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Polisario

(Mohamed Abdelaziz, foto ossin)

 

Tel Quel (21-27 giugno 2008)  - Nel cuore del Polisario

di Ahmed R. Benchemsi e Mehdi Sekkouri Alaoui

 

Per la prima volta dallo scoppio del conflitto armato nel 1975, un giornale marocchino è andato a Tindouf ed ha visitato il campo di Lahmada, Quartier Generale del Polisario. Esercito, propaganda, istituzioni politiche, condizioni di vita delle popolazione… Tel Quel rivela tutto.
Visita guidata, tappa dopo tappa.

 


Martedì 10 giugno - Il pranzo dell’ambasciatore
Vista da Rabat, la Repubblica araba saharaoui democratica (RASD) è uno “Stato fantoccio”. Vista da Algeri, la percezione è radicalmente differente. Lo “Stato saharaoui” non ha forse un territorio, ma è la sola cosa che gli manca. Dispone infatti di una Costituzione, di un governo, di un Parlamento… e di una rappresentanza diplomatica, una villa piuttosto signorile nel cuore di Algeri. Sono le 19.30 e siamo proprio lì. Brahim Ghali, ex ministro della difesa ed attuale ambasciatore della RASD in Algeria ci ha invitato a pranzo prima che prendessimo il volo per Tindouf.
Sbrigati i saluti di convenienza, comincia subito con aria falsamente innocente: “Come va a Sidi Ifni? Al Jazera ha annunciato che la rivolta avrebbe provocato una decina di morti”.  La nostra smentita (per quanto ne sappiamo, vi sarebbero stati solo dei feriti) lo lascia scettico. Si chiede forse se apparteniamo al novero di quelli che diffondono “la propaganda del Makhzen (il sistema di potere monarchico in Marocco)” per riflesso e per partito preso. Ghali precisa il suo pensiero: “E’ difficile per voi altri giornalisti marocchini di raccontare obiettivamente la situazione del Sahara, no?” Il tono è stabilito. Non siamo ancora arrivati a Tindouf e già ci sta a pennello la presunzione di malafede…
Ci sediamo a tavola. Un capretto alla griglia è impalato su di uno spiedo di legno, accompagnato da diversi piatti di carne e legumi. Siamo cinque e c’è da mangiare per venti – la leggendaria ospitalità saharaoui -. Parliamo di Manhasset, dove Brahim Ghali è stato presente come negoziatore del Polisario. Ci chiede notizie di “Taieb” (Fassi Fihri, il Ministro degli Affari Esteri) e di “Chakib” (Benmoussa, Interno), che facevano parte della delegazione marocchina. Nel sobborgo di New York ci sono stati già quattro round di negoziati. Senza alcun risultato. “Per colpa del Marocco”, precisa l’ambasciatore, come se fosse una cosa evidente. E aggiunge: “Quello che non riesco ancora a comprendere, in questo conflitto, è il silenzio del popolo marocchino. Come può sostenere una tale ingiustizia?” Che cosa rispondere di fronte ad una certezza così profondamente radicata? Facciamo i nostri complimenti all’ambasciatore per il capretto, davvero eccellente.
E’ tempo di partire, il nostro aereo decolla alle 22.45. Brahim Kerdellas, uno dei consiglieri dell’ambasciatore, ci accompagnerà a Tindouf. Arrivati all’aeroporto, ci chiede i passaporti per sbrigare le formalità di imbarco. Curiosi, gli chiediamo di vedere il suo. E’ un passaporto diplomatico verde, col sigillo della RASD. Ci mostra anche la sua patente saharaoui, replica esatta di quello rosa marocchino, in tre pagine plastificate. La loro repubblica forse è un “fantoccio”, ma è sicuramente bene organizzata.
Dopo avere superato i diversi controlli di sicurezza ed avere subito altrettante perquisizioni personali, ci imbarchiamo su di un aereo civile, le cui poltrone sono letteralmente rosicchiate dalle tarme. Siamo fortunati: il volo raggiungerà Tindouf direttamente, senza lo scalo abituale a Bechar.

 

Tindouf non è Tindouf

Sono le due del mattino quando atterriamo. Prima sorpresa, ed è enorme: non c’è alcuna traccia della Repubblica saharaoui. Tindouf ed il suo aeroporto, una piccola costruzione relativamente fatiscente, sono quanto di più algerino ci possa essere. A cominciare dalla polizia, il cui capo, dal momento in cui scopre la nostra nazionalità, si lancia in un discorso entusiasta sui meriti delle nostre squadre nazionali di football, che mette a confronto. Ci assicura di essere un fan di Marouane Chamakh. Quando viene a sapere, dopo un colloquio riservato con Bhahim, che siamo dei giornalisti in procinto di visitare i campi del Polisario, ci dice, con sincero compatimento: “Sarà difficile per voi scrivere la verità sull’indipendenza del popolo saharaoui”. Bene, vedremo….

