Condannato a morte per apostasia
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Condannato a morte per apostasia
Nicola Quatrano
Premessa
Il 24 dicembre 2014, nella tarda serata, la Corte Criminale di Nouadhibou (la seconda città della Mauritania) ha condannato a morte per apostasia Mohamed Cheikh ould Mohamed ould Mkhaitir, un ingegnere di 29 anni, figlio del prefetto di quella città.
La Mauritania è una Repubblica islamica dove è in vigore la sharia (la legge islamica) ma le sentenze estreme, come la pena di morte o di flagellazione, non vengono più applicate da circa tre decenni. Negli ultimi anni, diverse persone sono state condannate a morte, per lo più per omicidio o fatti di terrorismo. L’ultima effettiva esecuzione capitale, tuttavia, risale al 1987, secondo Amnesty International.
L’imputato si era dichiarato non colpevole, martedì 23 dicembre 2014, all’apertura del processo, il primo del genere in questo paese di quasi quattro milioni di abitanti. In stato di detenzione dal 2 gennaio, era accusato per uno scritto denunciato come blasfemo e oltraggioso nei confronti del profeta Maometto. Accusa da lui respinta, avendo spiegato che sua intenzione non era di criticare il profeta, ma solo di difendere una componente sociale “malconsiderata e discriminata”, la casta dei maniscalchi (“maalemine”). Egli proviene infatti da questa comunità posta ai livelli più bassi della scala sociale, in una società mauritana dalla complessa gerarchia e in trasformazione, che si articola attorno a etnie, tribù, ciascuna di esse suddivise in caste.
Alla lettura del dispositivo è svenuto, secondo quanto raccontato ad AFP da una fonte giudiziaria. “E’ solo un criminale che ha avuto quel che si merita”, ha dichiarato alla stampa, a Nouakchott, Jemil Ould Mansour, presidente del partito islamista moderato Tewassoul (opposizione).
La pronuncia del verdetto è stata salutata, nella notte tra mercoledì e giovedì, da rumorose scene di gioia a Nouadhibou, sia in Tribunale che nelle strade, ma anche a Nouakchott, la capitale. Nelle due città, gli abitanti sono scesi in strada salutando la sentenza con dei concerti di clacson, alcuni gridando “Allah Akbar” (Dio è grande).
Pressione popolare (un Je suis Charlie mauritano?)
L’imputato era difeso da due avvocati di ufficio, dopo che il difensore di fiducia, il noto Maitre Ichiddou, aveva rinunciato al mandato per la pressione della piazza. Sembra che uno dei due difensori di ufficio si sia limitato, nel corso dell’arringa, a spiegare le ragioni per cui era costretto a difendere l’imputato.
Maitre Youssouf Niane
Successivamente, nel febbraio 2015, anche i due avvocati di ufficio, Maître Youssef Niane e Maître Mohamed Mahmouba, hanno rinunciato al mandato, per paura di ritorsioni, ed attualmente l’imputato è privo di difesa.
Le pressioni dei gruppi islamisti radicali hanno trovato una sponda importante nei più alti vertici dello Stato. In occasione dell’arresto del giovane Mkhaitir, infatti, lo stesso presidente della Repubblica Islamica della Mauritania, Mohamed Abdel Aziz, ha dichiarato, davanti ad una folla di manifestanti raggruppati alla porta del suo palazzo: “Vi ringrazio di tutto cuore per la vostra partecipazione massiccia ad una manifestazione contro il crimine commesso da un individuo contro l’islam, la religione del nostro popolo, del nostro paese. La Repubblica Islamica di Mauritania, come ho già precisato in passato e riaffermo oggi, non è laica e non lo sarà mai… vi assicuro quindi che il governo e io stesso non lesineremo alcuno sforzo per proteggere e difendere questa religione e i suoi simboli sacri…”.
