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CounterPunch, 13 dicembre 2017 (trad. ossin)
 
Gli USA non sono una democrazia, non lo sono mai stati
Gabriel Rockhill (*)
 
Una delle convinzioni più salde a proposito degli Stati Uniti è che si tratti di una democrazia. Ogni qualvolta questa affermazione viene timidamente posta in dubbio, è quasi solo per segnalare una qualche dannosa eccezione ai valori fondamentali o ai principi costitutivi statunitensi. Ad esempio, gli aspiranti critici lamentano frequentemente una « riduzione della democrazia » dovuta all’elezione di autocrati  clowneschi, a misure draconiane adottate dallo Stato, alla scoperta di malversazioni o corruzioni, a interventi sanguinari all’estero o ad altre attività considerate eccezioni antidemocratiche. Lo stesso vale per coloro la cui critica consiste sempre nel contrapporre le azioni concrete del governo degli Stati Uniti ai suoi principi costitutivi, evidenziando una contraddizione tra le stesse e manifestando l’auspicio che possa comporsi.
 
 
Il problema, però, è che non vi è alcuna contraddizione o riduzione di democrazia, perché semplicemente gli Stati Uniti non sono mai stati una democrazia. E’ una realtà difficile da affrontare per molte persone, probabilmente più inclini a respingere tale affermazione come assurda piuttosto che prendersi il tempo di esaminare i dati storici e decidere a ragion veduta. Una reazione così sprezzante è dovuta in gran parte a quella che è stata forse la campagna di pubbliche relazioni di maggior successo della storia moderna. Quello che al contrario risulta evidente, quando la questione viene esaminata in modo sobrio e metodico, è che un paese fondato sull’élite, una dominazione coloniale basata sul potere della ricchezza – insomma una oligarchia coloniale plutocratica – è riuscita non solo a fregiarsi dell’etichetta « democratica » per vendersi alle masse, ma anche a far sì che i suoi cittadini, e molti altri, tanto socialmente e psicologicamente compresi nel loro mito nazionalista di origine, non siano disposti ad ascoltare argomenti lucidi e ben documentati.
 
Per cominciare a rimuovere il prosciutto dai nostri occhi, cerchiamo di delineare, nel poco spazio di questo articolo, cinque evidenti ragioni, dimostrative del fatto che gli Stati Uniti non sono mai stati una democrazia (un’argomentazione più sostenuta e ricca è disponibile nel mio libro, « Counter-History of the Present »). Per cominciare, l’espansione coloniale britannica nelle Americhe non si è fatta in nome della libertà e dell’uguaglianza della generalità della popolazione, né del conferimento del potere al popolo. Coloro che approdarono sulle coste del « Nuovo Mondo », con poche eccezioni, non tennero in alcuna considerazione il fatto che si trattava invece di un mondo molto antico, e che una vasta popolazione indigena vi viveva da secoli. Non appena Colombo vi mise piede, gli Europei hanno cominciato a derubare, ridurre in schiavitù e ad uccidere tutti i nativi. La tratta transatlantica degli schiavi cominciò quasi subito dopo, aggiungendo un numero incalcolabile di Africani all’attacco genocida in corso contro i nativi. Si stima inoltre che più della metà dei coloni venuti in America del Nord dall’Europa durante il periodo coloniale fossero servi poveri a contratto e che le donne fossero generalmente intrappolate in ruoli di servitù domestica. Più che una terra di libertà e uguaglianza, quindi, l’espansione coloniale europea verso le Americhe costruì una terra di colonizzatori e colonizzati, di padroni e di schiavi, di ricchi e poveri, di persone libere e molti altri che non lo erano. I primi inoltre costituivano una minoranza infinitamente piccola della popolazione, mentre la stragrande maggioranza, vale a dire il « popolo », era esposta alla morte, alla schiavitù, al servaggio o ad una oppressione socio-economica incessante.
 
