ProfileIntervento, novembre 2017 - La questione dei bambini sottratti alle famiglie "mafiose" è cosa troppo seria perché venga affidata - parafrasando Clausewitz — alle cure del Csm, o degli esponenti «dell’antimafia militante»...

 

 
Il CSM e i figli dei boss
Nicola Quatrano
 
È ben curioso il modo con cui certi esponenti «dell’antimafia militante» si misurano col tema di una criminalità che, non solo non accenna a diminuire nonostante i continui arresti, ma si allargainfettando fasce sempre più ampie della popolazione.
 
 
È come se non sentissero il bisogno di fermarsi un momento a guardarsi indietro, fare un bilancio critico delle loro idee e delle strategie finora messe in campo. Per quanto, dopo oltre venti anni di repressione militare forte e dura, sarebbe proprio il caso di porsi qualche domanda, chiedersi che cosa non abbia funzionato se i comportamenti criminali, lungi dall’attenuarsi, si manifestano oggi con maggiore violenza, e se non si è riusciti a ridurre per niente la domanda di droga né a chiudere (definitivamente) una sola piazza di spaccio. Autoreferenziali per formazione, autocelebrativi per convenienza, questi impiegati dell’emergenza non coltivano però l’arte del dubbio (giudicato forse un cedimento alle cosche) e vanno dritti per la loro strada, addirittura rilanciano e chiedono sempre nuovi e più incisivi strumenti repressivi, comodamente assisi sulle loro certezze e, qualche volta, sulle poltrone o poltroncine che la «lotta alla criminalità» ha collocato sul loro cammino. 
 
Dispiace dunque che, nei giorni scorsi, il Csm abbia fatto proprio un tema tipico della «antimafia militante», licenziando una «delibera» che approva e promuove quegli esperimenti già tentati da alcuni uffici giudiziari (tra cui quello di Napoli), di sottrazione dei bambini alle famiglie «mafiose», definite nel documento di per sé «maltrattanti».
 
A chi si chiedesse perché mai l’organo di autogoverno della magistratura si sia occupato di questi temi, piuttosto che, per dire, affrettarsi a coprire il posto, vacante da circa un anno, di presidente aggiunto dell’Ufficio Gip di Napoli (ufficio «di frontiera» afflitto da gravi problemi di organico), rispondo che forse «lottare contro la criminalità», per il Csm, è più facile che coprire un posto direttivo o semi-direttivo. Impresa quest’ultima che richiede complicate alchimie e delicati equilibri. I maligni parlano di «spartizione», i suoi membri preferiscono — a mezza voce — l’espressione «pacchetto», che è una specie di accordo win win su di un gruppo di nomine accorpate, capace di dare soddisfazione a tutte le componenti e sotto-componenti. 
 
Ma la questione dei bambini sottratti alle famiglie avrebbe meritato maggiore e migliore attenzione. Perché se è indubbio che crescere in un ambiente criminale può generare criminalità, è altrettanto vero che pure la deprivazione degli affetti familiari può provocare il medesimo risultato. Senza contare che non è affatto certo che interesse del bambino sia quello di diventare un disadattato onesto, piuttosto che un delinquente psichicamente equilibrato. 
 
Non a caso, le iniziative dei Tribunali per i Minorenni di Reggio Calabria e Napoli, al di là delle buone intenzioni che le hanno ispirate, hanno suscitato più critiche che consensi. Non fosse altro per il «modo»: il blitz alle 6 di mattina, i piccoli svegliati dagli uomini in divisa, vestiti in fretta e portati via in lacrime… le grida dei parenti, il terrore… Ci si chiede fondatamente se sia davvero questo il modo giusto di «aiutarli» a crescere meglio.
 
Ho già scritto, proprio su queste colonne, che simili iniziative puzzano inoltre di «sanzione». E nemmeno del reato, piuttosto del contesto, della famiglia in cui si è nati, perché a nessuno è mai venuto in mente di togliere i bambini agli autori di reati tipici di altre classi sociali. Una «sanzione» aggiuntiva per la criminalità della plebe, che certamente si accompagna a manifestazioni di degrado sociale e familiare, ma non per questo sembra giusto colpire in un modo tanto «doloroso» per tutti (i genitori, la famiglia e i bambini stessi). A meno che non si accetti la logica militare di una «guerra alla criminalità», che tende a considerare chi delinque (alcuni, non tutti) come un «nemico» da annientare.
 
Bisognerà che, prima o poi, si capisca che la diffusione dei comportamenti criminali, quando investa ampie fasce di popolazione come a Napoli e nel Sud, è un problema sociale e politico, frutto di un complesso di cause, non tutte addebitabili al singolo «delinquente». Se la repressione è doverosa e inevitabile, è altrettanto chiaro però che l’obiettivo prioritario deve essere il recupero, soprattutto quando parliamo di giovani e giovanissimi che rappresentano – anche se nati a Scampia, ad Archi o alla Guadagna – il futuro della nazione. E il futuro non comincia certo bene, se i carabinieri ti strappano al letto e alla famiglia alle 6 di mattina.
 
Spetta alla politica trovare la buona soluzione. Il futuro dei nostri giovani è cosa troppo seria — parafrasando Clausewitz — perché venga affidato alle cure del Csm, o degli esponenti «dell’antimafia militante» (che, peraltro, sempre più raramente assomigliano a Giovanni Falcone).
 
 
 
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