 

Un 4x4 bianco, senza targa di immatricolazione, ci attende all’uscita dall’aeroporto. Il territorio assegnato ai Saharaoui comincia una trentina di chilometri – e due posti di blocco della polizia algerina – più avanti. Da quel punto scatta il divieto di prendere foto: la regione, confinante con il Marocco, è classificata come zona militare- ci dicono che i ¾ dell’esercito algerino è stazionato lì. La cosa è rassicurante…
Per quindici minuti viaggiamo sull’asfalto, poi prendiamo una pista senza cartelli indicatori, nella più totale oscurità. Dopo un altro quarto d’ora di strada e di sobbalzi, giungiamo a quello che sarà il nostro luogo di residenza per 4 giorni: una “fattoria di accoglienza”, ci dicono. Noi siamo stremati. Domani sarà un altro giorno.

 

Mercoledì 11 giugno - Una fattoria e dei polli

Sono le 10. Aspettando che sia stabilito il programma della nostra visita (ne abbiamo  discusso durante la colazione con il “capo di protocollo della presidenza”), visitiamo il luogo. La fattoria merita il suo nome: al centro di un palmeto lussureggiante,  ai bordi del deserto di pietre. Qui si coltivano ogni sorta di frutti e legumi, destinati ad essere distribuiti al popolo dei campi. Dei camion recanti i simboli di diverse organizzazioni umanitarie europee sono parcheggiati qui e là.
Ma la principale attrazione del posto è una impresa… avicola, finanziata dalla cooperazione spagnola. In un vasto hangar climatizzato, 30.000 polli in batteria producono 900.000 uova al mese. “per coprire le spese, siamo costretti a vendere il 70% della produzione sul mercato algerino. Il resto è gratuitamente distribuito al popolo saharaoui, nella misura di 4 uova al mese per ciascun cittadino”, ci spiega tra lo schiamazzo dei polli, il capo dell’impresa. Ha 42 anni, nativo di Laayoune, ha studiato Gestione all’Università Cadi Ayed di Marrakech, prima di raggiungere i campi nel 1991. In seguito non ha rivisto la sua famiglia che due volte, nel 1999 e nel 2007. Assicura di non avere alcun rimpianto: “Ho sempre saputo che dopo gli studi sarei venuto qui, per partecipare alla lotta di liberazione al fianco dei miei fratelli”.

 

Brahim ci raggiunge e ci informa sul programma. La nostra prima visita sarà al Parlamento saharaoui. Ci imbarchiamo nel 4x4 senza targa, seguiti da un veicolo “gemello”. Durante tutto il nostro soggiorno, andremo sempre in giro in un convoglio di due 4x4. “nel caso che uno dei due vada in panne nel deserto” ci spiegano… Viaggiamo per una buona mezzora in un vasto deserto di pietre. Qui e là vi sono dei containers incagliati al suolo, sotto un sole di piombo. Di tanto in tanto incrociamo delle jeeps color sabbia, o dei pick-up carichi di uomini col viso avvolto nei turbanti che corrono a rotta di collo ai bordi dell’immensità del deserto. Sembra di stare in Afghanistan. Il nostro autista, che ha piantato una bandierina saharaoui sul cruscotto, non segue alcuna pista. “Noi saharaoui non abbiamo bisogno di GPS, né di alcun altro strumento di navigazione – dice fiero Brahim – Noi ci orientiamo in base al colore della terra ed alla forma delle dune. E di notte facciamo affidamento sulle stelle”. E’ indubbiamente impressionante.

 

Parlamento Dimadit

La sede del Parlamento saharaoui è una costruzione isolata, piantata al confine di nessuna parte. Attraversiamo un cortiletto in terra circondato da muri decrepiti, prima di entrare in quella che sembra l’aula di una scuola di campagna, dove è stato disposto del materiale d’ufficio in kit. Un tetto di lamiera tipo “Dimatit”, tavoli di legno allineati, sedie costruite in serie, la maggior parte delle quali è ancora ricoperta con la fodera di plastica originale… Una quarantina di saharaoui, tra cui un buon quarto di donne (e, curiosamente, un bambino di una decina di anni) sono sparpagliati tra le fila. Di fronte a loro, un muro ricoperto da un tendaggio verde e di bandiere della RASD, sotto una grande iscrizione in arabo e spagnolo: “Assemblea Nazionale Saharaoui”. Su di una pedana leggermente sopraelevata, altri uomini in derra’iya (l’abito tradizionale saharaoui, ndt) circondano Mahfoud Ali Beiba, il presidente dell’Assemblea. Che prende il microfono per… augurare il benvenuto alla “delegazione del popolo marocchino”! E prima che noi avessimo il tempo di protestare, aggiunge: “Noi non abbiamo alcun problema coi nostri vicini marocchini, che sono un popolo fratello. Il nostro problema è con il loro regime”. Ascolteremo mille volte questa frase nel corso del nostro soggiorno.

 

Ordine del giorno. L’elezione democratica e popolare di due membri della Corte Suprema saharaoui, “secondo quanto previsto dall’art. 134 della Costituzione”: Si avviano le procedure, sotto l’occhio distratto della maggior parte dei deputati. Uno dei quali dorme spudoratamente, la testa rovesciata all’indietro. Ecco almeno un punto in comune col Parlamento di Rabat…
Terminata la seduta, il Presidente dell’Assemblea ci invita a raggiungerlo in una vicina sala di ricevimento, in compagnia di una decina di deputati. Uno di questi, strada facendo, ci spiega di essere un “eletto del settore militare”. Percepisce, al pari di tutti i suoi colleghi, un salario di 4000 dinari algerini al mese (poco meno di 40 euro, ndt). “Quanto prendono i deputati marocchini?”, ci domanda. Noi ci sentiamo quasi imbarazzati a rispondergli. Lui soffoca una risatina…
Nella sala di ricevimento si possono notare dei poster di manifestanti a Laayoune, ed una grande foto di Ali Salem Tamek. Vista da qui, questo dissidente saharaoui è un eroe nazionale. Il fatto che abbia un passaporto saharaoui e che studi giornalismo a Casablanca non sembra disturbare nessuno. Girano i bicchieri di the e i deputati ci fanno domande su Fouad Ali El Himma! “Allora? Dice di essere democratico e vuole creare un partito?” Questa gente non si perde una virgola dell’attualità politica marocchina.

