L'Algeria non è pronta ad esplodere, come qualcuno dice
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Middle East Eye, 6 marzo 2018 (trad. ossin)
L'Algeria non è pronta ad esplodere, come qualcuno dice
Karim Amellal
Trent’anni dopo l’ottobre 1988, l'Algeria si è profondamente trasformata. Nessuno scenario allarmante e, nonostante i tanti problemi, non è affatto pronta ad esplodere
In Algeria non mancano scenari neri – peraltro incoraggiati – a causa della cronica mancanza di trasparenza in cui opera il governo, ed essi si accentuano al massimo di questi tempi, in un contesto caratterizzato dalla malattia del presidente Abdelaziz Bouteflika e dalle prossime elezioni presidenziali che avranno luogo nel 2019.
In Francia, tali scenari germogliano soprattutto a destra, perfino all’estrema destra, dove sembra che ci si compiaccia del « fallimento » del sistema, contemporaneamente preoccupandosi di una possibile « esplosione » che provocherebbe una « invasione » di migranti sulle coste francesi… In questa terribile confusione in cui gli antichi rancori si mescolano ad autentiche angosce, è possibile avere una visione più sfumata, e meno ideologizzata, di quanto accade in questo grande paese?
L’Algeria va male, molto male, sempre peggio. Addirittura sarebbe sul punto di « esplodere ». « La bomba algerina », così titola il magazine Valeurs actuelles – che si colloca da qualche parte tra la destra estrema e l’estrema destra – facendo subito del colore: « Immigrazione massiccia, esplosione delle banlieue… Di cosa la Francia deve avere paura se l’Algeria traballa ».
In queste pagine, in cui affiora maligna la nostalgia dell’Algeria francese (il « si stava decisamente meglio prima » si legge in trasparenza ad ogni frase), i miti e le paure che l’Algeria di oggi suscita si accalcano in una visione apocalittica: quando l’Algeria sarà esplosa, perché esploderà, che cosa succederà? Ed evocano, come un’eco del dramma dei rifugiati che si precipitano verso le porte sbarrate dell’Europa, l’immagine di future orde di candidati all’esilio montare sulle loro barche improvvisate e poi sbarcare, come Mori resuscitati, sulle spiagge innocenti della cristianissima Francia…
Vuoto politico, presidente malato, crisi economica, corruzione endemica, lo spettro delle rivoluzioni arabe: Valeurs actuelles non è l’unico media a veder sgorgare in Algeria le premesse di una catastrofe. Diversi media anglo-sassoni – anch’essi conservatori – hanno recentemente gridato al disastro e descritto l’Algeria, talvolta tutto il Maghreb, come una bomba a scoppio ritardato, una roccaforte di potenziali terroristi, una regione in cui regnano in prevalenza disperazione e afflizione.
Negli ultimi tempi un altro nero scenario ossessiona qualche spirito triste: che possa risorgere un nuovo « ottobre 88 », quella prima « primavera araba » che sanzionò la fine del partito unico e che venne seguita da una effimera fase di transizione che sfociò nel tragico « decennio nero », quegli anni 1990 insanguinati dal terrorismo del Gruppo Islamico Armato (GIA).
Peraltro, alcuni indizi possono effettivamente far pensare che un simile scenario non sia totalmente privo di fondamento.
Come nel 1988, l’Algeria si trova a dover affrontare una crisi economica le cui tangibili conseguenze per la popolazione sono i tagli allo stato sociale ed una accresciuta tensione sui prezzi dei prodotti di consumo quotidiano. E si sa quanto queste cose giocano di solito un ruolo essenziale nell’esplosione del malcontento e nell’innescare processi rivoluzionari.
Come nel 1988, il campo politico si esaurisce interamente intorno al potere formale, la facciata legale del regime, mentre nell’ombra cresce un potere reale composito, nel quale si intrecciano l’esercito, l’influenza dei servizi segreti e le potenze finanziarie più o meno occulte…
Nello stesso tempo, sempre come nel 1988, l’opposizione è rottamata e, a dire il vero, inesistente. L’unico vero partito di opposizione di ambito davvero nazionale, il Fronte delle forze socialiste (FFS), sembra infatti essersi dissolto nelle sue contraddizioni e fa fatica a trovare una qualunque leadership.