Aminetou Mint Moctar, nota militante mauritana per i diritti umani, presidente della ONG AFCF (Associazione delle donne capi di famiglia), insignita nel 2006 del Premio per i diritti dell’uomo della Repubblica Francese, nel 2010 del Premio Eroe degli Stati Uniti e, sempre nel 2010, della medaglia di Cavaliere della Legion d’Onore Francese, è stata una delle poche persone a prendere le difese del giovane M’Kheitir. Suscitando così le ire di Yehdhih Ould Dahi, capo della corrente islamista radicale "Ahbab Errassoul" (gli amici del profeta) che ha lanciato una fatwa di morte contro di lei:
"Questa malvagia che difende Mkhaitir e va dicendo che si tratta di un detenuto di opinione, e che ha chiesto la sua liberazione e che venga restituito a sua moglie, questa donna che descrive gli amici del profeta come dei Boko Haram e dei Takfiri, solo perché chiedono il rispetto dell’onore del profeta, che sia dannata da Allah, gli angeli e tutta la gente insieme. Oggi io annuncio, con la benedizione di Allah, la sua apostasia per avere minimizzato l’oltraggio all’onore del profeta. E’ una infedele, del cui sangue e dei cui beni è lecito impadronirsi. Chiunque la uccida o le cavi gli occhi sarà ricompensato da Allah".
Alla fatwa è seguita la pubblicazione, su vari siti islamisti, dell’indirizzo, dei numeri di telefono e delle foto di Mint Moctar, che attualmente vive sotto la protezione di Amnesty International.
Aminetou Mint Moctar
Il delitto di apostasia
ART. 306 del Codice penale mauritano
Chiunque oltraggi pubblicamente il pudore o i costumi islamici, ovvero violi i luoghi sacri o aiuti a violarli, se il suo atto non rientri tra i crimini che comportano la Ghissass (legge del taglione) o la Diya (prezzo del sangue) è punito con una pena correzionale da tre mesi a due anni di prigione e con una ammenda da 5.000 a 60.000 UM.
Qualunque mussulmano si renda colpevole del delitto di apostasia, sia che esso venga commesso con parole che con atti appariscenti o manifesti, sarà invitato a pentirsi nel termine di tre giorni.
Se non si pente in detto termine, è condannato a morte come apostata e i suoi beni sono confiscati a profitto del Tesoro pubblico. Se si pente prima dell’esecuzione della sentenza, la Procura investirà la Corte Suprema, che deciderà sulla sua riabilitazione completa, senza esclusione della pena correzionale prevista al 1° paragrafo del presente articolo.
Chiunque sia colpevole di apostasia (Zendagha) sarà, salvo preventivo pentimento, punito con la morte.
Sarà punito con la pena da un mese a due anni di prigione chiunque sia colpevole del crimine di attentato al pudore.
Ogni mussulmano maggiorenne che rifiuti di pregare, pur riconoscendo l’obbligo della preghiera, sarà invitato ad adempierlo fino al limite di tempo prescritto per la recita delle preghiera obbligatoria di cui si tratta. Se persiste nel suo rifiuto fino allo spirare del termine, sarà punito con la pena di morte.
Se non riconosca l’obbligo della preghiera, sarà punito con la pena prevista per l’apostasia e i suoi beni saranno confiscati a profitto del Tesoro pubblico. Non gli saranno accordati gli uffici consacrati del rito mussulmano.
La missione di Ossin
L’Unione delle Camere Penali Italiane ha incaricato me, in qualità di presidente di Ossin, e la collega Giuliana Pollio, giudice a Napoli, di seguire il processo d’appello contro Mkhaitir. Dal 27 aprile al 30 aprile 2015, sono stato a Nouakchott e a Nouadhibou per prendere contatti e informazioni.
