Crisi Siriana
Analisi della situazione in Siria
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Le Grand Soir, 27 agosto 2012 (trad. Ossin)
Analisi della situazione in Siria
Alain Chouet
Invitato dall’Associazione Regionale Nice-Cote d’Azur dell’IHEDN (Institut des hautes études de défense nationale) il 27 giugno 2012, Alain Chouet, ex capo dei servizi di informazione della DGSE, conosciuto ben oltre i confini della Francia per la sua conoscenza del mondo arabo-mussulmano, ci consegna qui un punto di vista interessante e caustico
Le peggiori congetture formulate nel primo semestre del 2011 a proposito dei movimenti di rivolta arabi diventano oggi realtà. Io le avevo esposte ampiamente in diverse opere e riviste in termini contro-corrente rispetto ad una opinione pubblica occidentale generalmente entusiasta e soprattutto ingenua. Perché bisognava davvero essere ingenui per credere che, in paesi soggetti da mezzo secolo a dittature che hanno eliminato ogni forma di opposizione liberale e pluralista, la democrazia e la libertà potessero spuntare come il genio della lampada solo per merito di Internet, cui ha accesso solo un’infima minoranza di privilegiati di queste società.
Una volta esauriti il fervore libertario e l’agitazione dei seguaci di Facebook, ci si è dovuti arrendere davanti all’evidenza. Il potere è caduto nelle mani delle uniche forze politiche strutturate che erano sopravvissute alle dittature nazionaliste in quanto sostenute, finanziariamente, dalle petro-monarchie teocratiche delle quali condividono i valori e, politicamente, dagli Occidentali in quanto costituivano uno scudo contro l’influenza del blocco dell’est: le forze religiose fondamentaliste. E la “primavera araba” ci ha messo solo sei mesi a trasformarsi in “inverno islamista”.
In Tunisia e in Egitto i partiti islamisti, Fratelli Mussulmani ed estremisti salafisti, si dividono confortevoli maggioranze nei Parlamenti venuti fuori dalle rivolte popolari. Cogestiscono la situazione coi comandi militari, dei quali sono costretti a rispettare il ruolo di attori economici dominanti, ma si dimenticano subdolamente delle rivendicazioni popolari che li hanno portati al potere. Costanti nella loro pratica di ambiguità, fanno esattamente il contrario di quello che predicano. In Egitto, dopo avere affermato in piazza Tahrir nella primavera del 2011 che non aspiravano in alcun modo al potere, rivendicano oggi la presidenza della Repubblica, la maggioranza parlamentare e tutto il potere politico.
In Tunisia, e dopo avere ufficialmente rinunciato a includere la sharia nella costituzione, vanno organizzando nelle province e città di media importanza, fuori dalla sfera di attenzione dei media occidentali, dei comitati di vigilanza religiosa per fare applicare regolamenti ispirati alla sharia. Questo movimento investe progressivamente le città più importanti e perfino le capitali, dove si moltiplicano i divieti di tutti i tipi, la censura degli spettacoli e della stampa, la limitazione delle libertà fondamentali e, ovviamente, dei diritti delle donne e delle minoranze non sunnite.
E queste forze politiche reazionarie non hanno niente da temere dalle prossime scadenze elettorali. Ampiamente finanziate dall’Arabia Saudita e dal Qatar, per le quali esse costituiscono una garanzia di sottomissione nel mondo arabo, hanno tutti i mezzi per comprare le coscienze e crearsi le clientele che perpetueranno la loro dominazione in un paesaggio politico diviso, senza mezzi, del quale sarà facile denunciare l’ispirazione straniera e dunque empia.