 

Arriviamo a parlare di Manhasset, dove Mahfoud Ali Beiba era presente.  Per quale motivo lui e gli altri membri della delegazione saharaoui hanno rifiutato di stringere la mano a Khelli Henna Ould Errachid, presidente del Consiglio reale consultativo per gli affari saharaiani (CORCAS) ed ardente difensore della marocchinità del Sahara? La questione fa molto innervosire i nostri interlocutori. “La presenza di Saharaoui tra i negoziatori marocchini era in sé una provocazione”, sostiene molto incavolato un deputato di nome Ahmed Omari. “Del resto – aggiunge – Khelli Henna si contraddice. Non più tardi di ieri, mi ha telefonato per dirmi di non volergliene, perché lui era manipolato dai Marocchini”. La menzogna è grossolana, nessuno fa finta di crederci. Diversi deputati fulminano il loro collega con lo sguardo, mentre ci rivolgono dei sorrisi imbarazzati.


“Noi siamo un virus”
Di ritorno alla fattoria, pranziamo con M’hammed Khaddad, un altro negoziatore di Manhasset. Membro della Segreteria nazionale del Polisario e coordinatore delle relazioni con la Minurso, è un uomo affabile ed intelligente. Contesta con sottigliezza i nostri argomenti in favore del piano di autonomia proposto dal Marocco, e riconosce anche una certa evoluzione democratica del Regno da una decina di anni. Ma la nostra conversazione è continuamente interrotta da un altro convitato. Finiamo col tacere per consentirgli di svolgere una interminabile diatriba che si può in due parole riassumere dicendo che il regime di Mohammed VI è ancora più dittatoriale di quello di Hassan II.
Quest’uomo di chiama Khalil Sid Mohamed èd è il “Ministro dei territori occupati”. La sua missione è quella di coordinare l’azione del Polisario con quella dei suoi militanti segretamente impiantatisi nel Sahara sotto amministrazione marocchina. Ecco una notizia interessante… cerchiamo di saperne di più, ma l’uomo di limita a rispondere con un sorriso felino: “Il mio lavoro è di destabilizzare la monarchia marocchina”. Niente di più! Ma ne ha veramente la possibilità?  Improvvisamente serio, riflette qualche secondo, poi si lascia sfuggire: “Il Marocco è un grande paese, un paese forte. Ma noi siamo un virus e provochiamo molti danni. Voi avete esaurito tutti gli antibiotici, nessuno ha funzionato. E nessuno funzionerà mai”. Accanto a lui, M’hammed Khaddad sorride un po’ impacciato. Come se approvasse le parole del suo collega, ma trovasse inutile il suo tono aggressivo.

 

“Najm Al Polisario”
In programma, nel pomeriggio, la visita ad un centro medico-educativo per le donne saharaoui. Sorto dalla sabbia una decina di anni fa grazie ai soldi della cooperazione straniera, questo conglomerato di cooperative è stato battezzato “27 febbraio”, in ricordo del giorno della proclamazione della RASD nel 1976. La direttrice ci accoglie con un sorriso leggermente teso. Prima di cominciare la visita ci dice che i Marocchini sono “comunque un popolo fratello”. Noi reprimiamo un sorriso.
Qui sono le donne a fare tutto. Obiettivamente hanno compiuto un lavoro ammirevole. Andando di stanza in stanza si scopre una biblioteca, degli ateliers di alfabetizzazione, corsi di lingue, di cucito, di cucina, di guida, di insegnamento di Internet e delle tecnologie audiovisive… Più avanti un piccolo dispensario ben fornito di medicinali e dotato di un equipaggiamento paramedico rudimentale, ma gelosamente custodito, è stato battezzato “Martyr Mohamed Lamine”. In omaggio al primo medico saharaoui morto nel 1975… in un incidente automobilistico! “Ogni saharaoui che muore qui, esiliato dalla sua patria occupata, è considerato un martire”, ci spiega con aria grave la direttrice.

