ProfileIntervento, 8 febbraio 2024 - Ma la soluzione invocata scaturirà dalle rovine di Gaza? Abbiamo ragione di chiedercelo di fronte alla grande confusione geopolitica che regna oggi (nella foto, le rovine di Gaza)      

 

 
Dal “Diluvio di Al-Aqsa” alla “Spada di Ferro”: una pericolosa spirale di vendetta in Medio Oriente
Myriam Benraad
 
Il 7 ottobre 2023, il gruppo palestinese Hamas ha lanciato dalla Striscia di Gaza l'operazione Al-Aqsa Flood ('Amaliyyat Tufan al-Aqsa ) in riferimento alla moschea omonima situata sul Monte del Tempio, a Gerusalemme est, il terzo luogo più sacro dell'Islam. Questo brutale attacco contro il suolo israeliano, unico dal 1948 e dalla creazione dello Stato ebraico, consistito nel lancio di pesanti razzi su diverse località e kibbutz nel sud di Israele, nonché nell'infiltrazione di numerosi militanti islamici via terra, mare, e cielo, ha prodotto più di mille morti tra i civili e il rapimento di centinaia di ostaggi. Sulla scia di questi drammatici eventi, è iniziata anche un'escalation di conflitto senza precedenti: in nome della "causa palestinese", Hamas si è lanciata in una spirale di rappresaglie senza speranza, mentre Israele ha scelto di vendicarsi, attraverso una brutale offensiva punitiva che ha da allora ha causato la morte di migliaia di Palestinesi.
 
 
 
 
Cicli di rabbia, risentimento e vendetta 
 
È con sgomento che la comunità internazionale ha scoperto la portata dei massacri perpetrati da Hamas nell’ottobre 2023, poi definiti crimini di guerra e crimini contro l’umanità. [1] La situazione in Medio Oriente ha continuato a peggiorare. La sera stessa dell'attacco, Benyamin Netanyahu prometteva che Israele si sarebbe vendicato di questa aggressione e lanciava l'operazione “Spada di Ferro”, un assedio totale dell'enclave con interruzione della fornitura di acqua ed elettricità, presto seguito dalla fuga di migliaia di civili. Gaza viene bombardata giorno e notte dall’IDF e ai Palestinesi non resta altra scelta che scappare quando possono, o perdere la vita. Al di là degli sviluppi attuali, sui quali il peso delle emozioni continua a focalizzare l’attenzione, è opportuno interrogarsi sulle questioni e sulle ricadute di questo scontro.
 
In un articolo, Sylvie Kauffmann ha parlato di decadenza del sistema internazionale basato su norme a vantaggio del libero regno dell'espressione disinibita dell'odio e del desiderio di vendetta, sottolineando il "ritorno della forza bruta" in questa regione del mondo nonché una storica messa in discussione del diritto di guerra (jus bello) [2]. Non c’è certamente nulla di nuovo nel ruolo svolto dalla vendetta in molte crisi e cicli violenti. Il desiderio di vendetta ha il potenziale spaventoso di destabilizzare profondamente una situazione, un ambiente, e l'aggressività di una parte in riparazione di un presunto torto viene spesso contrastata da una reazione simile, o addirittura superiore. Tuttavia, quando la vendetta prende il posto della legge di guerra e dei suoi principi fondamentali, si trasforma in una spirale terrificante.
 
A lungo termine, questo scontro deriva da un accumulo di rimostranze, rabbia e risentimento, da entrambe le parti, che hanno alimentato questo desiderio di vendetta. L’offensiva israeliana non è la prima di questo genere: da quando Hamas è salito al potere nel 2006, lo Stato ebraico ha continuato a reagire agli attacchi e alle provocazioni di Hamas per minimizzarne l’influenza. Così, nel 2008, ha lanciato l’Operazione Piombo Fuso, incentrata sull’azione aerea israeliana contro questo movimento, seguita da Pilastro di Difesa nel 2012, un’operazione durante la quale è stato assassinato il leader palestinese Ahmed al-Jaabari. Questa è stata poi seguita nel 2014 dall’operazione Confine di protezione, che si è conclusa con un fragile cessate il fuoco. Successivamente, le Operazioni Guardiano delle Mura (2021) e Scudo e Freccia (2023) non hanno posto fine a questo ciclo infernale; anzi, hanno addirittura preparato la catastrofe attuale.
 