La Libia e lo Yemen sono sprofondati nella confusione. Dopo che le forze della NATO, andando molto oltre il mandato conferito loro dall’ONU, hanno distrutto il regime del poco raccomandabile colonnello Gheddafi, il paese si trova abbandonato agli appetiti di bande e tribù rivali ben decise a difendere con le armi le loro riserve locali e i loro profitti. L’effimero “Consiglio Nazionale di Transizione”, portato alle stelle dall’ineffabile Bernard Henri Levy, sta per dissolversi sotto i colpi dei capi delle gang islamiste, tra cui diversi ex adepti di Al Qaida, sostenuti e finanziati dal Qatar che intende bene avere voce in capitolo in tutti gli accordi e avere la sua parte nello sfruttamento delle risorse petrolifere del paese.
Quanto al regime siriano stesso, sono convinto che sia un regime autoritario, brutale e chiuso. Ma il regime siriano non è la dittatura di un solo uomo, e neppure di una famiglia, come lo erano i regimi tunisino, egiziano, libico o iracheno. Esattamente come suo padre, Bachar el-Assad è solo la parte visibile di un iceberg comunitario complesso e le sue eventuali dimissioni non cambierebbero nulla della realtà dei rapporti di potere e di forza nel paese. Ci sono dietro di lui 2 milioni di Alauiti ancora più decisi di lui a battersi per la loro sopravvivenza e diversi milioni di minoranze che avrebbero tutto da perdere se il potere dovesse cadere nelle mani degli islamisti, sola evoluzione politica che l’Occidente sembra incoraggiare e promuovere nella regione.
Quando sono andato per la prima volta in Siria nel 1966, il paese era ancora politicamente dominato dalla sua maggioranza mussulmana sunnita che controllava tutte le leve economiche e sociali. E i borghesi sunniti acquistavano ancora – qualche volta con contratto notarile – ragazzi e ragazze della comunità alauita che utilizzavano come veri e propri schiavi a vita, manovalanza agricola e nell’edilizia i ragazzi, buone a fare tutto le ragazze.
Gli Alauiti sono una comunità sociale e religiosa perseguitata da più di mille anni. Ne darò una descrizione rapida e schematica che scandalizzerà senz’altro gli esperti, ma ci manca il tempo per una esposizione esaustiva.
Emersi nel X secolo alle frontiere dell’impero arabo e dell’impero bizantino da una lontana scissione dello sciismo, essi praticano una sorta di sincretismo mistico complicato che condivide elementi dello sciismo, elementi del panteismo ellenico, del mazdaismo persiano e del cristianesimo bizantino. Si definiscono col nome di Alauiti – vale a dire i partigiano di Ali, il genero del profeta – quando vogliono essere considerati mussulmani e col nome di Nosairi – dal nome di Ibn Nosair, il mistico sciita che ha fondato la loro corrente – quando vogliono distinguersi dai Mussulmani. E, di fatto, sono così lontani dall’islam come potrebbero esserlo gli sciamanici della Siberia.
E questo non ha portato loro fortuna… Per tutte le religioni monoteiste rivelate, non c’è peggior crimine dell’apostasia. Gli Alauiti vengono considerati dall’islam sunnita come i peggiori apostati. Ciò ha valso loro nel XIV secolo una fatwa del giureconsulto salafista Ibn Taymiyya, l’antesignano dell’attuale wahabismo, che prescriveva la loro sistematica persecuzione e il genocidio. Per quanto Ibn Taymiyya sia considerato un esegeta non autorizzato, la sua fatwa non è stata mai messa in discussione ed è ancora attuale, soprattutto tra i salafisti, i wahabiti e i Fratelli Mussulmani. Braccati e perseguitati, gli Alauiti hanno dovuto rifugiarsi nelle aride montagne costiere tra il Libano e l’attuale Turchia, conferendo alla loro fede un carattere ermetico e esoterico, autorizzandosi alla dissimulazione e alla menzogna, per poter sfuggire ai loro torturatori.