Ho incontrato Aminetou Mint Moctar, che conosco personalmente da molti anni. Circola scortata da una guardia del corpo, ma questo non le ha impedito di ribadire il proprio impegno nella difesa del giovane Mkhaitir. In particolare, mi ha raccontato di avere denunciato Yehdhih ould Dahi per la fatwa lanciata contro di lei e che quest’ultimo è stato arrestato, nel dicembre 2014, dal Commissariato di Tevragh-Zeina 1, su ordine della Procura della Repubblica. Successivamente è stato posto agli arresti domiciliari dal Giudice Istruttore. Poi, per quanto riferitomi da Mint Moctar, il giudice è stato sostituito e Yehdhih Ould Dahi è stato prosciolto. Mint Moctar ha impugnato la decisione.
Quanto al processo contro Mkhaitir, Mint Moctar mi ha detto che la sua associazione ha inviato un osservatore al processo. Attualmente sono alla ricerca di avvocati disposti ad assumerne la difesa, ma vi sono gravi problemi legati alla difficoltà di fare fronte alle ingenti spese legali. Mi ha chiesto di farmi promotore di una raccolta di fondi per sostenerle.
Ho incontrato a Nouadhibou l’ex difensore di ufficio di Mkhaitir, Maitre Niane, che mi ha fornito la copia del dossier. E’ in arabo e non sono stato ancora in grado di leggerlo. Anche lui mi ha parlato della pressione della piazza e mi è apparso molto preoccupato, raccomandandomi ripetutamente “discrezione”. Ha detto, tra l’altro, di non avere assistito alla lettura del dispositivo, in quanto il cancelliere che aveva pregato di avvertirlo quando la Corte fosse rientrata in aula di udienza, se ne è “scordato”.
Sempre a Nouadhibou, ho incontrato la sorella del condannato, Aisha Mkhaitir, che mantiene i contatti con lui, e che proprio quella mattina era andato a trovarlo in prigione. Lo ha trovato estremamente preoccupato, ma col morale alto.
Ha escluso – come avevo in un primo tempo ipotizzato – che tutto il clamore intorno allo scritto del fratello possa riferirsi a strumentalizzazioni politiche legate alla carica del padre. Per lei, la ragione di tanto accanimento sta nel fatto che la sua famiglia appartiene alla casta dei maleemine. D’altronde il Pubblico Ministero di udienza ha dichiarato esplicitamente, nel corso della sua requisitoria, che egli si considera il procuratore di una certa classe sociale (quella dei marabutti, la casta dei religiosi) e non di tutto il popolo mauritano.
Il processo sarebbe stato una farsa. Il collegio giudicante era composto da cinque giudici, due dei quali popolari, designati dal ministero della giustizia. Ebbene, essi sarebbero stati selezionati tra gli ambienti islamisti più fondamentalisti e oscurantisti.
Ha anche riferito che, a suo avviso, la regia di tutta questa farsa sarebbe da attribuirsi al Procuratore Generale presso la Corte Suprema, Ahmed El Wely, che sarebbe stato spinto da ragioni personalissime. Suo figlio è infatti legato da solida amicizia con l’accusato, e l’accanimento e la speditezza del processo sarebbero finalizzati a impedire che ne possa restare coinvolto anche il giovane pargolo.
Mi ha detto che la sua famiglia si è inutilmente dissanguata per pagare gli avvocati e che adesso non è più in grado di sostenere le spese legali.
Ho infine incontrato a Nouakchott, Tom Corrie, capo della sezione governance della Delegazione dell’Unione Europea nella Repubblica Islamica della Mauritania. Anch’egli ha sottolineato la necessità di una grande discrezione, perché la vicenda tocca corde sensibilissime della società mauritana e ogni iniziativa potrebbe tradursi in un danno per l’imputato. Gli ambasciatori dell’Unione Europea, secondo quanto mi ha detto, hanno dichiarato di seguire la vicenda e manifestato la loro preoccupazione, essendo in ballo la pena di morte.
Il processo
Sulla scorta di quanto appreso dall’avvocato Niane, dalla sorella dell’imputato, nonché dei resoconti dell’osservatore inviato dall’AFCF e dell’avvocato Alice Bullard, statunitense, cui non è stato consentito tuttavia di assumere la difesa dell’imputato, è possibile un resoconto provvisorio del processo.