In che modo la vendetta è diventata un punto di convergenza per i belligeranti? Tomas Bohm e Suzanne Kaplan vedono la vendetta come un “impulso orribile” che mette l'aggressore e la sua vittima faccia a faccia, trascinati in una sorta di danza macabra dove i ruoli possono, in ogni momento, essere invertiti. Man mano che si provocano ritorsioni e danni, scompare ogni possibilità di negoziazione, il che implicherebbe la necessità di “addomesticare” questo desiderio di vendetta. La vendetta indiscriminata [3] a cui si concede Israele ne è la dimostrazione: quelle voci dell’apparato militare e di sicurezza israeliano che incitano alla massima offensiva contro Hamas e le altre fazioni armate che agiscono a Gaza – compresa la Jihad islamica – ancora un decennio fa non erano affatto prevalenti. L'IDF favoriva all’epoca una strategia di contenimento e ne sembrava soddisfatta, nonostante il rischio allora molto reale che il movimento di resistenza rappresentava per le comunità ebraiche che vivevano vicino al confine.
 
Il mese di ottobre 2023, che interviene a cinquant’anni dalla guerra dello Yom Kippur che colse Israele di sorpresa nel 1973 e che Hamas afferma, senza alcuna sorpresa, di sostenere, segna un punto di svolta nella politica nei confronti di Gaza e una escalation storica di ostilità.
 
Tuttavia, l’adagio secondo cui “la vendetta è un piatto che va servito freddo” [4] solleva la questione delle conseguenze di questa passione: i “vendicatori” israeliani non avrebbero dovuto aspettare un momento più propizio, in luogo e al posto di questo tuffo nella vendetta non privo di pericoli? Allo stesso modo, Hamas, in definitiva, con la sua iniziativa, non ha solo “seppellito” [5] il già precario futuro dei Palestinesi?
 
Nella morsa della punizione collettiva
 
Questa domanda non è più una vera domanda nel momento in cui scrivo: solo pochi giorni dopo l’inizio della risposta israeliana, migliaia di edifici sono stati distrutti dagli attacchi aerei su Gaza. Molti civili, tuttavia, non avevano alcun legame diretto con Hamas e non nutrivano particolare simpatia per esso. Ma tale punizione collettiva era purtroppo prevedibile. Nel corso del tempo, la maggior parte delle culture, in particolare quelle basate sull’onore, hanno esercitato la vendetta punendo intere comunità per la morte di uno di loro, basandosi esclusivamente sulla sua appartenenza al gruppo. La vendetta di sangue tra famiglie e clan è una manifestazione emblematica di questa logica secolare: tradisce la preferenza di vendicare la morte di una persona cara, prendendo di mira non solo l'assassino ma anche considerando possibile e accettabile sostituire a lui quali bersagli altri membri del suo gruppo.
 
Si tratta appunto della vendetta scelta da Israele a Gaza, che assume significato alla luce delle perdite umane causate dall'attacco di Hamas e attraverso il prisma di una certa visione degli abitanti di Gaza, considerati collettivamente complici e intermediari dei militanti di Hamas. Israele ha quindi ritenuto coerente e lecito sferrare il suo fulmine su un'intera popolazione civile e non limitarsi ad azioni mirate o alla liberazione di ostaggi. Questa concezione estensiva della punizione rimanda anche a una lettura della responsabilità morale specifica della società israeliana. Le dichiarazioni dei leader dello Stato ebraico delineano infatti una teoria implicita secondo la quale ogni Palestinese a Gaza e in Cisgiordania sarebbe moralmente responsabile delle azioni di Hamas e non potrebbe essere tenuto distinto da questo movimento e dalle sue gesta d'armi.
 
Tuttavia, questa rappresentazione, che nega ogni responsabilità individuale, paradossalmente avvicina Israele al suo avversario: dopo tutto, Hamas non ha operato secondo una logica analoga, attaccando essenzialmente civili innocenti? In realtà, le molle psicologiche che portano alla punizione collettiva sono spesso separate da ogni giudizio etico. Punire tutti i Palestinesi per la violenza di Hamas è una pratica di vecchia data. Se escludiamo la virulenza dell'attuale offensiva israeliana, uno sguardo distaccato a tutte le guerre passate mostra, senza ambiguità, che lo Stato ebraico ha sempre aderito a una dottrina dell'eccesso (hubris), la sua principale garanzia di sopravvivenza. Non dimentichiamo inoltre il carattere dissuasivo della vendetta messa in atto contro Gaza, volta a garantire che nessun altro attacco paragonabile a quello del 7 ottobre si ripeta.
 