I partiti islamisti, dal canto loro, non sono mai riusciti e monetizzare sul piano politico il potente conservatorismo morale che si è diffuso in tutti gli strati della società.
Come nel 1988, prevale un’atmosfera di fine regno, che si accentra sulla figura del presidente Bouteflika e sulle innumerevoli voci che circondano la sua famiglia, o il suo « clan », accusati di governare sottobanco il paese, addirittura di preparare la successione.
Come nel 1988, i giovani Algerini, che rappresentano la maggioranza della popolazione (un po’ meno del 30 % ha meno di 15 anni, e circa il 55 % ha meno di 30 anni, secondo l’ONS), si disinteressano completamente della politica e manifestano come possono la hogra (disprezzo) verso il governo e la corruzione rampante, di tanto in tanto esprimendo la loro rabbia e disperazione.
In trent’anni il paese si è trasformato
In tale contesto, la minima scintilla è considerata dai proponenti di questo scenario come suscettibile di dare fuoco alle polveri, di provocare una rivolta e poi, per contagio, una rivoluzione.
Questo scenario, però, non sembra reggere, per diverse ragioni. La principale è che l’Algeria del 2018 non è per nulla paragonabile a quella del 1988.
In trent’anni, nonostante il terrorismo e le numerose crisi, il paese è molto cresciuto. Si è trasformato. Applicare al periodo attuale una griglia di lettura, un insieme di cause che hanno caratterizzato la fine degli anni 1980, nella migliore delle ipotesi rischia di essere anacronistico, nella peggiore manipolatorio.
Nel 1988, prima dei moti di ottobre, l’Algeria era governata da un sistema di partito unico, il FLN, nel quale, al modo sovietico, il potere reale era nella mani di un complesso aggregato di attori dominato dagli alti gradi dell’esercito – i « generali » – e la Sicurezza militare.
Non c’era libertà di stampa, e nessuna delle libertà fondamentali. Giacché il FLN era l’unico partito autorizzato, le elezioni servivano a confermare il candidato « proposto ».
L’Algeria del 2018 è un sistema in transizione, certo non ancora una democrazia, ma non più una dittatura. Le conquiste della « parentesi » democratica del 1988-1991 restano, volenti o nolenti. Il pluripartitismo è effettivo, come anche la libertà di stampa e di opinione, anche se ogni anno deve constatarsi qualche violazione, ed è in atto una restrizione dopo, grosso modo, l’ictus del presidente Bouteflika nel 2013.
Le elezioni che si svolgono a intervalli regolari, secondo il calendario elettorale, si caratterizzano oramai meno per le frodi che per una astensione crescente e massiccia, che ha superato per esempio il 60 % alle legislative del 2017.
Nonostante, tra l’altro, la cronica mancanza di trasparenza, la sua scarsa legittimazione, l’assenza di rinnovamento, anche il « potere » algerino non ha più niente a che vedere con quello di tre decenni fa.
Se ancora occupano un posto eminente nel sistema, non fosse che per la storia, il loro radicamento nel paese e gli interessi strategici di cui sono garanti, soprattutto verso l’estero, l’esercito e i servizi di sicurezza non sono più gli unici a comandare in Algeria.
Il potere, con Bouteflika e d’altronde per sua iniziativa, si è « civilizzato ». Il maggiore generale Mohamed Mediene, alias Toufik, che ha auto il comando del potente DRS, i Servizi Segreti algerini, per 25 anni, è stato infatti silurato da Bouteflika nel 2015 e i Servizi sono stati riorganizzati e posti, per l’essenziale, sotto il controllo della presidenza.
Se restano ancora figure importanti e influenti, i generali algerini sono rientrati però nelle loro caserme o, i più anziani, si sono riconvertiti nel mondo degli affari, e il loro peso politico non è commisurabile a quello che era durante il « decennio nero », quando di fatto governavano il paese.
