Belgi in Siria: né mitizzazione né demonizzazione, solo la realtà
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Inchiesta, febbraio 2014 - Michael Delefortrie, alias Younes, è uno dei quasi 400 giovani belgi partiti per fare la “jihad” in Siria. Scoraggiato dai successi dell’esercito governativo e dalle lotte intestine tra le fazioni jihadiste, ha disertato il fronte siriano. Di ritorno in Belgio, ha consegnato una testimonianza inedita dalle colonne del quotidiano fiammingo Standaard (nella foto, jihadisti stranieri in Siria)
Investig’action, 30 gennaio 2014 (trad. ossin)
Belgi in Siria: né mitizzazione né demonizzazione,
solo la realtà
Bahar Kimyongur
Michael Delefortrie, alias Younes, è uno dei quasi 400 giovani belgi partiti per fare la “jihad” in Siria. Scoraggiato dai successi dell’esercito governativo e dalle lotte intestine tra le fazioni jihadiste, ha disertato il fronte siriano. Di ritorno in Belgio, ha consegnato una testimonianza inedita dalle colonne del quotidiano fiammingo Standaard. Investig’Action mette in linea questa importante analisi, perfettamente consapevole del fatto che vi sono grandi diversità tra i giovani che vanno in Siria. Conviene non trascurare queste sfumature e non ostacolare il ritorno a casa dei ragazzi e delle ragazze che sono stati abusati e manipolati. Ritorneremo peraltro prossimamente su questo tema per approfondire la questione principale: cosa spinge tanti giovani francesi e belgi a recarsi in Siria?
Il deputato liberale belga Denis Ducarme (MR), impegnato sul dossier dei giovani mussulmani che vanno in Siria, ha risposto a questa intervista su La Libre, quotidiano belga francofono. Poi una polemica ha opposto il deputato alla ministra dell’interno Joelle Milquet (DdH). Quest’ultima viene accusata di preparare il terreno per l’impunità da assicurare ai terroristi che rientrano dalla Siria. Il signor Ducarme si preoccupa della “disdemonizzazione” in corso e evoca le responsabilità della politica nella ipotesi che in futuro un “Belga di Siria” commetta un atto terrorista nel Regno.
Al di là di questa schermaglia partigiana, altre più urgenti questioni si impongono: il governo belga deve dichiararsi colpevole degli atti di terrorismo che ha lasciato commettere ai propri concittadini in Siria, sia attraverso il lassismo stupefacente dei suoi servizi di polizia, sia a causa delle sue alleanze politiche e di sicurezza con Ankara, fornitore di jihadisti sul fronte siriano? E soprattutto, il Belgio dispone degli strumenti pedagogici capaci di proteggere i suoi giovani dalla tentazione jihadista e della volontà politica di impedire altri arruolamenti?
Nella sua testimonianza, l’ex jihadista Michael Delafortrie comincia col fornire una indicazione geografica di una banlieue signorile del governatorato di Aleppo: “Kafr Hamra, il luogo nel quale sono giunti molti Belgi, è pieno di grandi ville residenziali. I combattenti vi vivono in gruppi di venti, nella case abbandonate dai ricchi, con piscina e quattro o cinque camere”.
Rivela quindi che lui e i suoi compagni occupano case che non appartengono loro. I proprietari di queste ville non saranno certamente contenti di apprendere che i loro beni sono stati espropriati da sconosciuti.
Occorre ricordare che gli abitanti di Aleppo soffrono sia dei combattimenti distruttivi che dei saccheggi compiuti dai gruppi di ribelli? D’altronde, fin dall’invasione della città da parte delle brigate jihadiste nell’estate del 2012, gli abitanti di Aleppo hanno denunciato razzie. I loro beni sono stati venduti in Turchia. A causa della guerra e del caos, centinaia di migliaia di abitanti di Aleppo si sono trasferiti dai loro fratelli alauiti sulla costa siriana, nella capitale Damasco o ancora all’estero.
In un’altra intervista realizzata il 25 gennaio scorso dall’emittente fiamminga VRT, lo stesso Michael Delefortrie ha fatto riferimento ad una campagna pubblicitaria che lo avrebbe convinto ad arruolarsi in Siria: “Vi dicono che avrete una casa, vi daranno da mangiare e che tutto è gratuito. Io mi sono detto: Ok, un nuovo inizio”.
Viene quasi da chiedersi se Al Qaida non sia in realtà una agenzia di viaggio halal (“lecito”, fa riferimento al cibo preparato conformemente ai precetti della religione, ndt)
Difficile credere che un giovane belga, anche se privo di mezzi materiali nel suo paese, sia partito per vivere alle spalle della società siriana, dissanguata da tre anni di guerra atroce, un paese dove i Siriani muoiono di fame, di freddo, di malattie e di ferite di guerra.
Ammettiamo pure.
Ma, qualsiasi cosa dica, noi non siamo pronti a dimenticare le scene di linciaggio e di decapitazione di un soldato “sciita” e “miscredente” da parte dei nostri vacanzieri in Siria.
Notiamo en passant che l’identità “sciita” del suppliziato sembra essere frutto di fantasia. Tenuto conto delle migliaia di sunniti inquadrati nell’esercito siriano, la vittima lealista dei nostri concittadini ha molte probabilità di essere stato, come loro, di confessione sunnita.
Per i nostri apprendisti macellai che si sfogano col coltello durante alcuni lunghi minuti sulla gola di un uomo prigioniero, a terra e incosciente, la realtà del paese nel quale sono andati a mettere piede è senza dubbio troppo complessa da comprendere.
Michael Delefortrie riconosce tuttavia che il rituale satanico della decapitazione “era barbaro”. Ma si difende da qualsiasi coinvolgimento, scaricando ogni responsabilità sui compagni uccisi: “Io glielo ho detto. Ma la maggior parte di loro adesso è morta”.