Esso è stato brevissimo, essendosi svolto nelle sole giornate del 23 e 24 dicembre. Gli avvocati della difesa si aspettavano una pena di 2 anni di prigione, il massimo previsto per un apostata che abbia riconosciuto la propria apostasia. Era questo il reato contestato all’imputato, ma nelle pieghe del codice penale mauritano vi è anche il delitto di zendegha, o d’ipocrisia. Ipocrita è colui che, dopo avere commesso il delitto di apostasia, se ne penta ma in modo insincero.
La pena prevista per questo delitto di zendegha è la morte, ed è questa la ragione della condanna. Ad ogni buon conto, non è chiaro come si possa giudicare l’assenza di sincerità di una persona che ha dichiarato di essersi pentita. Alcuni eruditi del diritto islamico, come Abdullahi Anaim, sono fedeli alla forte tradizione secondo cui la verità nascosta nel fondo del cuore degli uomini debba essere riservata unicamente al giudizio di dio.
Lo stesso Corano non chiede pene umane nei confronti degli apostati e una condanna per ipocrisia si fonda su una base ancora meno solida. Da una accusa di ipocrisia è virtualmente impossibile difendersi, ed è virtualmente impossibile convincere del contrario quelli che sono disposti a credere che qualcuno sia un ipocrita.
In questo processo sommario, i due difensori e il loro sfortunato cliente avevano di fronte due procuratori affiancati da sette avvocati delle parti civili, che rappresentavano le organizzazioni islamiche “Gli amici del profeta” (il cui capo, come si è visto aveva lanciato la fatwa di morte contro Aminetou Mint Moctar) e la “Lega degli Ulema”. Vi erano anche altri otto avvocati di altre organizzazioni islamiche, ma la Corte ha ritenuto che sette avvocati per le parti civili fossero sufficienti.
In genere lo Stato mauritano non consente alle organizzazioni di difesa dei diritti dell’uomo di partecipare ai processi, le organizzazioni islamiche hanno beneficiato di una eccezione a questa regola. La folla numerosa che riempiva la sala di udienza era furiosamente ostile alla difesa. A un certo punto, è stata lanciata perfino una bottiglia contro gli avvocati della difesa.
All’esterno una folla ancora più numerosa aspettava la condanna di Ould Mkhaitir. Il primo giorno uno dei due giudici a latere è stato sostituito con un altro, Mohamed Ould Boubar, che non aveva preso parte alla prima parte del processo. Uno degli avvocati della difesa, Maitre Niane, ha detto che questo giudice a latere, applicato per l’occasione da Nouakchott, è un haratine (gruppo etnico di schiavi affrancati) assolutamente complessato, in quanto nega l’esistenza della schiavitù ed è dotato di un ego smisurato e si comporta sovente in modo ostile e insolente. Maïtre Niane ha spiegato che questo haratine è stato selezionato proprio per la sua appartenenza etnica, perché la sua diversità era funzionale alla difesa della gerarchie costituite. Egli appartiene alla tribù berbera dei Lemtouna, ma è haratine, ed ha beneficiato di taluni vantaggi (come quello di diventare magistrato), datigli in premio per la sua fedeltà alla tribù. Suo mentore è stato un capo dei Lemtouna, magistrato a Nouakchott.
Tutti legano questo processo quello che si è svolto contemporaneamente a Rosso, contro un militante contro la schiavitù, Biram Abeid (da lungo tempo amico di Ossin), membro dell’IRA. Questo processo, al contrario di quello di Nouadhibou ha suscitato una grande mobilitazione popolare a favore degli imputati e l’ordine degli avvocati mauritani ha messo insieme un gruppo di quaranta avvocati della difesa… Nonostante la pena massima prevista fosse di 5 anni di prigione e 5 anni di sospensione dei diritti civili, la sentenza ha assolto 7 imputati e condannato a due anni di prigione gli altri tre, Biram Dah Abeid, Brahim Bilal Ramdane et Djiby Sow.