Dal 2016, gli appelli di certi intellettuali e politici dell’opposizione perché intervenisse l’esercito e destituisse Abdelaziz Bouteflika sono tutti stati respinti.
Impegnato nella lotta contro il terrorismo, che ha vinto, e nella sorveglianza delle frontiere (6 343 chilometri di confini con sette paesi), l’Esercito nazionale popolare (ANP) non è più il punto di riferimento che era trent’anni fa, e se ancora giocherà un ruolo nella successione al presidente Bouteflika, si può ben scommettere che non sarà lui, e lui solo, a imporre il proprio candidato.
Un alloggio decente per molti Algerini
E’ sul piano economico, sociale e demografico che l’Algeria si è profondamente trasformata in trenta anni. Il PIL è passato dai 59 miliardi di dollari del 1988 ai 156 miliardi del 2016 (dopo aver toccato i 213 miliardi nel 2014), e da 54 miliardi a 171 miliardi nel 2008.
A titolo di paragone, quello del Marocco è di 101 miliardi e quello della Tunisia di 42 miliardi. Dall’indipendenza, la crescita del PIL è strettamente dipendente dal corso degli idrocarburi.
Questa crescita della ricchezza nazionale non è stata finalizzata a garantirne il mantenimento, per esempio diversificando l’economia, investendo nella innovazione e, soprattutto, nell’educazione, ma a tentare di colmare il ritardo di sviluppo accumulato durante il « decennio nero », comprandosi, en passant, la pace sociale.
Un gran parte della rendita petrolifera è servita a finanziare quindi « grandi progetti » di infrastrutture, nei trasporti e i lavori pubblici (ferrovie, reti stradali, aeroporti, dighe, ecc.) soprattutto, la maggior parte dei quali sono stati realizzati da società straniere, soprattutto cinesi, ma anche turche e francesi.
Alla fine di gennaio 2018, il governo ha detto che l’equivalente di 60 miliardi di dollari erano stati spesi per queste infrastrutture. Due grandi programmi illustrano questa politica. In quindici anni, l’Algeria ha speso circa 60 miliardi di dollari per costruire più di due milioni di alloggi e fronteggiare così la crescita demografica e l’esodo rurale.
Se questo piano colossale ha conosciuto moltissimi fallimenti – come dimostra ad esempio il disastro urbanistico della « nuova città » di Sidi Abdellah – e la sua prosecuzione è condizionata alla rendita petrolifera, esso ha permesso tuttavia di assicurare un alloggio decente a molti Algerini poveri e di distruggere molte delle bidonville e quartieri di habitat precario, che avevano proliferato negli anni 1990.
L’altro programma che ha consentito di redistribuire una parte della rendita è certamente l’Agenzia nazionale di aiuto all’impiego dei giovani (ANSEJ), creata nel 1996 ma davvero potenziata agli inizi degli anni 2000 per sostenere finanziariamente le start-up dei giovani.
Se è poco probabile che questo dispositivo sia stato uno strumento economico efficace di stimolo all’impresa giovanile, è stata però una delle leve della redistribuzione della ricchezza e un modo di tranquillizzare i giovani provi di sbocchi professionali e di prospettive di lavoro.
Una tendenza illustra la trasformazione della società algerina nel corso dei due ultimi decenni: la crescita dell’indice di fertilità, dopo un netto calo negli anni 1990. Secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica (ONS) algerino, il numero di nascite è cresciuto nella seconda metà degli anni 2000, stabilendosi a 3,1 figli per donna.
La crescita della fertilità è insieme una buona e una cattiva notizia. Cattiva perché accredita l’idea di un possibile shock demografico all’orizzonte, buona perché è sintomo di buon salute della popolazione.
Stando ai dati dell’ONS, questo aumento della fertilità potrebbe essere dovuto ad un aumento dei matrimoni, ma anche allo sviluppo economico e sociale del paese. Dopo il trauma del decennio nero, che davvero non invitava al matrimonio né ad avere figli (il numero di nascite e di matrimoni è crollato negli anni 1990), l’afflusso di rendita petrolifera ha permesso allo Stato di lanciare il suo ambizioso programma di alloggi sociali, che ha senza dubbio contribuito alla crescita della fertilità in un paese dove la penuria di alloggi era un freno alla natalità.
