Una voce stretta fra due fuochi
- Dettagli
- Visite: 7205
Una voce stretta fra due fuochi
Il Manifesto, 02/02/2006, LUCA ROSSOMANDO
La vita libera di Lounés Matoub, cantante berbero che non volle mai accettare imposizioni dal regime algerino o dai fanatici islamisti. E che per questo è stato assassinato
«Il berbero è sempre stata la mia lingua materna; il francese uno strumento di lavoro. In arabo so scrivere solo il mio nome e cognome». Rispondeva così Lounés Matoub, cantante algerino e martire della causa berbera, a chi gli chiedeva che rapporto avesse con la lingua ufficiale del suo paese. «Dopo l'indipendenza - continuava - il tamazight, la lingua parlata nella mia terra, la Cabilia, venne vietata dal nuovo potere. La cultura berbera, essenzialmente orale, venne considerata sovversiva e non si fece nulla per assicurarne la trasmissione. Durante la mia adolescenza l'Algeria attraversò un forte processo di arabizzazione. Ma l'arabo non è la mia lingua - concludeva - e siccome hanno cercato di impormela l'ho rifiutata». Lounés Matoub era nato il 24 gennaio del '56 a Taourirt Moussa, un piccolo villaggio di montagna circondato dagli ulivi, in Cabilia, regione berbera dell'Algeria. Tra i suoi primi ricordi, i canti delle donne del villaggio, ma soprattutto la voce della madre. «Al villaggio la invitavano a cantare ai matrimoni o durante le veglie funebri. La sera, a casa, mi raccontava le fiabe della nostra tradizione, storie di sultani, guerrieri e splendide donne». Le canzoni, invece, parlavano d'esilio, di partenze e separazioni. Il padre di Matoub, come migliaia di suoi connazionali, aveva lasciato il paese nel 1946 per andare a lavorare in Francia.
I bambini giocavano alla guerra
Durante la guerra d'indipendenza la Cabilia, con le sue montagne ricoperte di folta vegetazione, divenne un rifugio sicuro per molti guerriglieri. «Nei villaggi - ricordava Matoub - i bambini giocavano alla guerra. I loro eroi erano i combattenti alla macchia. Le truppe francesi, naturalmente, il nemico». Quel che più spaventava i bambini erano le perquisizioni dei soldati nel cuore della notte, sempre più frequenti verso la fine della guerra. Il giorno dell'indipendenza, lui aveva sei anni.
Espulso da tutte le scuole secondarie della zona per assenze o ritardi sistematici, il giovane Lounés faceva molta vita di strada, finendo spesso in qualche rissa notturna. Passò un mese in prigione. Quando uscì si iscrisse a un corso di meccanica, con la speranza di andare a lavorare in Francia. Ma dopo sei mesi di officina, arrivò la chiamata per il servizio militare. Era il 1975. Il servizio durava due anni.
In quel periodo, per fuggire la ristrettezza di spirito che lo circondava, cominciò a scrivere poesie. Ne aveva già composte in precedenza, ma si trattava solo di un passatempo. Qualche volta si era esibito con la chitarra durante le feste tradizionali del villaggio. Quando terminò il militare, il padre, tornato definitivamente dalla Francia, lo fece assumere nell'economato della scuola in cui lavorava come cuoco. Lavoro d'ufficio. Ma invece di annotare entrate e uscite, Matoub continuava a scrivere poesie. Ne compose a decine, togliendo tempo al lavoro. Fu ammonito diverse volte. Quando lo licenziarono, decise di partire per la Francia.
Quattromila franchi in tasca
Era il 1978. Ad Annemasse, in Alta Savoia, c'era una numerosa comunità cabila, su cui avrebbe potuto contare in caso di bisogno. Nella cittadina c'era una vivace vita notturna, molti locali con musica dal vivo. In uno di questi, tenuto da un connazionale, Matoub venne invitato a esibirsi. Diede fondo al suo repertorio e a fine serata si ritrovò con quattromila franchi nelle tasche. Non ne aveva mai visti tanti, tutti insieme. Per la prima volta cominciò a pensare seriamente di imboccare la strada della musica.
Dopo qualche tempo si trasferì a Parigi. Suonava nei bar degli immigrati, dalle parti di Barbès. C'era più concorrenza che ad Annemasse, ma a Parigi conobbe i vecchi cantanti cabili, che lo invitarono a cantare con loro. Uno di essi, Idir, lo convinse ad entrare in uno studio di registrazione. Gli misero un microfono davanti e Matoub attaccò un canto di festa del suo paese. Dall'altra parte del vetro cominciarono a registrare. Ne venne fuori il suo primo disco. E fu subito un successo.