Hanno dovuto attendere la metà del XX secolo per prendersi la rivincita. Sottomessi alle occupazioni militari straniere da secoli, i borghesi mussulmani sunniti siriani hanno commesso il classico errore dei parvenu quando conquistarono l’indipendenza nel 1943. Considerando il mestiere militare poco remunerativo e ritenendo che l’istituzione militare fosse un mediocre strumento di promozione sociale, non hanno voluto che i loro figli si arruolassero. Risultato: hanno abbandonato la nascente istituzione militare del nuovo Stato ai poveri, vale a dire alle minoranze: Cristiani, Ismaeliti, Drusi, Sciiti e soprattutto Alauiti. E quando si affida il controllo dell’esercito ai poveri e ai perseguitati, si corre il rischio quasi certo che essi ne approfittino per rubare ai ricchi e vendicarsi di loro. E’ esattamente quanto è successo in Siria a partire dagli anni 1960.
Negli anni 1970, Hafez el-Assad, nato in una delle più modeste famiglie della comunità alauita, diventato capo dell’aeronautica e poi ministro della difesa, si è impadronito del potere con la forza per realizzare la rivincita ed assicurare la protezione della minoranza cui la sua famiglia appartiene e delle minoranze alleate – Cristiani e Drusi – che lo avevano aiutato nella sua presa del potere. Si è poi impegnato metodicamente ad assicurare a queste minoranze – alla propria in particolare – il controllo di tutte le leve politiche, economiche e sociali del paese coi metodi e i mezzi autoritari dei quali potrete trovare una dettagliata descrizione in un articolo apparso quasi vent’anni fa.
Di fronte alla crescita del fondamentalismo che si espande con il concorso di tutti i rivolgimenti attuali del mondo arabo, il suo successore si ritrova, come gli ebrei in Israele – con le spalle al mare e la sola alternativa di vincere o morire. Agli Alauiti si sono affiancate nella resistenza le altre minoranze religiose della Siria, Drusi, Sciiti, Ismaeliti e soprattutto Cristiani di tutte le obbedienze, ammaestrati dal destino dei loro fratelli iracheni e dei Copti egiziani.
Perché, contrariamente alla litania propagandata dai benpensanti che affermano che “se non si interviene in Siria il paese sprofonderà nella guerra civile”… ebbene no, il paese non sprofonderà nella guerra civile. Il paese è in guerra civile dal 1980, quando un commando dei Fratelli Mussulmani si è introdotto nella scuola dei cadetti dell’esercito di Aleppo, ha accuratamente fatto una cernita degli allievi ufficiali sunniti e alauiti ed ha massacrato 80 cadetti alauiti con coltelli e baionette in applicazione della fatwa di Ibn Taymiyya. I Fratelli Mussulmani l’hanno pagata cara nel 1982 a Hama – feudo della confraternita – che lo zio dell’attuale presidente ha metodicamente raso al suolo, provocando tra i 10.000 e i 20.000 morti. Ma le violenze intercomunitarie non sono mai cessate nel periodo successivo, anche se il regime ha fatto di tutto per nasconderlo.
Allora, proporre agli Alauiti e alle altre minoranze non arabe o non sunnite di Siria di accettare delle riforme che porterebbero gli islamisti salafisti al potere è come proporre agli Afro-Americani di tornare alla situazione precedente alla guerra di secessione. Si batterebbero, selvaggiamente, contro una simile prospettiva.
Poco abituato alla comunicazione, il regime siriano ne ha lasciato il monopolio all’opposizione. Ma non ad una qualunque opposizione. Perché vi sono in Siria degli autentici democratici liberali aperti al mondo, che non sopportano l’autoritarismo del regime e che auspicavano una apertura politica da parte di Bachar el-Assad. Hanno ottenuto da lui solo degli spazi di libertà economica in cambio di una rinuncia alle rivendicazioni politiche. Ma questi sono troppo dispersi, senza mezzi e senza appoggi. Non hanno parola e sono considerati inascoltabili dai media occidentali giacché, per la maggior parte, non fanno parte della schiera che reclama il linciaggio mediatico del “dittatore” come è accaduto in Libia.