In secondo luogo, quando la classe dirigente coloniale di élite decise di recidere i vincoli con la patria e di creare uno Stato indipendente, non creò una democrazia. Al contrario, era fervidamente ed esplicitamente contraria alla democrazia, come la stragrande maggioranza dei pensatori illuministi europei. Tutti costoro pensavano si trattasse di una forma pericolosa e caotica di governo di una plebaglia incolta. Per i cosiddetti « Padri fondatori », le masse erano non solo incapaci di governare, ma erano considerate una minaccia per le strutture sociali gerarchiche che si presumevano necessarie per un buon governo. Secondo le parole di John Adams, per citare un solo esempio indicativo, se alla maggioranza fosse stato accordato un potere reale, essa avrebbe ridistribuito la ricchezza e avrebbe distrutto quella « subordinazione » tanto necessaria alla politica. Quando gli eminenti membri della classe di proprietari terrieri si riunirono nel 1787 per redigere una Costituzione, essi insistettero regolarmente nelle loro discussioni sulla necessità di istituire una repubblica che tenesse a distanza la vile democrazia, giudicata peggio della « lordura delle fogne » dal costituente filo federalista William Cobbett. La nuova Costituzione prevedeva elezioni popolari solo alla Camera dei Rappresentanti, ma nella maggior parte degli Stati il diritto di voto era attribuito solo ai proprietari, e le donne, i nativi, e gli schiavi – vale a dire la schiacciante maggioranza della popolazione – erano semplicemente esclusi dal voto. I senatori erano eletti dai legislatori degli Stati, il presidente dagli elettori scelti dai legislatori degli Stati, e la Corte Suprema nominata dal Presidente. E’ in questo contesto che Patrick Henry ha categoricamente espresso il più lucido dei giudizi: « Questa non è una democrazia ». George Mason ha chiarito la situazione definendo il paese appena diventato indipendente come « un’aristocrazia dispotica ».
 
Quando la repubblica statunitense venne progressivamente ribattezzata « democrazia », non vi fu alcuna modifica istituzionale importante che giustificasse questo cambiamento di nome. In altre parole, e questo è il terzo argomento, l’uso dell’espressione « democrazia » per designare una repubblica oligarchica significava solo che veniva usata un’espressione diversa per descrivere fondamentalmente lo stesso fenomeno. Ciò ebbe più o meno inizio all’epoca della campagna presidenziale dell’« uccisore di Indiani » Andrew Jackson, negli anni ‘30 dell’ottocento. Presentandosi come un « democratico », offriva una immagine di se stesso come un uomo medio del popolo, che avrebbe posto fine al lungo regno dei patrizi della Virginia e del Massachusetts. Lentamente ma inesorabilmente, l’espressione « democrazia » venne utilizzato come termine di pubbliche relazioni per ri-etichettare una oligarchia plutocratica e farla passare per un regime elettorale che persegue gli interessi del popolo o demos [in greco antico, NdT]. Nel frattempo, l’olocausto indiano proseguiva senza sosta, come anche la schiavitù, l’espansione coloniale e la lotta di classe contro i poveri.
 
Nonostante qualche modifica secondaria nel corso del tempo, la repubblica statunitense ha ostinatamente conservato la sua struttura oligarchica, e questo è del tutto evidente nei due principali punti di forza della sua contemporanea campagna pubblicitaria « democratica ». L’establishment e i suoi propagandisti insistono regolarmente sul fatto che, quella che è in realtà una aristocrazia strutturale, sarebbe una « democrazia » perché quest’ultima è definita dalla garanzia di alcuni diritti fondamentali (definizione legale) e dallo svolgimento di elezioni regolari (definizione procedurale). Si tratta, naturalmente, di una concezione puramente formale, astratta e ampiamente in negativo della democrazia, che non dice assolutamente niente sul fatto che il popolo abbia o meno un potere reale e sostanziale sul governo della sua vita. Tuttavia anche questa definizione vuota dissimula la misura in cui, per cominciare, la presunta uguaglianza davanti alla legge negli Stati Uniti implica una diseguaglianza davanti alla legge, escludendo il principali settori della popolazione: quelli che non hanno diritto ai diritti, e quelli che si ritiene abbiano perso il loro diritto ai diritti (gli Amerindiani, gli Afroamericani e le donne, durante la gran parte della storia del paese e ancora oggi per certi aspetti, oltre agli immigrati, i « criminali », i minori, i « clinicamente pazzi », i dissidenti politici, ecc. Quanto elle elezioni, esse si svolgono negli Stati Uniti nella forma di campagne pubblicitarie da diversi milioni di dollari nelle quali candidati e programmi vengono preselezionati dall’élite politica e degli affari. Alla generalità della popolazione, la cui maggioranza non ha diritto di voto o decide di non esercitarlo, viene attribuita la « scelta » – controllata da un collegio elettorale non democratico e inserita in uno schema di rappresentanza non proporzionale – del membro dell’élite aristocratica dal quale preferisce essere dominata e oppressa nei successivi quattro anni. “Un’analisi multivariata indica – secondo un recente importante studio di Martin Gilens e Benjamin Page « che élite economiche e gruppi organizzati che rappresentano interessi di business hanno un sostanziale impatto indipendente sulla politica del governo USA, mentre i cittadini medi e i gruppi di interessi popolari hanno poca o nessuna influenza. Questi risultati confermano in modo sostanziale le teorie della dominazione da parte di una élite economica […], ma non le teorie di una democrazia elettorale maggioritaria ».
 