La condanna di Abeid, di Ramdane e di Sow è stata unanimemente denunciata come manifestazione di una giustizia politica. Al contrario, nel processo di Ould Mkhaitir si è assistito ad una sacralizzazione del processo. Alcuni avvocati di talento che avrebbero potuto ben difenderlo, hanno avuto paura di farlo. Solo alcune organizzazioni per la difesa dei diritti umani, in particolare l’IRA e l’Associazione delle donne capi di famiglia (AFCF) di Aminetou Mint Moctar hanno difeso l’imputato, suscitando l’ira di Yehdhih Ould Dahi, presidente degli « Amici del Profeta » che ha lanciato una fatwa che autorizza l’assassinio della Moctar.
Durante il processo, Ould Mkhaitir ha chiesto perdono al presidente della Corte, pur restando fedele alle proprie convinzioni a favore della libertà, dell’uguaglianza e della libertà di espressione. Il giudice ha risposto che egli doveva cercare i propri valori nell’Islam e non altrove.
Secondo l’osservatore della AFCF, il procuratore ha irritato l’uditorio leggendo ad alta voce lo scritto di Ould Mkhaitir. Il punto centrale è che l’islam tollererebbe il razzismo e che la religione debba essere purificata da questa macchia.
Attaccando il sistema delle caste e delle gerarchie in Mauritania, Ould Mkhaitir si è assunto il rischio di affrontare i potenti, ma il suo argomento più audace è che il razzismo esisteva anche all’epoca del profeta, in quanto quest’ultimo aveva accordato il perdono ad alcuni nemici, dopo la conversione, ma non ad altri.
Ould Mkhaitir individua una distinzione di razza tra quelli che sono stati perdonati, una volta convertiti, e quelli che non lo sono stati, per quanto convertiti anch’essi. Mentre la folla reclamava a gran voce la sua esecuzione, Ould Mkhaitir ha protestato, affermando che il procuratore si comportava come un marabutto e non come un uomo di legge.
Sì, sono un marabutto, ha dichiarato il procuratore, e non l’ho mai nascosto. Alcuni passaggi della pagina Faceebook di Ould Mkhaitir – risalenti al 2010 – sono stati usati come elementi di accusa da parte degli avvocati islamisti, per quanto non sembrino particolarmente incriminanti. Ciononostante gli islamisti hanno trasformato in manifestazioni di apostasia messaggi come: « Voglio da Dio più di quello che mi ha dato » e « Quando nasce un bambino, ciò significa che Dio continua a credere nell’umanità ».
Il presidente del Tribunale ha detto a Ould Mkhaitir che il problema che egli ha affrontato nei suoi scritti – il razzismo in Mauritania e soprattutto il razzismo di cui sono vittima i maalemine – esisterebbe solo nella sua mente. « Come può affermare simili cose? » ha chiesto il giudice, aggiungendo: « Tutti quelli che ha cercato di unire per reclamare i loro diritti l’hanno abbandonata ».
Aisha Mkhaitir, la sorella del condannato
Gli avvocati della difesa si sono concentrati solo sul fatto che Ould Mkhaitir si era pentito e hanno formulato le loro richieste come una semplice domanda di perdono. Qualsiasi altro approccio alla questione, per quanto mi hanno confidato, avrebbe rischiato di fare infuriare la folla che premeva nella sala di udienza e nella gigantesca piazza dove ha sede il tribunale. Essi erano soprattutto preoccupati di non alimentare la tensione, certi che questo avrebbe fatto il gioco degli islamisti, fornendo loro la scusa per un linciaggio o peggio.
Secondo i suoi ex avvocati, Ould Mkhaitir non aveva scritto niente di radicale nella sua pagina Facebook; secondo loro si trattava solo delle idee di un giovane per migliorare la società. Pur tuttavia, l’accusa di ipocrisia si fonda almeno in parte sulle interpretazioni che gli islamisti hanno attribuito a questa pagina Facebook.