Emergere di una classe media
La riduzione della disoccupazione, in particolare tra le donne e i giovani, pur se resta a livelli elevati, ha consentito di dinamizzare la fertilità. Il tasso di disoccupazione si è ridotto di due terzi, per gli uomini e le donne, tra il 2000 e il 2011.
Come nota la demografa Zahia Ouadah-Bedidi, « se il miglioramento delle condizioni economiche ha consentito una vigorosa ripresa della natalità, è anche perché il terreno era propizio e le mentalità aperte all’idea di famiglie più numerose ».
L’emergere di una classe media in Algeria è un altro fenomeno recente, che risulta dal continuo miglioramento del potere di acquisto delle famiglie nel corso degli anni 2000, grazie ad aumenti salariali e ad una massiccia politica di sovvenzioni per molti prodotti di base, come il pane per esempio, ma anche i cereali, l’acqua, il latte o ancora la benzina (il cui prezzo al litro nel 2018 è tra gli 0,15 e gli 0,22 euro).
La Banca mondiale stimava nel 2012 che questa politica di sovvenzioni costa 16 miliardi di dollari all’anno. Questi prezzi amministrati svolgono la funzione di ammortizzatori sociali, specie in caso di inflazione, ma sono anche fonte di numerosi perturbazioni economiche, non riflettendo per esempio il valore di mercato o dissuadendo dalla produzione.
A questo proposito, è eloquente la recente controversia sul prezzo della baguette. A dicembre 2017, diversi panettieri del paese si sono ribellati contro il prezzo fisso della baguette (tra 8 e 10 dinari, vale a dire tra 0,5 e 0,07 euro) sostenendo che non riusciva a coprire i costi. Hanno quindi deciso unilateralmente di raddoppiare i prezzi. Ma è andata loro male, perché lo Stato è intervenuto per ristabilire il prezzo iniziale e perseguire i contravventori !
Nello steso tempo, le diseguaglianze, specie di reddito e patrimonio, sono aumentate. Dal 2001 al 2014, nota per esempio l’economista Yacine Miliani, « questa forte crescita economica è stata purtroppo accompagnata da una crescita senza precedenti della precarietà degli impieghi, così approfondendo le diseguaglianze nella ripartizione di redditi e patrimoni, nonostante fossero nel frattempo messe in campo azioni di lotta contro la povertà per rafforzare le aspirazioni verso una maggiore modernità ed equità ».
Tuttavia le diseguaglianze di reddito restano relativamente moderate in Algeria, anche se sono aumentate con la riduzione del costo degli idrocarburi. Nel 2011, l’indice di Gini, che misura le diseguaglianze dei salari, era di 35 (su 100, 100 come indice di massima diseguaglianza), contro per esempio 40 per il Marocco.
Infine, elaborato ogni anno dal PNUD, l’Indice di sviluppo umano (IDH) consente di valutare globalmente il livello di sviluppo di un paese. Classificata 83° nel mondo nel 2016, l’Algeria figura però nel quintetto di testa dei paesi africani e resta il paese dove l’IDH è il più alto nel Maghreb. Questo indice composito, che prende in conto diversi fattori come la speranza di vita (77,6 anni), la durata media di formazione scolastica, le diseguaglianze e il reddito netto per abitante, è cresciuto nel corso del decennio 2000 ed è, di gran lunga, più alto di quello della Tunisia (98°) o del Marocco (130°).
Problemi strutturali che perdurano
L’estrema dipendenza dell’economia dalla rendita petrolifera non è stata mai, per inerzia o calcolo politico, messa in discussione e continua a pesare sul futuro del paese.
Quindi il 96 % delle esportazioni e il 60 % delle entrate di bilancio continuano a dipendere dal petrolio e dal gas, di cui l’Algeria è uno dei più grossi produttori mondiali (18° per il petrolio, 6° esportatore di gas).
Le fluttuazioni del corso degli idrocarburi costringono i decisori a praticare una politica altalenante, subito aprendo le paratoie quando crescono le entrate, subito brutalmente chiudendole quando i prezzi calano. E’ quanto succede dal 2014, quando sono crollati i prezzi petroliferi.