 

In una sala adiacente, alcune donne saharaoui ci hanno preparato il the e dei rinfreschi. E’ l’occasione per discutere della visita che hanno fatto a Laayoune l’anno scorso, nell’ambito del programma di scambi di visite familiari realizzato dalla Minurso. Sulle sorelle e cugine di “laggiù” hanno una visione commossa… ed un pizzico condiscendente. “Siamo rimaste sbalordite nel vedere che avevano paura di tutto e che evitavano in ogni modo di parlare della situazione del Sahara. Ogni volta che noi affrontavamo con loro dei temi come il referendum o l’indipendenza, abbassavano la voce, si guardavano intorno… Questo ci ha dato conferma di quello che pensavamo a proposito del clima di dittatura istaurato dall’occupante marocchino. Qui le donne parlano liberamente, esprimendo ogni sorta di opinione politica”. Ah? Anche, per esempio il sostegno al piano di autonomia proposto dal Marocco? Una fila di sorrisi seducenti: “Certo, niente lo vieta! Solo che non c’è nessuno che sia favorevole, ecco tutto”. Hum…

 

Quando siamo sul punto di andarcene, ci giungono dalla sala vicina dei suoni di chitarra e di organo elettrico. “E’ il nostro gruppo di musica, venite a vedere!” ci dicono con tono gaio. Così scopriamo una piccola sala di spettacolo rudimentale, dove un quartetto di musicisti sta provando. Il gruppo si chiama “Najm al Polisario” (La stella del Polisario) ed appositamente per noi prova il suo celebre successo “Attadhiat al Jssam” (I grandi sacrifici). Si tratta di una ballata rai-rock, con sonorità molto anni ’80. Estratto del testo: “O popolo che hai consentito grandi sacrifici, prenditi cura dei loro frutti, prodotti dal mio sangue ardente, continua a sfidare le forze oscure, con grandiose glorie, esigi il rispetto e rifiuta le soluzioni che ti vengono imposte, noi uccideremo i sogni degli invasori, col sacrificio dei martiri, quelli che già lo sono stati e quelli che lo saranno”. Durante tutta l’esecuzione, le nostre ospiti battono le mani al ritmo, mostrando un entusiasmo travolgente. Per battere bene il tempo, una di loro abbozza anche un passo di danza.

 

E’ venuta l’ora di prendere congedo. In segno di amicizia, la direttrice del centro offre ai rappresentanti delle “forze oscure”, che siamo noi un paio di scialli neri saharaoui. Un regalo assai utile, dal momento che si leva una tempesta di sabbia…

 

Il museo dell’esercito

Dopo un’ora buona di strada in un paesaggio quasi lunare, raggiungiamo la tappa successiva. Il “museo dell’esercito” è una sfilza di grandi sale rettangolari dipinti a calce e illuminate al neon. Il conservatore del museo (e “commissario politico” aggiunge curiosamente) ci accoglie con l’oramai classico: “Noi non abbiamo niente contro il popolo marocchino fratello, I nostri problemi sono col regime reale colonizzatore ed espansionista”. Ecco, è stato detto: la visita può cominciare.

All’entrata del museo, la prima cosa che vediamo è un grande quadro con le parole dell’inno nazionale saharaoui, intitolato: “Il linguaggio del ferro e del fuoco”. Poi, di sala in sala, i quadri si succedono. Qui c’è il racconto della storia del popolo saharaoui “che ha sempre ferocemente resistito agli invasori” (ivi compreso il Sultano marocchino Hassan I, nel 1882!). Là c’è il testo dell’”accordo ladro di Madrid” del 1975, che ha diviso il Sahara tra il Marocco e la Mauritania. Poi una sala interamente dedicata alla vita dell’eroe nazionale e primo dei martiri: El Ouali Mostafa Sayed, fondatore del Polisario, caduto in combattimento nel 1976.
E’ all’uscita di una delle sale intermante dedicate ai fatti della guerra dell’esercito di liberazione popolare saharaoui (contro il Marocco soprattutto) che ci comincia a prendere un malessere alla gola. Nel cortile centrale del museo giacciono i rottami di 3 aerei delle Forze Reali Aeree. Su di un pezzo di lamiera ammaccata si vede ancora chiaramente lo stemma della monarchia. Poi i relitti di jeeps militari marocchine, di camion ed anche qualche tanks. Prendiamo delle foto ma già sappiamo, istintivamente, che non le pubblicheremo. Non possiamo non pensare ai soldati che conducevano quei veicoli e che sono rimasti qui prigionieri più di 20 anni… In una sala adiacente, due grandi armadi contenenti centinaia di documenti sequestrati durante la guerra: corrispondenze segrete e bollettini di contatti militari (alcuni firmati da Hassan II !),  libretti sanitari, schede di ogni genere… In un altro armadio centinaia di decorazioni dei soldati marocchini. Su di un muro, una collezione di foto, sequestrate nel corso di raid contro le caserme, mostrano la vita dei soldati marocchini sorridenti mentre posano nei momenti di riposo. Tutti saranno uccisi o catturati nei giorni seguenti.

 

Uscendo dal museo, i nostri volti tesi parlano per noi. Un po’ sadico, il conservatore/commissario politico (si comprende meglio adesso) ci propone di firmare il libro d’oro del museo “come fanno tutti i visitatori”. No, grazie, veramente. Anche l’ imparzialità del giornalista ha i suoi limiti. Brahim viene a prenderci. Ci attende una buona ora di strada prima della prossima tappa.

 

Mad Max del deserto
Siamo a Rabouni, la “capitale amministrativa” del governo saharaoui. E’ un grosso agglomerato di baracche che somiglia, a scelta, a un canile municipale o ad una discarica di ferraglie direttamente sulla sabbia. Rabouni è evidentemente un centro logistico: vi stazionano dei 4x4 e dei pick-up a decine, vicino a grossi bidoni rossi bucati da tubi che vengono utilizzati come pompe di benzina. I disegni ricordano terribilmente Mad Max: macchine non identificate e targhe rimosse di ogni genere giacciono al suolo a centinaia, tra pozze nerastre e strisce di olio di motore. Al limite di questa accozzaglia, uomini col viso coperto da scialli neri si attivano, smontano pezzi, ne sistemano altri… In tempo di guerra deve esserci un vero formicaio qui. 

