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Religione e politica
Pubblichiamo un estratto dal prossimo lavoro di Samir Amin, che uscirà per le edizioni Panagon nell'ottobre 2008 col titolo: "Modernité, religion, démocratie - critique de l'eurocentrisme - critiques des culturalismes".
Traduzione a cura di ossin
(nella foto, Samir Amin)
Religione e politica
di Samir Amin
Il moderno Islam politico è stato inventato dagli orientalisti al servizio del potere britannico in India, prima di essere ripreso dal pakistano Mawdudi. Si trattava di sostenere che i mussulmani credenti non erano autorizzati a vivere in uno Stato che non fosse islamico – anticipando la divisione dell’India – perché l’Islam ignorerebbe la possibilità di una separazione tra Stato e religione. Gli orientalisti in questione hanno omesso di osservare che gli inglesi del XIII secolo non avrebbero a maggior ragione concepito la loro esistenza fuori dalla cristianità.
Abul Ala Mawdudi riprende dunque il tema secondo il quale il potere promana da Dio e solo da lui, rifiutando il concetto che il diritto di legiferare spetti ai cittadini, non avendo lo Stato altro compito se non quello di applicare la legge definita una volta per tutte (la charia). Joseph de Maistre aveva già scritto cose analoghe, accusando la Rivoluzione del crimine di avere inventato la democrazia moderna e l’emancipazione dell’individuo.
Rifiutando il concetto della modernità emancipatrice, l’islam politico rifiuta lo stesso principio della democrazia – il diritto per la società di costruire il proprio avvenire con la libertà che si è data di legiferare. Il principio della s hura, che l’islam politico pretende sia la forma islamica della democrazia, non lo è affatto, essendo prigioniera del divieto di innovazione (ibda). La s hura non è che una delle molteplici forme di consultazione che si trovano in tutte le società premoderne, predemocratiche. Certamente l’interpretazione obbligata dei principi che la vita impone è stata qualche volta il veicolo di trasformazioni reali, rese necessarie dalle nuove esigenze. Ma resta fermo che il suo proprio principio – la negazione del diritto alla rottura col passato – finisca col mettere in empasse la moderna lotta per il cambiamento sociale e la democrazia. Il preteso parallelismo tra i partiti islamici – siano essi radicali o moderati, perché tutti aderiscono a questi stessi principi “antimodernisti” in nome della pretesa specificità dell’islam – e i partiti democratici-cristiani dell’Europa moderna non ha dunque rigorosamente alcuna validità, sebbene i media e la diplomazia degli Stati Uniti vi facciano sempre allusione per legittimare il loro sostegno a regimi eventualmente “islamisti”. La democrazia cristiana si iscrive nella modernità, della quale accetta il concetto fondamentale di democrazia creatrice come anche l’essenziale di quello di laicità. L’islam politico rifiuta la modernità. Lo proclama, senza neppure comprenderne il senso.
L’islam proposto non merita dunque certamente di essere qualificato come moderno; e gli argomenti chiamati in soccorso a questo proposito dagli amici del dialogo sono di una piattezza assoluta. I discorsi di questi movimenti non fanno per niente i conti col fatto che l’islam wahhabita respinge tutto quanto l’integrazione tra l’islam storico e la filosofia greca aveva prodotto ai suoi tempi, accontentandosi di ripetere gli scritti piatti del più reazionario dei teologi del Medio Evo, Ibn Taymiya. Per quanto alcuni dei suoi araldi definiscano tutto questo come un “ritorno alle fonti” (perfino all’islam del tempo del profeta), non si tratta in realtà se non del ritorno alle concezioni in vigore duecento anni fa, quella di una società arretrata nel suo sviluppo da molti anni.
L’islam politico contemporaneo non è il prodotto di una reazione ai pretesi abusi della laicità, come purtroppo si dice troppo spesso. Perché nessuna società mussulmana dei tempi moderni – salvo che nella defunta Unione sovietica – è stata mai veramente laica, meno che mai colpita dalle audacie di un qualsivoglia potere laico aggressivo. Lo stato semi moderno della Turchia kemalista, dell’Egitto nasseriano, della Syria e dell’Iraq baathiste, si è accontentato di addomesticare gli esponenti religiosi (come era già successo spesso anche prima) per imporre loro un discorso destinato a legittimare solo le loro opzioni politiche. L’avvio di un pensiero laico non esisteva se non in certi ambienti intellettuali critici. Non aveva granché presa sullo Stato; e questo stesso pensiero, trascinato dal progetto nazionalista, ha qualche volta arretrato su questo piano, come testimonia l’evoluzione inquietante inaugurata ai tempi stessi di Nasser, di rottura con la linea politica adottata dal Wafd (il partito liberale di Nasser) fin dal 1919. La spiegazione di una tale deriva è forse evidente: rifiutando la democrazia, i regimi sostituiscono ad essa “l’omogeneità della comunità”, della quale si vede crescere il pericolo perfino nella democrazia in regressione, nello stesso occidente contemporaneo.
