliard, Paris, 2005, 270 pagine.

•[37] Avi Issacharoff, "The Palestinian and Israeli media on female suicide terrorists", pp.43-50, in Female Suicide Bombers : Dying for Equality ?, op. cit.

•[38] Ibid.

•[39] Fatima Lahnait, op. cit.

•[40] Documentario realizzato da Hesi Carmel e Amal Hamelin, Femmes kamikazes, les vierges du djihad, 2004.

•[41] Pierre Conesa, « Aux origines des attentats-suicides », Le Monde Diplomatique, giugno 2004, pp.12-14.

•[42] Mira Tzoref, "The Palestinian Shahida", pp.13-22, in Female Suicide Bombers : Dying for Equality ?, op. cit.

•[43] Nell'islam, una  fatwa è una opinione giuridica emessa da un mufti (autorità religiosa) per dare risposte a questioni non previste nella giurisprudenza islamica.
•[44] Vedi 40.

•[45] Avi Issacharoff, "The Palestinian and Israeli media on female suicide terrorists", pp. 43-50, in Female Suicide Bombers : Dying for Equality ?, op. cit.

•[46] Paradise now, film di Hany Abu-Assad, Warner Independent Pictures, 2005, Stati Uniti.

•[47] Yoram Schweitzer, Female Suicide Bombers : Dying for Equality ?, op. cit.

    

(*) Ricercatrice indipendente