In ogni conflitto, tuttavia, il destino dei civili non può essere considerato secondario. Hamas non poteva ignorare che uccidendo persone innocenti – donne, bambini, anziani – in una simile esplosione di violenza, avrebbe provocato una “contro-alluvione” a danno degli stessi Palestinesi che sostiene di difendere. Allo stesso modo, abbiamo il diritto di mettere in discussione gli obiettivi della ritorsione applicata da Israele a Gaza, che supera in numero di morti quello delle sue vittime e ignora il principio di proporzionalità della punizione, peraltro centrale tanto nell’ebraismo che nell’islam. “Occhio per occhio, dente per dente”: questa famosa frase implica una vendetta in proporzioni regolamentate, presuppone moderazione, per ragioni etiche di prim'ordine.
 
La letteratura sui conflitti menziona anche la nozione di retribuzione indiretta, “quando un membro di un gruppo commette un atto di aggressione nei confronti di membri di un altro gruppo per un’aggressione o una provocazione che non ha avuto conseguenze personali per lui, ma che ha causato un danno a un altro membro del gruppo” (…). La retribuzione è indiretta, nel senso che né l’agente né l’obiettivo della ritorsione sono stati direttamente coinvolti nell’evento iniziale che ha fatto precipitare il conflitto tra gruppi”. Esiste una definizione migliore per spiegare la spirale di vendetta a cui il mondo esterno assiste impotente da settimane?
 
Una guerra tra costi e benefici
 
Da parte palestinese come in campo israeliano, questa escalation armata comporta benefici e costi. Attaccando frontalmente Israele, Hamas ha voluto avviare uno scontro militare inteso a eliminare uno status quo di cui la sua ideologia non può essere soddisfatta. Quanto a Israele, la guerra totale decretata contro l’intera enclave di Gaza, attraverso l’uso di una forza sproporzionata, mira ad annientare Hamas, vendicare le morti israeliane e ricostruire il significato del suo primato strategico.
 
La vendetta offre vantaggi innegabili. In questo caso, svolge tre funzioni adattative che fanno luce sul motivo per cui Israele ha scelto una punizione severa. In primo luogo, la vendetta scoraggia altre trasgressioni: uno Stato vendicativo sarà infatti meno esposto alla vittimizzazione perché il suo nemico saprà che i costi dell’aggressione possono essere molto alti. La vendetta è lo specchio di una cultura del rispetto che ne spiega la persistenza. Non è questo il messaggio trasmesso dall'esercito israeliano? Inoltre, se si verifica una violazione, la vendetta interrompe la possibilità di ulteriori torti o danni in quanto penalizza duramente i suoi autori. Infine, la vendetta può, nella migliore delle ipotesi, portare alla cooperazione tra avversari – una prospettiva improbabile in Medio Oriente.
 
Alla base di questo ricorso alla vendetta c’è anche la certezza di ristabilire la giustizia. Vendicarsi su Israele è quindi un’ossessione per molti Palestinesi che sentono di essere stati trattati ingiustamente sin dalla creazione di Israele. Allo stesso tempo, la vendetta è vista dagli israeliani come un mezzo per alleviare la sofferenza derivante dagli ultimi eventi, per alleviare la sofferenza delle vittime, per ripristinare l’equità. La vendetta suscita la sensazione di essere stato maltrattato, ferito a morte, che il nemico ha tratto soddisfazione da questo dolore. Ecco cosa rende le azioni di Hamas insopportabili agli occhi delle famiglie e dei cari dei civili giustiziati o rapiti: quale piacere perverso ha trovato Hamas nell'inondare i social network e altre piattaforme digitali con contenuti mostruosi?
 
Israele cerca di esorcizzare il male subito dalla sofferenza esponenziale dei Palestinesi e questa è una tragedia nella misura in cui la vendetta può solo ripristinare come minimo un “equilibrio di sofferenza” [6] tra aggressori e vittime. Questa risposta violenta non è estranea al ripristino del suo status regionale da parte di Israele, per scongiurare il sentimento di impotenza che è seguito al 7 ottobre. Ma la vendetta è un fenomeno distruttivo, per chi la vive come per chi la attua. Lo scontro che si svolge davanti ai nostri occhi è parte di un continuum di vendetta reciproca all'origine della natura prolungata di questo conflitto [7] e del suo carattere insormontabile. Un altro costo della vendetta, infatti, è l’allontanamento duraturo da ogni prospettiva di pace.
 
Aggiungiamo che l'escalation di violenza è strettamente legata a visioni antagoniste di vendetta: mentre Israele percepisce la propria come legittima, altri la considerano eccessiva [8]. Inoltre, una volta passata l'euforia per la sua realizzazione, gli effetti della vendetta sono sempre deleteri sul piano psicologico, tra sconforto e depressione, morbosità e rimuginazione.
 