 

Ma siamo venuti qui per parlare di diritti umani, ci ricorda Brahim. Infatti abbiamo un appuntamento con i responsabili dell’Associazione dei parenti dei prigionieri e scomparsi saharaoui. In una baracca dall’ingresso discreto, due uomini dall’aria intellettuale ci accolgono sotto una iscrizione murale gigante: “Esigiamo lo smantellamento del muro della vergogna”. Ciò che, visto dal Marocco, è un baluardo difensivo contro le aggressioni militari esterne viene considerato, visto da qui, come una muraglia che separa un popolo oppresso dalla sua nazione defraudata. Anche nel dramma, tutto è questione di punti di vista.

 

“Noi seguiamo giorno per giorno gli attacchi ai diritti dell’uomo subiti dai nostri concittadini nel Sahara occupato”, ci dichiarano subito i responsabili della ONG, che negano di avere alcuna relazione con le autorità di Rabouni. Dopo che l’espressione delle idee indipendentiste hanno cominciato ad essere tollerate nel Sahara sotto amministrazione marocchina, si registrano regolarmente delle scaramucce tra giovani Saharaoui e poliziotti, ma raramente queste si trasformano in sommosse. Viste da qui, peraltro, si tratta di “sollevamenti popolari soffocate nel sangue dagli occupanti”. E liste di arresti, di pestaggi… Subito dopo che a Laayoune o a Smara viene inferto un colpo di manganello, è da questo posto che partono i comunicati infiammati e le montagne di video che inondano le redazioni del pianeta.

 

Quale è la situazione dei diritti dell’uomo nei campi? La domanda viene accolta placidamente dai nostri interlocutori. “Vi sono stati degli arresti arbitrari negli anni ’70 e ’80 – concedono – ma la direzione del Fronte li ha riconosciuti e si è scusato. Per il resto, la nostra associazione non ha ricevuto alcuna denuncia dal 1990” . E il famoso rapporto dell’ONG France Libertés, che ha sospeso le sue donazioni umanitarie dopo avere scoperto che una parte di essi era distratta dai dirigenti del Polisario? “Menzogne e manipolazioni patrocinate dal Marocco!”, denunciano a una sola voce, prima che uno dei essi aggiunga candidamente: “E poi i loro aiuti non valevano più di 6.000 euro, e allora, francamente…”

 

La Germania e il Lussemburgo
E’ caduta la notte. L’ultimo appuntamento è un pranzo-dibattito a casa del Primo Ministro della RASD… in presenza della metà del governo! La nostra visita è manifestamente vissuta come un avvenimento importante. Abdelkader Taleb Omar, uomo calmo e sorridente, ci accoglie in un edificio sinistro del quale non ci si è presi la briga di dipingere tutti i muri. Come sempre il menu è pletorico e comprende diversi piatti di carne. “La generosità è un tratto culturale fondamentale dei Saharaoui – spiega il Primo Ministro -. Quando riceviamo un invitato, gli offriamo tutto quello che abbiamo, a costo di lasciare i nostri figli senza mangiare. Al contrario, se ci fanno violenza, siamo pronti a morire per una goccia d’acqua. I Marocchini, ahimé, non hanno capito niente della nostra cultura. Se lo si tratta con dignità, si può ottenere tutto da un Saharaoui”.

 

Quando il pranzo è finito, la conversazione  tocca il tema dell’indipendenza. “Siamo consapevoli che non è epoca di nazioni atomizzate, ma di raggruppamenti regionali – afferma uno dei ministri – E per questo, dopo avere recuperato il nostro paese, lavoreremo attivamente per l’unità del Maghreb arabo”. Noi sottolineiamo la sproporzione con il Marocco e l’Algeria, che contano 30 milioni di abitanti ciascuno, ed un potenziale Stato saharaoui che non ne conterebbe più di 300.000. “E allora? La Germania side al fianco del Lussemburgo in seno al Consiglio d’Europa”. Sicuro, ma il Lussemburgo ha una superficie in rapporto alla sua popolazione, mentre il Sahara indipendente disporrebbe di un  territorio equivalente a quel che resterebbe del Marocco. Cosa sarebbe, un abitante ogni tre chilometri quadrati? Tra il pubblico echeggiano risate di commiserazione. Vuol dire che il nostro argomento è strampalato…


 

Lunedì 12 giugno - “N’degdeg li krassek!”

