Gambadilegno a Nouadhibou
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Sembra avviarsi a soluzione l'assurda vicenda della condanna a morte per apostasia in Mauritania
Gambadilegno a Nouadhibou
Nicola Quatrano
La Corte di Appello di Nouadhibou ha emesso, intorno alle 20.30 del 21 aprile 2016, il verdetto sul caso di Mohamed M’Kheitir, condannato a morte un anno fa per apostasia. Ha riconosciuto il pentimento dell’imputato, rimettendo gli atti alla Corte Suprema per valutarne la rilevanza. Sia pure in un modo un po’ losco, il peggio sembra essere stato evitato. Ora l’attesa è per la decisione della Suprema Magistratura mauritana, ma la pressione della comunità internazionale sembra avere prodotto i suoi effetti
Diario di viaggio
Nouadhibou, mercoledì 20 aprile 2016
La prigione è una cosa da niente, un piccolo quadrilatero bianco coi bordi gialli ed un portone grigio. Il muro di cinta è più basso di quanto ci si potrebbe immaginare, sormontato da un accenno di filo spinato e chiuso da quattro torrette, basse anch’esse, su ciascun lato. Davanti, è come se la vita non si accorgesse della sua presenza: auto che transitano indifferenti lungo lo stradone, e in basso, proprio appoggiato al muro, un asino si riposa steso al sole, mentre un gruppo di capre dalle poppe gonfie fruga col muso avido tra i sassi e la polvere della strada. Tre o quattro ragazzine aspettano pazientemente che le facciano entrare, portano da mangiare al padre, o al fratello chissà. Sono più basse dell’auto alla quale si sono appoggiate, ma l’atteggiamento è esperto, tradisce una lunga consuetudine.
Noi, invece, non abbiamo da attendere. Siamo in quattro: io e tre avvocati, Fatimata Mbaye, Nedra Ben Harida e Samir Lahzami. Veniamo introdotti senza indugio al cospetto del comandante della prigione: un uomo giovane e assai cortese che ci accoglie sorridendo e manifesta simpatia.
Il primo a incontrare Mohamed M’kheitir sono proprio io. Lo attendo per qualche minuto in una saletta insolitamente pulita (almeno secondo gli standard di qui), ridipinta da poco in un giallo come certa sabbia del deserto. Pareti nude, solo un tavolo e quattro sedie al centro del locale.
M’kheitir entra anche lui sorridendo, sembra davvero molto più giovane dei suoi 32 anni, ed è lui che vince il mio imbarazzo. Abbiamo poco tempo per parlare, giusto m’informo della sua salute e del morale. “Sono sereno” mi informa, e aggiunge: “Non ho paura, sono pronto”. Le condizioni di vita nella prigione non sono buone, ma… “ça va, domani spero di uscire, inshallah”.
La magliettina troppo corta e un po’lisa lo fa sembrare un ragazzino, uno stridente contrasto con l’imperdonabilità del crimine di cui viene accusato. L’apostasia – mi spiega uno degli avvocati – da queste parti non è solo un delitto gravissimo, ma una catastrofe, un lavoro del diavolo, qualcosa che spaventa, insomma non è roba da ragazzini. Ma, forse, quello che più ha indispettito i giudici che lo hanno condannato sono stati proprio la sua fermezza e la sua umanità… una umanità diabolica, potremmo dire, quando da lui si pretendeva un disumano atto di sottomissione.
Tanto più doveroso perché appartiene ad una casta inferiore, quella dei maleemine, la cui collocazione nella rigidissima gerarchia sociale mauritana è appena un gradino sopra quella degli schiavi. E questa storia me la ripeterà la sera stessa Limame Khaina, presidente della ONG L’Eveil, impegnata contro la discriminazione di casta in Mauritania. Sono venuti in delegazione per assistere al processo, la volta scorsa non ne hanno avuto il coraggio. “Buon segno”, penso, mentre li ricevo nell’angusta hall dell’hotel Tiris di Nouadhibou. O, almeno, una nuova conferma del mutamento di clima: niente mobilitazione popolare per reclamare la condanna esemplare del reprobo, niente intimidazioni nei confronti dei pochi che ne chiedono la liberazione, il coraggio ritrovato da parte dei suoi amici e sostenitori.