Dal 1999 al 2014, lo Stato algerino ha potuto contare su un barile a 100 dollari, anche di più, e ciò gli ha permesso di realizzare i suoi ampi programmi strutturali e di mettere un po’ di soldi da parte nei fondi di riserva, non abbastanza sufficienti però a compensare la brutale caduta dei corsi sopraggiunta nel 2014-2015, quando il barile è sceso da 109 dollari a 54 dollari in meno di un anno, costringendo il governo, per non aumentare il deficit, ad aumentare le tasse e ad interrompere certi programmi considerati meno essenziali.
Dal 2014, l’Algeria persegue una politica di relativa austerità, sforzandosi di ridurre la spesa pubblica senza però troppo tagliare i programmi sociali, e svuotando le riserve accumulate per colmare i buchi di bilancio.
Questa politica a corto termine, interamente basata sulla rendita petrolifera, a lungo termine è catastrofica. Tuttavia, nonostante innumerevoli dichiarazioni di intenti e altrettanti colpi al mento, nessun decisore è riuscito fino ad oggi a diversificare l’economia algerina.
Anchilosata, ultra burocratizzata e ultra funzionarizzata, essa lascia – è un eufemismo – poco spazio agli investimenti privati, nazionali o stranieri – ad eccezione di un pugno di oligarchi che giocano molto bene in questo gioco di matti.
Anche il sistema scolastico, nonostante l’impegno lodevolissimo dell’attuale ministro dell’Educazione, resta un mastodonte che funziona, sì, ma gira anche a vuoto.
Sotto il peso di una ideologia obsoleta, nella quale si mescolano un nazionalismo soffocante e una religiosità da quattro soldi, accoglie ogni anno nove milioni di studenti – nei tre cicli di insegnamento primario, medio e secondario – ma non riesce a offrire una formazione efficace e di qualità.
L’università è la grande dimenticata degli anni fastosi, senz’altro perché l’investimento in formazione si iscrive in un ciclo troppo lungo per raccoglierne rapidamente I dividendi politici.
L’università funziona per il gran numero che vi accede in massa e gratuitamente, ma non fornisce, purtroppo, diplomi che garantiscano un buon inserimento professionale, da cui un tasso di disoccupazione di laureati del 17,7 % nel 2017 – contro il 7,7 % dei non laureati.
Le difficoltà economiche, l’accentuazione delle diseguaglianze, l’assenza di sbocchi lavorativi per i giovani o ancora l’impressione che la macchina politica giri a vuoto, alimentano molto malcontento in tutto il paese.
E questo spinge molti Algerini, giovani disperati per lo più, a tentare l’avventura dell’emigrazione clandestina. Questi « harraga » in partenza per l’Europa su imbarcazioni di fortuna sfidano le autorità che tentano invano di porre un argine.
Peraltro, oltre queste tragiche partenze, i focolai di contestazione sono sporadici e non si coagulano. Le rivendicazioni dei pensionati dell’esercito, degli insegnanti o, attualmente, dei medici restano settoriali. Non si uniscono in un fronte unico.
Lo spettro del caos politico nato dalle rivolte arabe
Sono essenzialmente proteste sociali, alimentate dall’incertezza della congiuntura economica e dall’indecisione dei responsabili, piuttosto che dissidenza politica che, in ogni caso, nessuna opposizione seria sarebbe oggi in grado di cavalcare. Ne consegue una preferenza per lo status quo, dovuta sia alla tragedia del terrorismo degli anni 1990, che resta impressa nella memoria di tutti, che al timore di quello che un cambiamento violento e non governato potrebbe portare.
Da questo punto di vista, le rivoluzioni tunisina ed egiziana funzionano come uno spauracchio: al rischio del caos politico o della crisi economica, molti preferiscono un attendismo prudente, che non significa però una passività incondizionata. La rabbia è grande, ma resta contenuta, non dallo Stato che fa da pompiere, ma prima di tutto dai cittadini, che non hanno la memoria corta.