Stamattina andiamo finalmente a incontrare la popolazione. Rotta verso il campo di Laayoune, una immensa bidonville poggiata sulla sabbia che si estende a perdita d’occhio. Abbiamo preteso di essere soli, di poter parlare alla gente senza Brahim, né alcuno dei quattro chaperon che ci seguono passo passo dall’inizio della visita. Con nostra grande sorpresa, la richiesta è stata accettata… ma a più riprese, mentre camminiamo nelle stradine, vediamo i 4x4 passare lentamente nel nostro campo di visuale.
Ci spingiamo all’interno del campo. Baracche di terra e di argilla e paglia, biancheria appesa sui tetti di zinco… trasuda miseria dappertutto. E’ mezzogiorno, il sole batte forte e non c’è quasi nessuno fuori. Al voltare di un sentiero un ragazzo lava i suoi vestiti in una pozza d’acqua stagnante. Dietro di lui, un gruppo di bambini di 5-6 anni, con gli abiti rattoppati, ci lanciano degli “Hola, como esta” gioiosi. Rispondiamo loro in arabo. Si avvicinano, felici di chiacchierare con degli stranieri.

 

“Ntouma dzair?” (Siete algerini?), ci domandano ridacchiando.
“Lla, hna mgharba” (No, siamo marocchini).
Sentendo questo, i bambini impietriscono. Qualche secondo di silenzio stupefatto, poi uno ripete incredulo: “Mgharba? Ntouma Mgharba?”. E’ evidente che si tratta della prima volta che questi bambini vedono il “nemico”. Cerchiamo di rassicurarli, mentre il gruppo arretra prudentemente. Il più ardito all’improvviso si raddrizza e grida con voce flebile, puntando il dito contro di noi: “N’degdeg li krassek” (Ti spacco la testa). Noi accenniamo un passo verso di loro, con grandi sorrisi a braccia aperte. Pfuit! I ragazzini si sparpagliano in tutte le direzioni. Qualche secondo ancora, poi degli adulti cominciano ad uscire dalle baracche ed a squadrarci, coi visi fermi. Mentre noi acceleriamo il passo, i bambini, imbaldanziti, ci seguono a qualche distanza gridando: “N’degdeg li krassek” e “Polisario”. Uno lancia un petardo che esplode non lontano da noi, per l’incanto dei suoi piccoli compagni. Per una volta giocano alla guerra con dei veri Marocchini!

 

Sbuchiamo su di un terrapieno. Due squadre di adolescenti giocano a calcio, la maggior parte a piedi nudi. Ci avviciniamo ad alcuni giocatori supplenti, seduti in gruppo su di una piccola scarpata di sabbia. Quando vengono a sapere che siamo marocchini, si accigliano, qualcuno ci volta ostentatamente le spalle. Il portiere, dimenticando la partita, grida rabbiosamente: “N’degdeg lik rassek!” dietro i pali. Ma qualcuno resta, con la voglia di dialogare. “Non bisogna volergliene – dicono annuendo col capo verso il portiere – Molti ragazzi qui sono figli di martiri, che hanno perso il padre o il nonno nella guerra. E’ dura per loro”. La discussione si anima. Loro dicono: lotta per l’indipendenza; noi rispondiamo: negoziati di pace. Tutti sono d’accordo sulla loro inutilità: “Quello che è stato rubato con la forza, deve essere ripreso con la forza. Quello che bisogna fare, è riprendere le armi!” Negando la evidente povertà dei campi, dicono di vivere in buone condizioni, che non “manca loro niente”. Dicono anche che la stampa marocchina continua a mentire si di loro.

 

La discussione prosegue in una minuscola bettola, dove qualche ragazzo segue la Coppa d’Europa su di un televisore antidiluviano e gracchiante. Subito lasciano stare la partita, ci offrono una bottiglia d’acqua relativamente fresca e la discussione riprende. Noi domandiamo loro che cosa pensano del progetto marocchino di autonomia. Si capisce che non ne conoscono i contenuti se non in modo approssimativo. Noi spieghiamo che propone ai Sahraoui un governo autonomo, un Parlamento autonomo, ed anche una polizia autonoma. Ma si tratta di dettagli che non suscitano il loro interesse. “Ci sarà sempre una bandiera marocchina a sventolare su tutto questo e noi non l’accetteremo mai”. “Inoltre – aggiunge il più “ragionevole” del gruppo – chi ci garantisce che non avremo problemi, anche se autonomi, con le autorità marocchine? Guardate che cosa succede a Laayoune e a Sidi Ifni!” Noi rispondiamo che effettivamente tutto è ancora lontano dall’essere perfetto in Marocco, ma che il paese è comunque cambiato da una decina d’anni. Una sfilza di sorrisi beffardi. Anche se questo conflitto dovesse un giorno terminare, la propaganda lascerà tracce durevoli negli spiriti. E’ a questo punto che Brahim ed i suoi accompagnatori ci ritrovano. Eravamo loro mancati.

 

“Il nostro obiettivo: formare dei guerrieri”
Oggi pranziamo col ministro saharaoui dell’Educazione. “Il 100% dei 28.000 bambini dei campi sono scolarizzati nelle nostre 34 scuole primarie, dai nostri 2700 maestri”, ci spiega con fierezza. Per le secondarie e l’Università, bisogna andare in Algeria. Dove l’85% dei 7000 studenti saharaoui usciti dai campi vive in internati. Il resto è sparpagliato tra i paesi “amici”, soprattutto Cuba e la Libia. Fin dall’ inizio della nostra visita, abbiamo chiesto di visionare i manuali scolastici saharaoui, soprattutto quelli di storia contemporanea e di educazione civica. Il ministro ne ha procurato un esemplare. Vi sono due capitoli intitolati “L’hold-up degli accordi di Madrid” e “La prosecuzione della lotta armata contro gli invasori”. Ma questo manuale, ci spiega il ministro, è già superato. Da almeno cinque anni gli studenti ne usano uno nuovo, del quale però “non è riuscito a trovare un esemplare”.  Humm… Di fronte alla nostra faccia sospettosa, il ministro ci dice tranquillamente: “in ogni modo, la nostra politica pedagogica è chiara: l’obiettivo principale del nostro sistema educativo è di formare nuove generazioni di guerrieri”. Ci tornano in mente le scene della mattina. L’obiettivo sembra già essere stato raggiunto…