Finora lo hanno lasciato solo, solo contro più o meno tutti, negli oltre due anni di detenzione preventiva. Lo hanno abbandonato gli avvocati del primo processo, pensando che il loro sia solo un mestiere, lo hanno scordato gli amici che si sono tenuti nascosti fino ad oggi, e perfino la moglie, che ha accettato senza fiatare lo scioglimento per legge del matrimonio con l’apostata. Mohamed è stato il solo a mostrare nobiltà e umanità, nei momenti di forza come in quelli di debolezza, il viso serio ed il sorriso triste da ragazzino con la maglietta troppo corta, protagonista di una storia forse più sordida di quanto meriterebbe.
Perché non c’è aria di tragedia nella cortesia del direttore della prigione, nell’impegno degli avvocati, nel mio imbarazzo e nella stessa fermezza del condannato. Si insinua prepotente – e speriamo sia davvero così – il sospetto della farsa. L’idea che un gruppo di giudici, più ignoranti che arroganti, abbia stupidamente esagerato, irrogando una pena capitale che in realtà nessuno pretendeva da loro e che adesso crea problemi a tutti, al governo in primo luogo. Perché, per il crimine di apostasia, nemmeno il presidente della Repubblica può concedere la grazia. Né d’altra parte la Mauritania ha la forza di sfidare l’opinione pubblica internazionale con un’esecuzione odiosa… non è mica l’Arabia Saudita, coi suoi ricchi pozzi e i petrodollari capaci di comprare l’indulgenza della comunità internazionale!
Dunque in qualche modo questo problema bisognerà risolverlo, sembra improbabile che si voglia perseverare nell’errore. Chissà, forse ci si affiderà ad un accenno di pentimento da parte del condannato, un’abiura che Mohamed si adatterà a pronunciare, certamente aggiungendo – almeno in cuor suo – la formula di salvaguardia “eppur si muove”. Ma va bene così, accettiamola questa farsa, invochiamola, pretendiamola, purché Mohamed possa salvarsi. Essa d’altronde sarà disonorevole per tutti, tranne che per lui, che la sua parte l’ha fatta: ha scritto quello che pensava e non è cambiato, l’unica parte nobile di una commedia che, senza di lui, non meriterebbe di essere raccontata.
A domani, Mohamed. Buona fortuna.
Giovedì 21 aprile 2016
Ore 10.00- L’udienza è fissata per le ore 12.00, ma già ci affrettiamo verso il Palazzo di Giustizia. Nella notte ci ha raggiunti anche l’avvocato Mohamed Ould Moine, che ieri era impegnato come concorrente in un concorso di eloquenza forense nel Tribunale di Nouakchott. Non ha vinto lui, speriamo si rifaccia oggi.
Giungiamo al Palazzo di Giustizia e il dispositivo di sicurezza è imponente. Veicoli della polizia sbarrano le vie d’accesso e i controlli si sprecano. Ma non c’è traccia alcuna di manifestazioni ostili al condannato, né di presenza militante delle organizzazioni islamiste. La farsa si delinea (o si conferma) quando veniamo ricevuti dal Procuratore che sosterrà l’accusa in giudizio, il dott. Ahmed Ould Selmo. E’ un piccoletto con dei baffetti folti e si mostra lietissimo di incontrarci. Nel suo parlare, un mélange di hassania e francese, distinguo diversi riferimenti al “collègue italien”. Siamo nel suo studio, giusto lo spazio per una scrivania e un salottino, gli avvocati lamentano l’incongrua presenza nel processo delle parti civili, scherzano sul fatto che pretenderebbero di rappresentare il profeta Maometto… e ridono, ridono, ridono tutti…. Ma dov’è la tragedia?