Nel 1980 fu invitato all'Olympia di Parigi. In Algeria, nel frattempo, le rivendicazioni berbere si erano organizzate in una struttura politica, il Movimento Culturale Berbero. La repressione da parte del potere algerino non si fece attendere. Nel marzo di quell'anno lo scrittore Mouloud Mammeri si apprestava a dare una conferenza sulla poesia cabila all'università di Algeri. Le autorità proibirono la lezione. Gli studenti cabili si riunirono davanti all'università di Tizi Ouzu, la capitale della regione. Nei giorni seguenti la protesta si estese alle scuole e a tutti gli edifici pubblici. Il 16 aprile venne indetto lo sciopero generale in tutta la Cabilia. Tre giorni dopo, nella notte tra il 19 e il 20, l'esercito ricevette l'ordine di dare l'assalto: furono investiti i licei, le università, gli ospedali. Ci furono centinaia di persone ferite e molti arresti, ma nessun morto.
Matoub si trovava a Parigi. Quello dell'Olympia era il suo primo grande concerto e non poteva rinunciare. Entrò in scena, la chitarra in una mano, indossando una tenuta militare. «Il mio paese è in guerra» - spiegò alla platea. Prima di cominciare chiese un minuto di silenzio, in segno di solidarietà con la sua gente.
Gli avvenimenti del 1980 in Cabilia prenderanno il nome di «Primavera berbera». Per la generazione di Matoub sarà un nuovo atto di nascita. Da allora il 20 aprile viene celebrato come una festa nazionale. Matoub non mancherà più all'appuntamento. Ogni anno rientrerà in Cabilia per festeggiare l'anniversario, chiudendo la giornata di festa con uno dei suoi concerti.
La popolarità del cantante berbero cresceva rapidamente. Le sue canzoni, proibite alla radio e alla televisione algerina per le critiche agli abusi dei governanti e i richiami alla causa berbera, venivano cantate in coro negli stadi e scandite nelle marce di protesta. Matoub viveva in Francia ma tornava spesso in Cabilia, dove conduceva la vita di sempre, frequentando i bar e fermandosi per strada a parlare con la gente. «Non smetterò mai di bere - dirà qualche anno più tardi, in piena guerra civile - solo perché qualche fanatico dell'islam vuole impormi la sua legge».
I moti per il pane
Nell'ottobre del 1988 l'Algeria attraversava una grave crisi economica. Nella capitale si verificarono moti spontanei per il pane e le autorità proclamarono lo stato d'assedio. In Cabilia, davanti all'università di Tizi Ouzu, gli studenti diffondevano volantini in sostegno ai manifestanti di Algeri. Quel giorno anche Matoub si trovava davanti all'università. Aveva un pacco di volantini ed era salito in macchina per distribuirli lungo il cammino. Lo accompagnavano due studenti. Durante il tragitto vennero bloccati da una jeep della gendarmeria. I militari li fecero scendere dalla macchina. Misero le manette ai due studenti. Poi uno di loro imbracciò il kalashnikov e sparò a Matoub, a bruciapelo, ferendolo al braccio. Matoub vacillò, senza capire. Era una reazione sproporzionata. Ma subito dopo arrivò un'altra raffica, cinque proiettili. Uno gli attraversò l'intestino, spappolando il femore destro. Non sentiva più la gamba, crollò a terra. I gendarmi lo caricarono sulla jeep. Nel primo ospedale lo affidarono ai medici: «Ecco il vostro figlio di un cane». Tre giorni dopo fu trasferito ad Algeri. Nonostante lo stato d'assedio centinaia di persone erano davanti all'ospedale per salutare il suo arrivo. Le operazioni al femore gli lasceranno una gamba più corta di cinque centimetri.
Nel 1991 il Fronte Islamico di Salvezza vinse le elezioni in Algeria. L'oligarchia al potere decise di annullare le elezioni e mise fuori legge il partito islamico. Cominciò in questo modo la «sporca» guerra civile algerina. In quegli anni Matoub era impegnato direttamente nel Movimento Culturale Berbero, in particolare nelle lotte per il riconoscimento del tamazight come lingua ufficiale dello stato. La sua condotta sregolata, la fama di miscredente, l'influenza su di un vasto pubblico collocavano il suo nome in cima alla lista dei gruppi islamici armati. Matoub sapeva di essere un bersaglio. Riceveva lettere anonime, minacce. Alcuni falsi posti di blocco, che gli integralisti usavano per le loro imboscate, erano stati segnalati sulla strada tra Tizi Ouzu e il suo villaggio. Avrebbe dovuto lasciare la Cabilia, smettere di cantare, chiudersi in casa. Invece amava uscire, andare nei bar, discutere fino a notte fonda. Continuò la vita di sempre, con qualche precauzione in più. Pochi mesi prima di essere rapito, quando si contavano ogni giorno decine di morti tra forze dell'ordine, intellettuali e giornalisti, ma soprattutto tra i cittadini inermi, Lounés Matoub si esibì a Tizi Ouzu, in uno stadio strapieno, contro il terrorismo islamico, ma anche contro gli abusi di potere e il lassismo delle autorità algerine.