 

Il Marocco, un paese che spaventa

Dopo un’ora di 4x4 nel deserto, eccoci nella “Scuola militare del martire El Oulai”. Il Ministro della difesa – ci assicurano – ci raggiungerà più tardi per prendere il the. Aspettandolo, il direttore della scuola ci accoglie a suo modo: “Dunque sembra che il vostro esercito recuperi del materiale dai rottami spagnoli?” Umorismo militare, senza dubbio… La scuola è formata da un cortile centrale, chiuso tra una quindicina di baracche sommarie. La metà sono aule, il resto dormitori. Come per caso, arriviamo proprio quando la compagnia termina il saluto alla bandiera. Alle 17,15… 400 studenti soldati, tutti magri e giovanissimi, male allacciati in uniformi troppo grandi per loro, sono in piedi sull’attenti. Al segnale del direttore, si disperdono in piccoli gruppi e raggiungono i loro istruttori con passo saltellante, scandendo a ritmo degli slogan guerrieri. La scena vorrebbe impressionare, ma fa piuttosto sorridere. L’esercito saharaoui, ci spiega il direttore, non distribuisce gradi ai soldati, solo delle funzioni: capogruppo, caposezione, capozona.

E’ arrivato il Ministro della Difesa. Dopo l’inevitabile tiritera sulla fraternità tra il popolo saharaoui e quello marocchino, dichiara di contare su di un esercito di 15.000 uomini, che può raggiungere i 25.000 in caso di mobilitazione generale. “Sappiamo che il vostro esercito conta dieci volte più di uomini e su di un’aviazione da combattimento. Ma non è la quantità che fa la differenza, è il valore”. Essi non hanno aerei e – ci dice il nostro interlocutore – non hanno acquistato nuove armi dopo il cessate il fuoco del 1991. “Ci accontentiamo di conservare quelle che già abbiamo, che provengono dall’ex blocco dell’est”. Non si è tenuti a credere al ministro sulla parola, anche se ha una bella testa. Con aria dispiaciuta ci spiega che il Marocco è sempre stato per i Saharaoui un “paese che spaventa”. “Voi avete mosso guerra all’Algeria, solo un anno dopo l’indipendenza, per una questione di linee di frontiera, poi avete fortemente combattuto l’indipendenza della Mauritania, prima di fomentarvi dei colpi di Stato… I Marocchini hanno sempre avuto delle velleità espansioniste. Durante tutta la vostra storia avete sempre aggredito i vostri vicini per conquistare nuovi territori” Noi gli facciamo osservare che il periodo storico durante il quale il Marocco ha avuto la maggiore estensione territoriale corrisponde al regno degli Almoravidi, dei selvaggi guerrieri venuti… dal Sahara! Il Ministro reprime un sorrisetto imbarazzato. Deve prenderlo come un complimento o un insulto? Per un momento non sembra più convinto che l’”espansionismo” sia una tara…

 

Hasta Sempre, Comandante!

La strada per il campo di Dakhla è lunga, almeno due ore di traversata nel deserto. Quando il convoglio delle 4x4 arriva, è già calata la notte. Stanotte dormiamo a casa degli abitanti sotto la tenda. Un’occasione di discutere liberamente, dividendo il pasto di una famiglia? Il nostro entusiasmo presto si spegne. L’”abitante” scelto da Brahim ei suoi amici ha deciso, per essere più ospitale… di andarsene per lasciare la sua tenda tutta a nostra disposizione! Siamo troppo stanchi per protestare. Un ultimo piccolo giro nel campo ci consente di constatare che i ragazzi saharaoui “escono” la sera – infatti si riuniscono, divisi per sesso e fasce d’età, e chiacchierano, seduti sulla sabbia a gambe incrociate, sotto le stelle. Un gruppo di ragazze canticchia: “Hasta sempre Comandante”, il famoso inno alla gloria di Che Guevara. Non mancano che le chitarre ed i falo’.

 

Venerdì 13 giugno - Il vecchio corvo
Il mattino sfuggiamo per un pelo ad un’ennesima cerimonia ufficiale (Il Polisario festeggia l’arrivo di un gruppo di infermieri formati in Algeria). Noi ce ne andiamo alla chetichella come dei ladri e girovaghiamo nelle stradine deserte del campo, al mattino presto, di nuovo soli.
Nel campo di Dakhla, come in quello di Laayoune, si trovano le stesse misere baracche di terra. Ma qui ci sono più tende e più recinti – se così si possono chiamare questi strani coni di lamiera e fil di ferro, nei quali è ricoverata qualche capra famelica. Si avvicina un vecchio. Ci ha sentito parlare e il nostro accento gli ha ricordato qualcosa. Quando confessiamo la nostra nazionalità, gli balena un sorriso come a dire: “Lo sapevo”.