Nessuno era stato mai processato in Mauritania per apostasia, ed ancor meno ritenuto colpevole e condannato a morte per un simile delitto di opinione. L’unico precedente noto, quello di Biram Dah Abeid che venne accusato di apostasia dopo aver dato fuoco ai libri di giurisprudenza malachite che sembravano giustificare la schiavitù e l’oppressione delle donne, si è chiuso con una archiviazione. Nessun processo è stato mai celebrato contro Abeid e l’opinione pubblica si è presto convinta del fatto che la sua azione non faceva di lui un apostata.
Il caso di Ould Mkhaitir dimostra che il paese è ad una svolta brutale, lontana dalla propria tradizione islamica malachite di tolleranza e di coesistenza pacifica. Le questioni giuridiche che potrebbero essere validamente usate in appello riguardano il reclamo di Maitre Icheddou, il primo avvocato di Ould Mkhaitir, circa il pentimento del suo cliente e le scusa dallo stesso presentate dopo il suo articolo considerato blasfemo.
Ciò dovrebbe portare ad una pena massima di due anni di prigione. Tuttavia la registrazione di queste scuse è stata sequestrata dalla polizia non si trova più. Inoltre la polizia e il procuratore hanno commesso un grave errore non invitando Ould Mkhaitir ad abiurare la sua apostasia. Secondo l’articolo 306 del codice penale, egli avrebbe dovuto essere invitato a pentirsi nel termine di tre giorni. Tale invito non è mai stato rivolto a Ould Mkhaitir.
Considerazioni provvisorie
Le principali critiche che possono essere rivolte al processo sono le seguenti:
1. La difesa è stata oggetto di intimidazioni violente e tutto il processo è stato condizionato dalla presenza una folla minacciosa. Ciò esclude la serenità del verdetto.
2. Vi sono delle perplessità sul modo in cui è stato designato il collegio giudicante.
3. La condanna è stata pronunciata – sembra – per un delitto diverso da quello contestato, o comunque per un delitto, quello di ipocrisia, che sembra solo frutto di una interpretazione della sharia.
4. All’imputato non è stato rivolto l’invito a pentirsi, l’accettazione del quale, ai sensi del disposto dell’art. 306 del codice penale, l’accusa avrebbe dovuta essere archiviata.
5. Il suo pentimento, comunque, avrebbe dovuto escludere la pena di morte.
La famiglia si trova nella disperata necessità di trovare risorse per pagare una difesa adeguata alla gravità delle accuse. Si dovrebbe pensare ad lanciare una campagna di raccolta di fondi.
L’appello
Rientrando a Napoli, ho ricevuto, via mail attraverso la sorella, Aisha Mkhaitir, un appello del condannato:
Sono un giovane mauritano di nome Mohamed Cheikh ould Mohamed ould Mkhaitir, detenuto dal 1° gennaio 2014 e condannato a morte nel dicembre dello stesso anno dal tribunale di 1° istanza di Nouadhibou (Mauritania ), per avere pubblicato un articolo sul periodo della conquista dell’Islam. Gli avvocati mauritani rifiutano di assumere la mia difesa senza corresponsione di una congrua parcella. Io provengo da una classe sociale oppressa (i maniscalchi)
Ringrazio l'Osservatorio Internazionale per i diritti (Ossin) e il suo presidente, il sig. Nicola Quatrano, per i loro sforzi e il loro impegno a favore della mia liberazione. Ringrazio anche tutti coloro che mi sono vicini in questi momenti drammatici.
Rivolgo un appello vibrante a tutta la famiglia umana, a tutte le persone di buona volontà, a tutte le ONG che lottano per la libertà e l’umanesimo e a tutti i paesi che tutelano le libertà e la libera espressione perché mi sostengano con una presenza massiccia al processo di appello. Ho bisogno del sostegno di tutti e ho anche bisogno di un aiuto economico per coprire le spese della mia difesa.
Mi auguro di potervi ringraziare personalmente e presto, da uomo libero.
Mohamed Cheikh ould Mohamed ould Mkhaitir