Eludendo in questo modo l’argomento, rischieremo di non conoscere mai l’ampiezza dei crimini commessi dai nostri giovani concittadini contro il popolo siriano.
Le rare informazioni che filtrano sulle loro imprese guerresche parlano di Belgi rimasti uccisi nel corso di regolamenti di conti tra Belgi da un lato e fazioni jihadiste dall’altro.
Ovviamente gli ambienti filo-ribellione vedranno di mettere questi morti in conto all’esercito arabo siriano, che pure difende il paese dagli invasori.
Tanto premesso, il nostro veterano della jihad non ha certamente torto quando afferma: “I combattenti si svegliano presto per la preghiera, prima di un corso sull’islam. Poi il gruppo viene diviso: per esempio, una decina di uomini vengono mandati in missione, devono effettuare dei controlli stradali o attaccare un nemico: gli altri restano a casa e ammazzano il tempo guardando la TV, cucinando, provvedendo alla manutenzione delle armi o aggiustando le auto. E la sera, di nuovo la preghiera”.
E’ molto probabile che i nostri concittadini abbiano ammazzato il tempo più che ammazzare gente.
Il “pentito” evoca un progetto di vita che ricorda quello dei coloni ebrei che lasciavano l’Europa o l’America, per stabilirsi in Palestina.
Questo progetto è la hijra, l’emigrazione, una parola che ha mutato significato, derivando dalla Egira del profeta dell’islam (il trasferimento dei primi devoti musulmani e del loro capo Maometto dalla natia Mecca alla volta di Yathrib, ndt) equivalente alla Aliyah dei loro alter ego ebrei.
L’ideale guerresco dei religiosi estremisti va spesso di pari passo con un progetto di vita su una terra lontana di preferenza purificata dai suoi abitanti.
E’ specialmente il caso dei “jihadisti” inglesi che si rivela in questo reportage:
Dicono di voler restare a vivere in Siria anche dopo la vittoria contro Assad.
Solo che, come i jihadisti belgi, essi vivono in case che non appartengono loro.
Inoltre essi impongono un modello di società totalmente estraneo agli ideali di società dei militanti siriani della rivolta del marzo 2011.
Come dice un altro jihadista belga in un messaggio urbi et orbi, l’obiettivo della loro missione non è solo quello di rovesciare il regime di Bachar el Assad, ma anche di combattere i Siriani miscredenti con le armi.
Una volta che la Siria sarà “purificata dai suoi infedeli”, come dicono i suoi amici, Michael contava di farsi lì una famiglia.
Lo ha spiegato in un’altra intervista accordata al giornale De Standaard
(http://www.standaard.be/cnt/dmf20140124_002) e che La Libre non ha tradotto in francese: “Ero stufo del Belgio. Ho voluto cominciare una nuova vita in Siria. Non come combattente ma proprio per abitarvi. In un primo tempo da solo e, nel caso in cui si fosse ristabilita la sicurezza, avrei convinto mia moglie a raggiungermi”.
Abbiamo dunque a che fare con una vera e propria politica di invasione, di occupazione di un paese e di spoliazione dei beni dei suoi abitanti da parte di terroristi venuti dall’estero.
Grazie alla resistenza dell’esercito siriano e al voltafaccia imprevisto, e senza dubbio provvisorio, di taluni gruppi di jihadisti siriani, il progetto di Michael non si è realizzato.
Il morale dei combattenti belgi è anche “a terra”, riconosce.
Alla fine, il solo passaggio interessante dei suoi interventi mediatici è la conclusione cui giunge: “Non andrò più in quel ginepraio. E consiglio ai giovani che volessero andarci, di pensarci bene prima”.
Il dibattito non è comunque chiuso.
Da 40 anni, l’Arabia Saudita controlla in tutta tranquillità pezzi interi dell’islam belga attraverso la Lega islamica mondiale. L’interpretazione settaria dell’islam predicato da questa lobbie ha costituito il terreno favorevole all’emergere di gruppi vicini ad Al Qaida. Perché l’hanno lasciata fare?
Tre anni fa, i nostri governi aizzati dalla Francia di Bernard Henri Levy hanno pilotato una operazione di destabilizzazione della Siria senza misurarne le conseguenze. Per convinzione ideologica, ma anche per ignoranza, i nostri media hanno partecipato alla mobilitazione politico-mediatica contro la Siria, cosa che ha nello stesso tempo seminato confusione nella testa dei nostri giovani e contribuito alla loro radicalizzazione.
Perché si è favorito il campo dei gruppi armati e dato una lettura confessionale del conflitto? Perché si sono accreditate le tesi di Al Qaida?
All’inizio, ci è stato detto che i volontari belgi andavano in Siria a salvare le vedove e gli orfani, mentre, al contrario, hanno contribuito ad aumentarne il numero. Perché si è sottostimata la minaccia che essi rappresentavano per i Siriani?
Alcuni giovani concittadini si recano in territorio di guerra utilizzando le strade e i mezzi di trasporto più controllati del pianeta senza il minimo ostacolo. Perché tali negligenze in termini di sicurezza da parte dei nostri governi?
Il rapimento dei nostri giovani da parte delle reti terroriste deve spingerci a porci un’altra domanda più filosofica: in un sistema come il nostro dove il denaro è dio, dove i sogni altruisti sono fuori moda, se non tabù, dove si fa politica o si coltivano progetti umanitari non più per ideale ma per fare carriera e arricchirsi, dove la rivolta anche solo verbale contro l’ingiustizia viene sistematicamente criminalizzata, come si può sperare di reprimere tra i nostri giovani la tentazione di diventare gli eroi di una causa mostruosa?