 

“Bisogna subito andare a vedere l’amministrazione”, ci dice. ”Ah bene, perché?”
“Per niente, perché è la tradizione, per bere un bicchiere di the”.
Divertiti da questo atto di delazione spontanea,  seguiamo il vecchio, tanto per scoprire che cosa succederà. Strada facendo, ci racconta che al tempo della sua giovinezza  intere tribù sharaoui  ancora attraversavano il deserto sui cammelli, con un minimo bagaglio. “Oggi – si lamenta – siamo diventati sedentari, abbiamo più esigenze e maggiori difficoltà a soddisfarle” Domandiamo che cosa esattamente manchi agli abitanti dei campi, ma il vecchio subito si rende conto di avere parlato troppo, e a dei Marocchini per giunta. “Grazie al nostro governo non ci manca niente, hamdoullah”, ci assicura senza tema di contraddizione. Siamo arrivati davanti alla sede dell’”Amministrazione”, una baracca fatta di argilla e paglia, un po’ più grande delle altre, con un grande battente di ferro arrugginito. Ma non c’è nessuno. Il vecchio sembra disorientato. Lo salutiamo, quasi ci scusiamo, e scivoliamo in un passaggio attraverso due case.

 

Cannavaro e Jil Jilala

Abbiamo fatto bene a seguire il nostro simpatico delatore, perché ci ha condotto in quello che sembra un souk: qualche drogheria, dei venditori di abiti usati, un meccanico, un barbiere… ed un chiosco di musica! Dentro non c’è nessuno, ma dei poster di Kadem Saher e della carnosa Elissa, molto svestita, ricoprono una carta da parati a fiori particolarmente sgargiante. Allineati su degli scaffali, cassette pirata di rai e – sorpresa! – di musica marocchina! Sul minuscolo bancone Daoudi e Abdelhadi Belkhayat sono a fianco di Jil Jilala. Il venditore sa che questo gruppo è l’autore del mitico “Laayoune ayniya” (Laayoune, pupilla dei miei occhi), canzone inneggiante alla marocchinità del Sahara? Probabilmente no, e non vale  la pena di dirglielo. Eccolo d’altronde che compare nel negozio.

E’ un giovane di una ventina d’anni, che sfoggia una maglietta del Real Madrid col nome del portiere italiano Cannavaro. E’simpatico e accogliente, e storce il naso quando viene a sapere che siamo marocchini. Prevale il desiderio di discutere. No, non andrà mai in Sahara finché sarà occupato dal Marocco. No, non vuole sentir parlare di autonomia, o il referendum per l’indipendenza o niente. E se il Marocco se lo prende? Allora prenderà le armi e si perderà nel deserto con i suoi amici, che tutti hanno progettato questa ipotesi…
La nostra discussione viene di colpo interrotta da due membri della “gendarmerie nazionale” (così è scritto sulle loro jeeps), che si affacciano nel minuscolo negozio. Hanno loro segnalato la presenza di stranieri (bravo papy, ci sei arrivato!) e vengono a controllare i nostri documenti. Non hanno l’aria di scherzare, così per prudenza noi segnaliamo di essere degli invitati delle autorità. Il tempo di far gracchiare i talkies-walkies, e con grandi sorrisi ci pregano di dimenticare il malinteso… Che cosa sarebbe successo se fossimo venuti qui senza avvisare nessuno? Cannavaro ci abbraccia davanti al suo bancone di cassette marocchine. “L’arte – ci dice in guisa di addio – non ha frontiere”.

 

E Sakharov?
Di ritorno alla casa colonica incontriamo una leggenda vivente: Bachir Mustapha Sayed, il fratello di El Ouali. Ex numero 2 del Polisario, è stato un comandante temibile, nel pieno della guerra col Marocco, alla fine degli anni ’70. Dopo il vertice di Londra del 2000, ha fatto – sono sua parole – una traversata del deserto. Nel Polisario occupa un posto non di primo piano ed a malincuore. Ma resta brillante e arguto, difendendo la causa saharaoui con convinzione e lucidità.
All’inizio della serata, appena qualche ora prima di prendere la strada per Tindouf, dove ci aspetta il nostro aereo di ritorno, incontriamo finalmente Mohamed Abdelaziz. Il n. 1 del Polisario e capo dello Stato è piuttosto del tipo ideologo. Martella la sua verità tanto più quanto meno essa è sostenibile.
Ci viene un pensiero: se El Ouali Mustapha Sayed è il Che dei Saharaoui, Abdelaziz è il loro Castro. E Bachir sarebbe un buon Sakharov….

 

“E’ il Maghreb”
Mezzanotte, aeroporto di Tindouf. Al ritorno, come all’andata, non possiamo prendere foto di Tindouf, e neppure del cartello che indica l’aeroporto. Salutiamo Brahim ed i nostri accompagnatori del Polisario. Il nostro aereo per Algeri decolla alle 2 del mattino. Nella sala di imbarco ritroviamo il nostro amico della polizia algerina fan di Chamakh, sempre molto gioviale. “Allora i campi, come è andata, scriverete la verità?? Aala balek, avrete dei problemi”. Ah sì, e perché? Riflette un istante, poi risponde alzando le spalle: “aya, è normale. E’ il Maghreb…

 

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