Ride anche il procuratore, eppure è lo stesso che ha chiesto la condanna a morte in primo grado e si è beccato con l’imputato durante l’udienza, difendendo la superiorità della sua casta. E adesso ride, si sbellica perfino, e batte il cinque, a me che sono il suo “collègue italien”. Bah… prendiamolo come un buon segno.
Attraversiamo un breve e grigio corridoio ed eccoci nella camera di consiglio della Corte. Ci accompagna il procuratore, che mi presenta a tutti come il “collègue italien”. Gli avvocati dispensano battutine, in fondo fanno il loro lavoro, tentando di mantenere un clima disteso, e anche i giudici ridono, sono allegri, pronti allo scherzo. Il presidente è un uomo giovane e apparentemente insicuro, occhiali e barbetta corta, si chiama Mohamed Mahmoud Elemine Ould Ahmed. Mostra poco più di 40 anni e parla solo arabo. Si mostra anch’egli lieto di conoscere il “collègue italien”, ma almeno non batte il 5, e gli sono profondamente grato per questo.
Ridiscendiamo al piano terra, dove si trova l’aula di udienza. Due ingressi, uno per le donne e l’altro per gli uomini. Il procuratore ci consente di incontrare il condannato. Veniamo introdotti in uno stretto corridoio senza luce, zeppo di poliziotti, alcuni accovacciati a prepararsi il tè. A destra una stanzetta bene illuminata, dentro ci aspetta Mohamed.
Oggi ha indossato un bubu, l’abito tradizionale. E’ sempre tranquillo ma, di tanto in tanto, un tremito quasi impercettibile gli muove le labbra, tradendo la tensione. Lo sguardo è sorridente, ma non è il sorriso del procuratore e dei giudici, è un sorriso triste, preoccupato, malinconico, forse impaurito.
La tragedia che finora non avevo trovato adesso è qui, e Mohamed ne è l’unico personaggio ed interprete.
No, non è l’unico. La si ritrova anche nell’aria tesa degli avvocati quando siamo introdotti, alle 12,15, nell’aula di udienza. Non è più tempo di scherzi e risatine, è l’ora delle responsabilità (“très lourdes”, pesantissime, mi confida in un soffio Ben Harida).
Ore 12,20 - L’aula è davvero grande ed è quasi piena, non meno di 100 persone del pubblico e una ventina di poliziotti. Alle 12,20 entra la Corte, 5 giudici più il cancelliere (alla sinistra) e il procuratore (a destra).
Leggono il verdetto di un processo precedente: due giovani condannati a 5 anni di prigione per furto. La Corte ha confermato (ahi, ahi!). Un caso di omicidio premeditato: un anno, perché le parti civili hanno perdonato (leggi: sono state pagate). 1 anno!! Esattamente come l’imputato di dopo, che però è accusato solo di aver bevuto del vino.
Dopo, e sono oramai le 12,35, viene chiamato il processo di M’kheitir. Prima il presidente ha minacciato 3 giorni di prigione per chiunque osi disturbare. Il monito sarà generalmente rispettato, tranne quando si menziona il profeta Maometto, allora tutto il pubblico sfida l’autorità per recitare: “Pace e benedizione su di lui”.
M’kheitir entra scortato da 8 poliziotti, altrettanti almeno sono già presenti in aula. Si comincia con l’interrogatorio e il presidente gli usa la cortesia di fargli portare una sedia. Mohamed dice che è pentito, non aveva intenzione i offendere il Profeta (Pace e Benedizione su di lui) e che si rende conto di avere sbagliato.