L’ampliarsi delle proteste sociali contro l’austerità economica mostra, paradossalmente, una importante risorsa del paese: la vitalità della società civile.
Se, sul piano sociale, l’ex-sindacato unico, l’UGTA (Unione Generale dei Lavoratori Algerini), continua ad esercitare un monopolio di diritto e resta il solo interlocutore autorizzato del governo, la sua legittimazione e la sua influenza sono state seriamente incrinate dall’emergere di nuovi attori: i sindacati autonomi.
La grande mobilitazione dei medici ospedalieri è stata guidata da un sindacato autonomo: il Collettivo autonomo dei medici ospedalieri algerini (CAMRA). Il fiorire di queste strutture, non riconosciute ufficialmente dalle autorità, è un indice tra molti altri del dinamismo della società, che si esprime non più nei canali ufficiali, spesso obsoleti, ma in interstizi marginali, a partire dai quali riesce a imporsi.
La scena culturale algerina è anch’essa in piena mutazione ed è senz’altro questo che noi percepiamo meglio all’estero. Nel cinema, la letteratura o la fotografia, belle e potenti « nouvelles vagues » irrompono nel paese, come i film di Karim Moussaoui e di Hassan Ferhani, i romanzi di Kaouther Adimi o il Collettivo 220, la cui esposizione « Iqbal » si è trasferita dal Museo di arte moderna di Algeri (MAMA) alla Cittadella internazionale delle arti di Parigi. Grazie a YouTube e alle radio, una nuova generazione di cantanti si è imposta negli ultimi anni, anche qui spesso ai margini delle scene ufficiali. Senza finanziamenti pubblici, confinate in spazi angusti, asfissiati dal puritanesimo diffuso, queste nuove voci riescono tuttavia a farsi ascoltare ed a trovare un pubblico. Ad anni luce dall’immagine di una popolazione apatica, di una società soffocata e agonizzante, queste voci fanno risuonare nel frastuono degli egoismi la speranza e la poesia di una gioventù assetata di futuro.
Se si parla molto di cultura per illustrare l’energia e la creatività della società algerina, essa si esprime però anche nell’impegno civile, come #AlgériePropre, le cui campagne in favore dell’educazione ambientale e contro l’inquinamento vengono sempre più ascoltate.
Ugualmente, nonostante le deficienze del sistema universitario algerino, sempre più giovani laureati tentano con successo esperienze imprenditoriali, approfittando dei crediti dell’ANSEJ. Se è ancora presto per parlare di ecosistema di start-up in Algeria, esso va almeno costituendosi, come in Tunisia e in Marocco, e seduce un numero crescente di giovani che faticano a trovare un lavoro nelle filiere tradizionali.
L’islam politico in agguato ?
Resta l’islamismo, quest’altro spauracchio che in Francia si ama agitare per meglio gridare al lupo, vale a dire, come Valeurs Actuelles, all’esplosione e così confermare la minaccia che peserebbe sull’Esagono. Questa tattica sperimentata, che consiste nel servirsi di quanto si crede di individuare « laggiù » per meglio spiegare quello che succede « qui », è anch’essa senza prospettive. L’argomento è noto, c’è da tempo. « Guardate quante donne velate nelle strade di Algeri, si sono moltiplicate per dieci, per venti, per cento negli ultimi venti anni. Ecco la prova che l’islamismo è la, ed ecco che cosa ci succederà in Francia, se non si pone un freno », gridano queste cassandre di malaugurio. E citano anche – a sostegno di questa tesi – la celebre filippica di Nasser contro i Fratelli Musulmani che pretendevano fosse reso obbligatorio il velo negli anni 1950. Di qui a vedere sorgere lo spettro di una insurrezione islamista in Algeria, come nel 1992, c’è solo un passo.
Il ritorno al 1988 è, lo abbiamo detto, impossibile. L’Algeria guidata all’epoca, almeno formalmente, dal presidente Chadli Bendjedid era un regime di partito unico che andava a rotoli a causa di una grave crisi economica (paragonata alla quale il periodo attuale sembra essere bellissimo!). Il prezzo del barile era crollato a 8 dollari (17 dollari circa di oggi) nel 1986, privando l’Algeria di tutte le sue risorse. Le entrate cadevano drammaticamente, il debito cresceva in proporzione. L’Algeria era allora sull’orlo del baratro. Insomma, niente a che vedere con oggi !
