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Le ombre dell'Africa
Complici i programmi di aggiustamento strutturale.
ANNA MARIA MERLO
Samir Amin, economista egiziano, ha pubblicato numerosi saggi (tra cui Lo sviluppo ineguale, Einaudi). E' animatore di una riflessione collettiva sull'Africa contemporanea, nell'ambito del Forum del terzo mondo - Università delle Nazioni unite. Vive tra Dakar e Parigi.
Violenze in Zimbabwe, minaccia di carestia in Etiopia: l'Africa torna in prima pagina. Questi diversi avvenimenti, a cominciare dal genocidio in Ruanda nel 1994, hanno radici comuni?
Per capire quanto sta accadendo da qualche anno a questa parte in Africa, di positivo e negativo - caduta dell'apartheid, caduta di Mobutu, accelerazione della riforma agraria in Zimbabwe, poiché si tratta di riforma agraria e non solo dell'assassnio di due agricoltori bianchi, genocidio in Ruanda, guerra permanente in Congo e intervento di altri paesi africani, minaccia di carestia in Etiopia, ripresa della guerra tra Eritrea ed Etiopia - bisogna tornare ai decenni dell'indipendenza, ai problemi ereditati e al modo in cui il capitalismo mondiale ha tentato di risolverli nella fase attuale di neoliberismo.
Nostalgia per anni colmi di speranza?
Con l'attuale prospettiva temporale, i primi decenni dell'indipendenza, grosso modo dal '60 al '75, possono apparire relativamente positivi, malgrado i limiti storici e le contradizioni interne. I movimenti di liberazione nazionale, malgrado le rispettive differenze, avevano tolto l'ostacolo assoluto rappresentato dal colonialismo. Tutti questi movimenti, dal più moderato al più radicale, condividevano alcuni grandi principi, dove erano intrecciati il giusto e il discutibile: 1) priorità data a una costruzione nazionale trans-etnica; 2) priorità all'accelerazione della crescita economica attraverso l'intervento sistematico dello stato; 3) idea che la modernizzazione fosse fondata sulla neutralità tecnologica rispetto ai rapporti sociali; 4) fiducia nel fatto che lo sviluppo sarebbe andato a vantaggio di tutte le classi sociali; 5) illusione che fosse possibile imporre al sistema mondiale dei riaggiustamenti che avrebbero favorito la crescita autonoma del sud. Con gradi diversi, tutti i regimi usciti dalla liberazione nazionale hanno cercato di realizzare questo progetto, ma attraverso pratiche politiche nazional-populiste, non democratiche. Fino a quando questi sistemi hanno dato effettivi risultati in termini di crescita economica, hanno goduto di una certa legittimità preso le popolazioni, malgrado l'assenza di democrazia - e ricordiamo che il partito unico non era appannaggio dei paesi detti socialisti, ma anche di quelli pro-occidentali.
Il meccanismo si è rotto?
Una tale opzione non poteva durare indefinitivamente. Da un lato creava le condizioni per il proprio superamento, con un'espansione delle classi medie maggiore del miglioramento delle condizioni popolari - creando una contraddizione nella legittimità - e dall'altro il sistema implicava un proseguimento della crescita del capitalismo su scala mondiale. L'erosione graduale, poi il crollo dei sistemi nazional-populisti è avvenuto in concomitanza con il rovesciamento della congiuntura su scala mondiale. In breve tempo, le illusioni crollano. Le dimensioni negative dei regimi - tra cui l'assenza di democrazia - si accentuano brutalmente. I regimi si trasformano in dittature violente, che gestiscono la stagnazione. Perdono legittimità e per reazione appaiono fenomeni di emergenza di coscienza etnica. Un fenomeno banale, che non è tipico dell'Africa. Anche le opposizioni più radicali perdono legittimità, perché non escono dalle concezioni nazional-populiste. Il pesce puzza dalla testa, si dice in Africa: l'etnicismo non è una rivendicazione di base, ma viene mobilitato, a volte creato artificialmente, da segmenti delle clssi dirigenti in conflitto tra loro. E' successo anche altrove, ma in Africa si è raggiunto il punto estremo del dramma, con la decomposizione totale (Somalia, Liberia, Sierra Leone), il genocidio (Ruanda), la guerra civile (Etiopia, Sudan). A questo punto è arrivata la nuova politica neoliberista del capitalismo mondiale. I programmi di aggiustamento strutturale sono stati di una violenza particolare in Africa, con conseguenze sociali disastrose. Il servizio del debito è diventato insopportabile. Negli anni '20 fu giudicato "insopportabile" per la Germania un servizio del debito che pesava per il 5% dell'export, oggi è ritenuto sopportabile per i paesi africani un servizio che arriva ad assorbire il 70% dei proventi dell'export.
Eppure negli anni '90 c'è stata la fine dell'apartheid.
Nel caos degli anni '90, in Africa si sono affermati contemporaneamente elementi di cambiamento potenzialmente positivi e reazioni di disperazione.
La situazione in Zimbabwe è dettata dalla disperazione? E per il Congo si può dire la stessa cosa?
L'accordo di Lancaster House del 1980, atto fondativo del nuovo stato, aveva imposto il rispetto della proprietà fondiaria della minoranza bianca che possiede il 70% delle terre arabili. Mugabe ha rispettato per 20 anni questo impegno, forse con l'illusione che la proprietà dei bianchi avrebbe permesso di sostenere lo sviluppo. Ma non è stato così, come era prevedibile. Con l'aggravarsi della crisi, la rivendicazione di una riforma agraria si è rafforzata, contemporaneamente alla perdita di legittimità del regime. Per salvarsi, la classe dirigente attorno a Mugabe tenta ora di lanciare la riforma agraria sperando di strumentalizzare il movimento senza fare concessioni sul piano democratico. Di qui la forma presa dagli avvenimenti. In Congo, la vittoria militare di Kabila è stata molto facile perché il regime di Mobutu era marcio fino al collo. Ma la società resta disarticolata e di qui è facile capire la possibilità di una deriva che riproduce il sistema di Mobutu. In questo contesto si articola l'intervento dei paesi della regione, divisi in due campi. In Etiopia i regimi successivi si sono dimostrati incapaci di gestire democraticamente la differenza etnico-storica dei diversi popoli. Addirittura c'era un piano Usa per dividere l'Etiopia in dodici stati "etnici". Ma gli eritrei non si sono lasciati strumentalizzare fino a quel punto, pur concedendo l'indipendenza all'Eritrea.
L'Europa svolge un ruolo in questa situazione?
L'Europa non esiste, non ha una politica. Accetta senza condizioni il progetto neoliberista Usa. Un allineamento che ha aspetti economici e militari. In queste condizioni, non ha nulla da proporre all'Africa e ai paesi arabi. Il discorso sulla cooperazione è vuoto. Lo si è visto nel rinnovo della convenzione di Lomé tra Ue e paesi Acp (Africa-Caraibi-Pacifico) e nel dialogo euro-arabo a Barcellona. Al recente vertice euro-africano del Cairo (5-6 aprile scorsi), gli africani, forti della contestazione di Seattle, sono riusciti a parlare con una voce sola e a mettere l'Europa di fronte alle sue contraddizioni, accusandola di ipocrisia per la gestione della questione del debito, ricusando le pretese della Nato di intervenire fuori dalla sua zona. Il comunicato finale scrive che la pace e la sicurezza sul continente africano sono di responsabilità dell'Onu e dell'Oua.
23 aprile 2000 Il Manifesto