Il peso schiacciante del trauma 
 
In Medio Oriente, gravi trasgressioni e violazioni, ripetute nel tempo, non fanno altro che radicare amarezza e risentimento. Da tutte le guerre passate nascono certi pensieri ossessivi di vendetta, alcuni dei quali evocano una “sindrome di amarezza post-traumatica” dopo eventi che generano una percezione di ingiustizia e di violazione di valori e norme essenziali. Tali eventi implicano anche, tra le vittime e nella società, il sentimento di essere stati umiliati, la propria identità minacciata.
 
La scala individuale si intreccia quindi con quella collettiva in quanto la guarigione della vittima distrutta nella sua integrità è quella del corpo sociale preso nella sua interezza. L’attacco di Hamas ha plasmato un diffuso desiderio di vendetta in tutto Israele, un desiderio che è stato osservato in altre parti del mondo quando vengono commesse atrocità contro civili (uccisioni, presa di ostaggi, abusi sessuali) o dopo essere stati esposti ad aggressioni. Ad ogni nuovo scontro tra israeliani e palestinesi, fantasie di vendetta riemergono violentemente da entrambe le parti.
 
Anche la trattazione mediatica del conflitto ha contribuito a instaurare questi riflessi vendicativi nell’opinione pubblica. Le reazioni al 7 ottobre 2023 ricordano quelle seguite agli attentati dell’11 settembre 2001. A legittimare questa analogia storica contribuisce non solo l’indignazione, ma anche la vendetta. [9]
 
Il 15 ottobre, un sondaggio d'opinione trasmesso dalla CNN indicava che il 70% degli statunitensi considerava le rappresaglie israeliane totalmente (50%) o parzialmente (20%) giustificate.
 
La vendetta è più una strategia di sopravvivenza dopo intensi episodi traumatici. Su questo punto, la pacificazione tra israeliani e palestinesi sarà tanto più difficile in quanto l’alternativa alla vendetta consisterebbe per tutti loro nell’accettare le ingiustizie subite, nel ripensare gli eventi, nel reprimere i propri sentimenti vendicativi. In questo contesto la vendetta appare come un tentativo di gestire i postumi lasciati alle spalle, di recuperare il senso di sé e di controllare il proprio destino. La punizione inflitta da Israele ai Palestinesi e la percezione della loro sofferenza forniscono, anche se fugacemente, un certo sollievo.
 
Ma la vendetta che persiste corre sempre il rischio di andare perduta, il che significa stress, ansia e persino rimorso tra coloro che la tengono accesa. Inoltre, non è certo che ripristinerà un senso di sicurezza in Israele; mai, infatti, i civili israeliani e palestinesi si sono sentiti così insicuri. Infine, la vendetta spesso impedisce alle ferite di rimarginarsi, di chiudere un capitolo mortale, creando una terribile vulnerabilità.
 
Contagio a diversi livelli 
 
Dopo l’immediato timore, in molti anticipavano quale sarebbe stato l’esito drammatico di questa ennesima crisi. L'attacco di Hamas ha letteralmente messo in ginocchio la Striscia di Gaza, sicuramente per generazioni, mentre l'azione punitiva di Israele, decisa a caldo, si è già in parte rivoltata contro di essa nell'opinione pubblica, generando ora più attenzione per la popolazione civile di Gaza che per le vittime israeliane.
 
Questo sviluppo fa luce sul motivo per cui Israele ha così tanta difficoltà a convincere la gente della fondatezza delle sue intenzioni. Il caso dell’esplosione dell’ospedale Al-Ahli il 18 ottobre 2023 a Gaza è edificante in questo senso: se Tel Aviv attribuisce la tragedia a un fallito attacco missilistico della Jihad islamica, insistendo sulla non colpevolezza di Israele, in molti continuano a incolparlo. Pur riconoscendo il proprio diritto ad esistere e a difendersi, sempre più voci si levano per sottolineare che, attraverso questa vendetta sfrenata, lo Stato ebraico si avvicina pericolosamente agli errori precedentemente commessi dagli Stati Uniti. Joseph Biden non si è opposto alla punizione israeliana ma ha messo in guardia dagli eccessi di una “ubriachezza” [10] di vendetta: “Lo shock, il dolore, la rabbia – una rabbia consumante. Capisco, e molti statunitensi capiscono. Non puoi guardare cosa è successo alle tue madri, ai tuoi padri, ai tuoi nonni, ai tuoi figli, alle tue figlie, ai tuoi figli – anche ai neonati – e non invocare giustizia. Bisogna fare giustizia. Ma ti avverto: se senti questa rabbia, non lasciarti consumare» [11]
 
Tuttavia, il contagio della vendetta continua su tripla scala: locale, regionale e globale.
 