Nello stesso tempo, sulla scia della rivoluzione iraniana, ma anche a causa dell’importazione di molti « insegnanti » egiziani e del loro inserimento nel sistema educativo algerino, l’islam politico era in pieno boom.
Praticamente, in tutto il paese, le moschee si sono sostituite ad uno Stato in fallimento per farsi carico dei più poveri e, così, accrescere la propria influenza su di loro. La crescita dell’islam politico in Algeria negli anni 1980 è avvenuta in questo contesto e l’apertura democratica che ha seguito i moti dell’ottobre 1988, attraverso il multipartitismo e poi le prime elezioni libere, ha permesso la sua istituzionalizzazione attraverso il Fronte Islamico di Salvezza (FIS), che ha prima vinto le elezioni locali e poi è arrivato in testa al primo turno delle elezioni legislative nel 1991.
L’interruzione del processo elettorale da parte dell’esercito, nel gennaio 1992, ha spinto gli islamisti verso la lotta armata. Quegli anni sanguinosi di guerra tra le forze di sicurezza e il GIA, poi la disfatta di quest’ultimo, hanno screditato l’islam politico in Algeria, le cui autorità hanno del resto bandito, oltre al FIS, anche ogni altra forma di radicalismo religioso.
Un errore colossale sarebbe oggi vedere nella re-islamizzazione della società algerina, un preludio della re-insorgenza di questo islam politico e la ripetizione dello scenario del 1988. La re-islamizzazione delle società musulmane che è in corso da, più o meno, due decenni, è un fenomeno complesso, non troppo diverso dalla re-cristianizzazione che si osserva, per esempio, negli Stati Uniti, come sottolinea Olivier Roy.
Le sue cause sono molteplici, ma essa non passa più, come in passato, per il campo politico, ciò che non significa che sia spoliticizzata. Quel che Roy chiama « il fallimento dell’islam politico », è l’emergere di un « neofondamentalismo puritano, predicatore, populista e conservatore », che non pretende più di instaurare uno Stato Islamico, ma piuttosto procedere ad una re-islamizzazione della società dal basso, attraverso la difesa, per esempi, dei costumi tradizionali.
Esempi di questo sono le innumerevoli polemiche che hanno caratterizzato l’attualità algerina negli ultimi anni, dalla diffusione di immagini catturate da una videocamera nascosta, che hanno umiliato lo scrittore Rachid Boudjedra, al recente deturpamento a colpi di scalpello della statua femminile della fontana di Aïn al-Fouara, a Sétif, passando per la controversia sull’eliminazione della basmala in alcuni manuali scolastici (la formula Bismillah Arrahman Arrahim, « In nome di dio clemente e misericordioso », ndt).
Partiti islamisti integrati nel gioco politico
E questo spiega anche il successo dei telepredicatori in Algeria – come in tutta l’Africa del Nord – che, lungi dal contestare in alcun modo il governo o lo Stato, al contrario sviluppano un discorso politicamente molto lealista, pur se molto conservatore in materia di costumi.
In un altro senso, questa re-islamizzazione che non si esprime più attraverso strutture politiche di parte, va oltre il campo politico – lo Stato, le elezioni – alla ricerca di una comunità di fede mitica e transnazionale, che si emancipa dal tessuto sociale, dalle frontiere e dalle radici culturali. E’ proprio questo, credo, che spiega il fervore di molti Algerini verso la questione palestinese, percepita oramai soprattutto come una posta per i musulmani.
E’ in questo contesto che i partiti islamisti « moderati » e autorizzati dallo Stato, hanno – dalla fine del decennio nero – e riescono a raccogliere un seguito estremamente modesto. Integrati nel gioco politico, essi si sono secolarizzati, impoveriti, squalificati. Il loro discorso legalista e mollemente conservatore non li distingue più davvero dagli altri partiti che partecipano al « sistema », mentre gli elettori non si aspettano più niente dai partiti islamisti. Alle ultime elezioni legislative del 2017, il partito MSP (che si ispira ai Fratelli Musulmani) ha ottenuto solo 330 000 voti, cioè 33 seggi all’Assemblea popolare nazionale.