Scontro, con partecipazione del pubblico equamente diviso, sulla presenza in giudizio delle parti civili. La difesa sostiene che non ha senso, giacché l’interesse punitivo è già totalmente rappresentato dallo Stato, che è addirittura una Repubblica Islamica. Il presidente, che mostra indecisione e scarsa fermezza, trova una soluzione di compromesso; le parti civili parleranno, ma non più di qualche minuto ciascuna. Poca roba, dal momento che sono scese di numero, dalle 15 del processo di primo grado, alle 5 di oggi.
Con la discussione delle parti civili, la farsa giunge al suo culmine, sembrano tanti “paglietta” di una sceneggiata. Il primo a intervenire trova furbamente il modo di ricordare che il giorno prima è stato l’anniversario della nascita del Profeta (il 20 aprile), mentre il secondo, piccolo e sanguigno, parla della madre che si è sentita male nel leggere l’articolo di Mohamed, a causa delle offese terribili rivolte al Profeta (Pace e benedizione su di lui), e adesso si trova in Tunisia per rimettersi. Meno male, perché nel giudizio di primo grado la madre era morta di dolore. Un altro assicura che, perfino in Occidente, è ormai vietato parlare male del Profeta (?!?) e l’ultimo addirittura prende la parola “In nome del Profeta” (Pace e Benedizione su di lui).
Senza storia l’intervento del Procuratore, dura solo ½ ora (un buon segno?) e chiede la conferma della sentenza di primo grado.
Ore 14.00 - Prende la parola la difesa. Comincia Mohamed Ould Moine, con un’arringa appassionata che i giudici ascoltano attentissimi. E’ poi il turno dei due avvocati tunisini, Nedra Ben Harida, tecnica e asciutta, e Samir Lahzami, tecnico ma più fremente. Termina Fatimata Mbaye.
Gli argomenti sono quelli noti: l’articolo non esponeva le idee dell’autore, ma si limitava a riportare considerazioni di riconosciuti studiosi islamici. Il giovane blogger non ha inteso offendere il Profeta (Pace e Benedizione su di lui), ma solo porsi delle domande. E’ seguito, comunque, il pentimento dell’imputato, e questo è un fatto cui la legge mauritana attribuisce la massima importanza. Parlano fino alle cinque, poi la Corte si ritira in Camera di Consiglio.
Alle 19.00 i giudici escono per recarsi alla Moschea e non rientrano prima delle 20.00. Forse ne hanno approfittato per fermarsi a cena, anche nelle tragedie bisogna mangiare (figurarsi nelle farse).
Ore 20.30 - Lettura del verdetto. Io sono già partito per Nouakchott (6 ore di strada), perché ho il volo prenotato per la notte. La notizia mi viene data per telefono dall’avvocato Mbaye. La Corte ha riconosciuto il pentimento dell’imputato e ha rimesso gli atti alla Corte Suprema per la valutazione della sua rilevanza.
La prima impressione è positiva, la Corte di Appello ha ribaltato il giudizio di “insincerità” con cui i giudici di primo grado avevano bollato il pentimento di M’Kheitir, e ciò vuol dire che il peggio è scongiurato, almeno la condanna a morte dovrebbe essere oramai esclusa. In secondo luogo, il dossier passa ad un giudice, la Corte Suprema, che ha bisogno di minor coraggio di quanto sarebbe occorso a quelli inferiori per rimettere in libertà l’imputato. In terzo luogo, la decisione sarà più squisitamente politica e ciò vuol dire che la pressione dell’opinione pubblica internazionale ha prodotto i suoi effetti.
Il verdetto non ha provocato reazioni negative. Islamisti, fanatici e rappresentanti del Profeta (Pace e Benedizione su di lui) sembrano essersi dimenticati del reprobo. E’ probabile che il governo attenderà il momento più favorevole per risolvere in qualche modo la situazione. In modo un po’ losco certo, come in un “colpo” degno di Gambadilegno, approfitterà del calo di attenzione per scippare l’apostata alla vendetta dei fanatici.
Ma in fondo è questo quello che tutti auspichiamo, nessuno davvero si illudeva che la Giustizia trionfasse.