– Locale, innanzitutto, con l’incendio della Cisgiordania. Violenti scontri hanno luogo tra i palestinesi – che in questi territori sono tre milioni – l’IDF e i coloni ebrei desiderosi di vendetta. I giovani palestinesi si sono ulteriormente radicalizzati, contro un’occupazione israeliana che dura dal 1967 e un’Autorità Palestinese che è stata screditata e accusata di collusione con Tel Aviv. Anche Gerusalemme Est è stata teatro di scontri e nei campi profughi sono aumentate le richieste di ritorsione.
 
– Regionale, quindi, nella misura in cui la conflagrazione si riverbera ad alta velocità in un Medio Oriente frammentato e polarizzato. L’Iran continua quindi a promettere a Israele una vendetta amara, “devastante e calamitosa”. Le basi militari statunitensi in Siria sono state attaccate. Senza sollecitare vendetta, l’Egitto ha esortato i palestinesi a rimanere “incrollabili”. In Turchia, Erdoğan ha criticato “il massacro degli innocenti”, equiparando Israele a un’organizzazione terroristica. L’Arabia Saudita ha finalmente congelato qualsiasi normalizzazione delle sue relazioni con lo Stato ebraico, menzionato fino a poco tempo fa nel contesto degli Accordi di Abraham (trattati di pace arabo-israeliani del 2020).
 
– Globale, infine, attorno a forti manifestazioni di rabbia contro l’assedio di Gaza e la situazione dei civili palestinesi. Gli echi di questa esplosiva geopolitica mediorientale lasciano poche speranze di una fine decisiva della crisi. Senza grande sorpresa, la Russia si vendica così, per procura, del suo avversario statunitense, adottando una visione opposta alla politica di Washington su questa questione scottante. La Cina, da parte sua, si è allineata alla posizione russa invitando Israele a limitare l’uso della forza e invocando una soluzione a due Stati. L’India, dal canto suo, è rimasta in silenzio dopo questa recrudescenza della violenza, preferendo non interferire in una vicenda infiammabile. Ma la soluzione invocata scaturirà dalle rovine di Gaza? Abbiamo ragione di chiedercelo di fronte alla grande confusione geopolitica che regna oggi.
 
 
 
Note:
 
[1] François Dubuisson, « Conflit israélo-palestinien : ce que dit le droit », Conversation France, 12 ottobre 2023.
 
[2] « Le droit de la guerre est bafoué dans l’ensemble des conflits récents », Le Monde, 11 ottobre 2023.
 
[3] La formula è presa in prestito da Dominique de Villepin che, in un’intervista a France Inter il 12 ottobre 2023, ha ricordato che «il diritto alla legittima difesa non è il diritto ad una vendetta indiscriminata».
 
[4] Sheila C. Bibb et Daniel E. Montiel (dir.), Best Served Cold: Studies on Revenge, Oxford, Inter-Disciplinary Press, 2010.
 
[5] Jean-Paul Chagnollaud, « Guerre Hamas-Israël : La cause palestinienne risque d’être ensevelie pour longtemps sous les cendres d’actes effroyables’ », Le Monde, 12 ottobre 2023.
 
[6] Nico H. Frijda, « The Lex Talionis: On Vengeance », in Stephanie H.M. van Goozen (et al.) (dir.), Emotions: Essays on Emotion Theory, New York, Psychology Press, 1994, pp. 263-289.
 
[7] Sung H. Kim et Richard H. Smith, « Revenge and Conflict Escalation », Negotiation Journal, vol. 9, n° 1, 1993, pp. 37-43.
 
[8] Arlene Stillwell, Roy F. Baumeister et Regan E. Del Priore, « We’re all victims Here: Toward a Psychology of Revenge », Basic and Applied Social Psychology, vol. 30, n° 3, 2008, pp. 253-263.
 
[9] Peter Mansoor, « A Reflexive Act of Revenge Burdened the US – and May Do the Same for Israel », The Conversation, 16 ottobre 2023.
 
[10] Alain Policar et Anna C. Zielinska, « Guerre Israël-Hamas : Dans l’ivresse de la vengeance, les voix de ceux qui veulent la paix sont presque inaudible », Le Monde, 18 ottobre 2023.
 
[11] « Remarks by President Biden on the October 7th Terrorist Attacks and the Resilience of the State of Israel and its People », Tel Aviv, 18 ottobre 2023.
 
 
Ossin pubblica articoli che considera onesti, intelligenti e ben documentati. Ciò non significa che ne condivida necessariamente il contenuto. Solo, ne ritiene utile la lettura.

 

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