E il FIS ? Per molti, il vero pericolo sarebbe la rinascita di un partito islamista radicale erede del FIS, sciolto e vietato dopo l’interruzione del processo elettorale del 1992. La popolarità dei video di uno dei suoi ex leader carismatici, Ali Belhadj, che circolano in Internet potrebbero lasciarlo pensare, come anche la relativa popolarità che circonda il fondatore del partito, Abassi Madani, che vive adesso in Qatar.
Tuttavia, questi segnali di opinione fanno più trasparire la simpatia di una frangia dei giovani algerini verso un discorso duro e senza mezzi termini, incorruttibile sulla corruzione e i soldi sporchi, per esempio, o la politica estera, piuttosto che l’aspirazione alla costruzione di uno Stato islamico che non è più in questione.
Per l’immensa maggioranza degli Algerini, il ricordo lancinante del decennio nero, del quale il FIS fu uno degli attori maggiori, basta a screditare qualsiasi forma di radicalismo che possa condurre, in un modo o nell’altro, a ripetere quella storia..
La politica di riconciliazione nazionale, varata con l’arrivo di Bouteflika al potere nel 1999, ha consentito, non senza imperfezioni né zone d’ombra, di voltare la pagina degli anni del terrorismo.
Per altri versi, ciò è testimoniato anche dal modesto numero di Algerini (circa 200) partiti per combattere in Siria quando Daesh era al suo massimo, dal 2013 al 2016, contrariamente ai Marocchini (1 600) e ai Tunisini (3 000).
E’ testimoniato anche dal fatto che Daesh, a parte il tragico assassinio dell’escursionista francese Hervé Gourdel nel 2014, non è mai veramente riuscita a istallarsi in Algeria, dove l’esercito combatte molto attivamente gli ultimi gruppi terroristi, molti dei cui membri proverrebbero da paesi stranieri.
Il gruppo terrorista al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI) è in uno stato fallimentare in Algeria. Secondo la giornalista Akhram Kharief, le perdite di AQMI in Algeria negli ultimi tre anni raggiungono i 600 uomini, tra cui recentemente il responsabile della propaganda dell’organizzazione nel Maghreb.
Nel 2017, Abdelmalek Droukdel, l’emiro di AQMI, riconosceva in “Inspire”, un organo di propaganda di Al Qaeda in inglese, che non erano riusciti a radicarsi in Algeria. « La fama e il numero dei mujaheddin crescono in Libia, nel Sahel e nel Sahara. Ad eccezione del fronte algerino, dove ci siamo impantananti in una lunga guerra. [Questo] fronte soffre della scarsezza, e talvolta dell’assenza quasi completa, di sostegno all’interno e all’esterno ».
Infine, ad eccezione dei moti di Ghardaïa, che si iscrivono in tutt’altra storia, nessuno dei movimenti di contestazione che si sono visti negli ultimi dieci anni ha avanzato o espresso rivendicazioni religiose estremiste.
Certo, il « governo » vigila e talvolta ha la mano pesante, come quando si tratta di smantellare correnti religiose dissidenti, sostenendo che si tratti di « sette », come per quella Ahmadiyya.
Deve però constarsi che, nonostante una fervente religiosità, la società algerina non mostra alcun indice premonitore di una qualsiasi forma di « deriva » verso una forma nuova e radicale di islam politico.
L’Algeria del 2018, come si vede, è in una situazione controversa, ma per nulla drammatica. La società algerina si è trasformata profondamente in questi venti anni, uscendo da un decennio che ha provocato un trauma fortissimo, i cui postumi restano impressi nel tessuto della società. Senza essere un paese ricco, l’Algeria non è nemmeno un paese povero, né tanto meno prossimo ad esplodere, ma un paese che continua, con grandi deficienze, a svilupparsi alla men peggio in un ambiente regionale per lo meno destabilizzante.