L’islam politico propone di completare una evoluzione già largamente avviata nei paesi interessati, diretta a ristabilire un esplicito ordine teocratico conservatore, associato a un potere politico di tipo “mamelouk”. Il riferimento a questa casta militare dirigente fino a due secoli fa, che si poneva al di sopra di ogni legge (preoccupandosi di conoscere solo la charia), capace di accaparrare per sé i benefici della vita economica e che ha accettato – in nome del realismo – di integrarsi in posizione subalterna nel processo di mondializzazione capitalista dell’epoca, viene immediatamente alla mente di qualsiasi osservatore sia dei regimi post-nazionalisti degradati della regione, che i nuovi regimi pretesi islamici, loro fratelli gemelli.
Non c’è, da questo fondamentale punto di vista, granché differenza tra le correnti dette “radicali” dell’islam politico e quelli che vorrebbero darsi un volto “moderato”. Il progetto di entrambi è identico. I programmi di tutti quelli che si richiamano all’islam politico, dal Marocco al Pakistan, che siano classificati come “moderati” (come i Fratelli mussulmani) o “estremisti”, addirittura “terroristi”, sono tutti rigorosamente identici. Sono proprio i loro testi pubblicati, e che bisogna leggere prima di parlarne, ad attestarlo.
Si danno tutti come obiettivo la realizzazione di una teocrazia nel senso pieno del termine. Tutti rifiutano la democrazia, giacché soltanto Allah è legittimato a legiferare, non certo gli esseri umani, e nella quale la sola funzione del governo è quella di applicare la legge divina (la charia), che si suppone sia in grado di dare risposte a tutti i problemi in ogni campo (ma non è questa la charia). Chi dunque interpreterà questa legge divina che stabilisce il regno di Dio (hakimiya lillah)? Solo i religiosi hanno la competenza per farlo (wilaya al faqih), e dunque solo a loro spetta l’esercizio di ogni potere, senza separazioni. Fa male immaginare una società senza una qualche forma di regolamentazione giuridica delle pratiche della vita. Se, come l’islam politico propone, non devono esserci legislatori eletti dal popolo, questo potere può essere esercitato unicamente da “giudici” che, attenendosi alle pratiche del ragionamento per analogia, possono estendere la charia a nuovi ambiti. Governi di soli giudici, come viene praticato in Somalia quello dei Tribunali islamici, forma veramente suprema dell’islam politico.
Nello stesso tempo tutti questi programmi impediscono allo Stato di intervenire nella vita economica, che deve essere sottoposta alle sole regole dei rapporti di mercato, leciti nella charia. Il programma lascia dunque intatto il potere reale delle classi possidenti, vietato attentare alla proprietà, che è sacra, alle fortune personali, per quanto possano essere importanti e inegualmente ripartite. Le pratiche del capitalismo sono considerate tutte lecite, ad eccezione dei prestiti a interesse (un divieto che le banche islamiche sono riuscite ad aggirare senza difficoltà). Per contro il socialismo, anche se riformista moderato, è sempre empio. Il presidente Bush non avrebbe detto di meglio.
Non è una forzatura raffrontare l’islam politico e il fascismo. Perché in entrambi i casi si tratta di fare accettare alle classi più povere lo sfruttamento e l’oppressione.
Uniti nell’obiettivo finale, questi partiti religiosi non differiscono se non nella tattica. I moderati come i Fratelli mussulmani teorizzano l’infiltrazione nell’apparato dello Stato. Non hanno torto. Perché un programma come il loro, che non concepisce altro tipo di potere che non sia violentemente autocratico, non è per niente disturbato dalle dittature in giro, fintanto che gli eserciti sulle quali esse si appoggiano sono già fortemente islamizzati. Non sono disturbati nemmeno dalla borghesia compradora, essa stessa in pieno accordo con l’islamismo e antidemocratica! Infatti sono questi i regimi che preparano la dittatura teocratica. Perché se gli islamismi sono arrivati a controllare la società civile, ciò è avvenuto grazie alla complicità attiva dei governi. Nello stesso tempo lo Stato autocratico interviene con l’ultima violenza contro i movimenti sociali popolari (per esempio gli scioperi), vieta alle forze progressiste ogni forma di azione (definita immediatamente come “agitazione comunista”), vieta l’organizzazione indipendente dei sindacati e delle cooperative agricole.
Accettare in queste condizioni l’ascesa al potere degli islamismi “moderati” attraverso la via elettorale, come suggeriscono certi democratici occidentali, è cadere nella trappola. La sola rivendicazione democratica che bisogna difendere, è quella di esigere il riconoscimento dei diritti della classe popolare e delle forze progressiste a organizzarsi e ad agire. Solo loro possono fare da barriera al fascismo islamico.
Estratto da un lavoro che sarà pubblicato da Parangon nell’ottobre 2008 sotto il titolo “Modernità, religione, democrazia – critica dell’eurocentrismo – critica dei culturalismi”.