Il 25 settembre 1994 Matoub fu rapito da un commando del Gia mentre rientrava in Cabilia da Algeri alla guida della sua auto. Dopo alcuni giorni di prigionia in un punto imprecisato delle montagne cabile, i fondamentalisti gli comunicarono che sarebbe stato sottoposto a un giudizio. Il processo si svolse in un nascondiglio scavato dentro la roccia. Tre giovani barbuti, i cosiddetti emiri, conducevano l'interrogatorio. A causa dell'umidità, le coperte su cui erano inginocchiati erano completamente fradice. Venne azionato un registratore e cominciarono le domande. Gli emiri conoscevano tutte le sue canzoni. Gli contestavano i passi che ritenevano offensivi per il Corano e per la religione musulmana. Matoub provava a difendersi: «Io canto, non c'è altro». Poi gli chiesero informazioni sui comitati di vigilanza in Cabilia. Sembravano preoccupati dalla reazione dei villaggi. Da quando si era diffusa la notizia del rapimento, gli abitanti si riunivano in gruppi e uscivano ogni giorno a cercare Matoub. Le basi del Gia, da qualche parte sulle montagne, non dovevano essere lontane. C'era stata anche una marcia a Tizi Ouzu. Una regione intera si era mobilitata per dimostrare che non avrebbe ceduto alle intimidazioni.
L'interrogatorio durò molte ore. Gli emiri lo obbligarono a registrare un messaggio ai cabili, con la dichiarazione che avrebbe smesso di cantare per sempre. In cambio, gli offrivano i mezzi per cambiare vita, un aiuto economico per aprire un negozio. Il verdetto arrivò due giorni dopo. Condanna a morte, per avere offeso il profeta. Eppure, da quel momento qualcosa cambiò. Tra i suoi carcerieri cominciarono le esitazioni, il nervosismo; la vigilanza raddoppiò. La mattina del 10 ottobre, dopo 15 giorni di prigionia, lo spinsero dentro un'auto, senza spiegazioni. Girarono per tutto il giorno. Quando già era buio si fermarono in un villaggio, gli tolsero la benda e lo condussero in un bar, con le armi in pugno. Strapparono le carte da gioco degli avventori, distrussero le bottiglie, confiscarono i pezzi del domino. Poi si presentarono: «Siamo il Gia. Siamo noi che abbiamo rapito Matoub. Da questo momento, finché non rientra a casa, è sotto la vostra responsabilità». E se ne andarono.
Un bersaglio designato
«Sono un bersaglio designato» - dirà Matoub qualche mese dopo. «Eppure, non sono cambiato. La mia popolarità è aumentata e questo per loro rappresenta una sfida. Ormai non appartengo più a me stesso, questa specie di resurrezione la devo alla mobilitazione della mia gente; e devo tradurla nella mia battaglia. Ma non sono un puro, non voglio cambiare i miei comportamenti abituali. Sono prima di tutto un poeta, un saltimbanco, un vagabondo sempre in cerca di qualcosa. `Se non rispetti la parola data ti ritroveremo dappertutto', mi hanno detto. 'Non ci sarà un luogo del pianeta dove ti sentirai al sicuro'. La prossima volta avranno la mia pelle, ne sono certo. E stavolta non avviseranno».
Lounés Matoub verrà ucciso quattro anni dopo, il 25 giugno 1998, in un agguato teso da un gruppo di uomini armati sulla strada per Tizi Ouzu. Cinque giorni dopo il Gia rivendicherà l'attentato, ma da allora, tra inerzia, depistaggi e falsi colpevoli, la giustizia algerina non è riuscita a determinare la verità sui mandanti e sugli esecutori del delitto. Un mese prima della morte era uscito il disco «Lettera aperta...», l'ultimo atto d'accusa di Lounés Matoub contro «quelli che hanno impresso il terribile marchio della religione e del panarabismo sul volto dell'Algeria».