Per fare solo un ultimo esempio, fra i tanti che dimostrano che gli Stati Uniti non sono e mai sono stati una democrazia, conviene ricordare i loro costanti attacchi a tutti i movimenti popolari. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, gli USA hanno cercato di rovesciare una cinquantina di governi stranieri, la maggior parte dei quali erano stati democraticamente eletti. Essi hanno anche, secondo i meticolosi calcoli di William Blum nel suo libro « America’s Deadliest Export : Democracy » [Il prodotto più micidiale esportato dagli USA: la democrazia], gravemente interferito nelle elezioni di almeno 30 paesi, tentato di assassinare più di 50 leader stranieri, lanciato bombe su più di 30 paesi, e tentato di reprimere i movimenti popolari in 20 paesi. Il record sul fronte interno è altrettanto brutale. Per fare solo un esempio significativo dello stesso genere, vi sono prove numerose che l’FBI si è impegnato in una guerra clandestina contro la democrazia. A partire almeno dagli anni 1960, e probabilmente fino ai giorni nostri, esso « estese le sue operazioni clandestine interne contro il partito comunista, impegnando le sue risorse per indebolire anche il movimento indipendentista di Puerto Rico, il partito operaio socialista, i movimenti per i diritti civili, i movimenti nazionalisti neri, il Ku Klux Klan, segmenti del movimento pacifista, il movimento studentesco e la “nuova sinistra” in generale » (Cointelpro : « The FBI’s Secret War on Political Freedom » p. 22-23). Prendiamo, per esempio, il compendio di Judi Bari sull’aggressione contro il Partito socialista dei lavoratori : « Dal 1943 al 1963, il processo civile federale Socialist Workers Party Vs Attorney General documenta decenni di irruzioni illegali effettuate dall’FBI e 10 milioni di pagine di dossier di sorveglianza. L’FBI ha pagato circa 1 680 592 dollari a 1 600 informatori e ha utilizzato 20 000 giorni di intercettazioni telefoniche per colpire questa legittima organizzazione politica ». Nel caso del Black Panther Party e dell’American Indian Movement (AIM) – che erano entrambi importanti tentativi di mobilitazione del potere popolare per smantellare l’oppressione strutturale della supremazia bianca e della lotta di classe contro i poveri – l’FBI non solo li ha infiltrati e lanciato ignobili campagne di diffamazione e destabilizzatrici contro di loro, ma ha anche assassinato 27 Black Panthers e 69 membri dell’AIM (e sottoposto molti altri a quella morte lenta che è il carcere). Sia all’estero, che sul fronte interno, la polizia segreta USA è stata estremamente proattiva nella repressione dei movimenti popolari che crescevano, proteggendo e preservando così il pilastro principale della supremazia bianca, l’aristocrazia capitalista.
 
Piuttosto che credere ciecamente in un’età dell’oro della democrazia per rimanere a tutti i costi nella gabbia dorata di una ideologia prodotta appositamente per noi dagli spin doctor ben pagati di una oligarchia plutocratica, dovremmo aprire le porte della storia e analizzare scrupolosamente la fondazione e l’evoluzione della repubblica imperiale statunitense. Ciò ci consentirà, non solo di sbarazzarci dai suoi miti sciovinisti e autoreferenziali sulla sua origine, ma ci darà anche l’occasione di rianimare e riattivare gran parte di quello che si è cercato di cancellare. In particolare, c’è un’America radicale giusto sotto la superfice di queste narrazioni nazionaliste, un’America in cui la popolazione si organizza in modo autonomo nell’attivismo indigeno ed ecologico, nella resistenza radicale nera, nella mobilitazione anticapitalista, nelle lotte anti patriarcali e così via. E’ questa America che la repubblica corporativa ha cercato di sradicare, investendo contemporaneamente in una campagna di pubbliche relazioni per coprire i suoi crimini con la foglia di fico della « democrazia » (ciò che qualche volta ha richiesto anche l’integrazione di qualche individuo simbolo, che sembra essere venuto dal basso entrando nella classe dirigente d’élite, per perpetuare l’onnipotente mito della meritocrazia). Se siamo abbastanza astuti e perspicaci da riconoscere che gli Stati Uniti non sono democratici oggi, evitiamo di essere così indolenti o male informati da lasciarci addormentare dalle ninne-nanne che narrano un passato mitico. Infatti, se gli Stati Uniti non sono oggi una democrazia, è in gran parte perché non lo sono mai stati. Peraltro, lungi dall’essere una conclusione pessimista, è proprio aprendo il guscio duro dell’involucro ideologico, che potremo attingere alle forze radicali che da esso sono state represse. Queste forze, e non quelle impiegate per distruggerle, devono essere la fonte primaria del nostro essere fieri del potere popolare.
 
(*) Gabriel Rockhill è un filosofo franco-statunitense