Se vi informate sulla Siria attraverso i media scritti e audiovisivi, soprattutto in Francia, avrete sicuramente constatato che tutte le informazioni concernenti la situazione hanno come fonte l’Osservatorio siriano per i diritti dell’uomo (OSDH) o più laconicamente ONG, ciò che è lo stesso giacché l’ONG in questione è sempre l’Osservatorio siriano per i diritti dell’uomo.
L’Osservatorio siriano per i diritti dell’uomo è una denominazione che suona bene alle orecchie occidentali, delle quali è diventata la fonte di informazione privilegiata, addirittura unica. Esso tuttavia non ha niente a che vedere con la rispettabile Ligue internationale des droits de l’homme. Si tratta infatti di una emanazione dell’Associazione dei Fratelli Mussulmani ed è diretto da militanti islamisti alcuni dei quali sono stati già condannati per attivismo violento, particolarmente il suo fondatore e primo presidente, il signor Ryadh el-Maleh. L’OSDH si è istallata alla fine degli anni 1980 a Londra sotto la guida benevola dei servizi anglo-sassoni e opera quasi esclusivamente con fondi sauditi e adesso anche del Qatar.
Non intendo assolutamente affermare che le informazioni provenienti dall’OSDH siano false ma, tenuto conto della genesi e dell’orientamento politico partigiano di questa organizzazione, resto sorpreso del fatto che i media occidentali, e in particolare quelli francesi, se ne servano come fonte unica senza nemmeno tentare di verificare quello che dice.
Secondo favorito dei media e dei politici occidentali, il Consiglio nazionale siriano, creato nel 2011 a Istanbul sul modello del CNT libico ad iniziativa non dello Stato turco, ma del partito islamista AKP. Con l’obiettivo di federare tutte le forze di opposizione al regime, il CNS ha rapidamente annunciato il colore. Nel senso proprio del termine… La bandiera nazionale siriana è formata da tre strisce orizzontali. Una di colore nero che era quello della dinastia degli Abbasidi che ha regnato sul mondo arabo dal 9° al 13° secolo. L’altra di colore bianco per ricordare la dinastia degli Omayyadi che ha regnato dal 7° all’8° secolo. Infine la terza, di colore rosso, tenuta a rappresentare le aspirazioni socialiste del regime. Fin dalla sua creazione, il CNS ha sostituito la striscia rossa con quella verde dell’islamismo, come potete vedere nelle immagini delle manifestazioni contro il regime durante le quali si sente gridare “Allah akbar”, piuttosto che slogan democratici.
Detto questo, lo spazio predominante riservato ai Fratelli mussulmani all’interno del CNS da parte dell’AKP turco e dal Dipartimento di Stato USA ha finito con l’esasperare quasi tutti. La Siria non è la Libia e le minoranze che rappresentano un buon quarto della popolazione intendono avere voce in capitolo, anche nella opposizione. Durante una visita di una delegazione di oppositori curdi siriani a Washington nello scorso aprile, le cose sono andate molto male. I Curdi sono mussulmani sunniti ma non Arabi. E in quanto non Arabi, sono condannati ad uno stato di inferiorità dai Fratelli Mussulmani. Venuti a lamentarsi col Dipartimento di Stato della loro emarginazione in seno al CNS, si sono sentiti rispondere che dovevano sottomettersi all’autorità dei Fratelli Mussulmani o sbrogliarsela da soli. Rientrati a Istanbul molto arrabbiati, si sono coalizzati con altri oppositori di minoranza per sfiduciare il presidente del CNS, Bourhan Ghalioum, totalmente infeudato ai Fratelli Mussulmani, e sostituirlo con un Curdo, Abdelbasset Saida che farà quello che potrà – vale a dire non molto – per non perdere né l’ospitalità degli islamisti turchi, né il sostegno politico dei neo-conservatori USA, né soprattutto il sostegno finanziario dei Sauditi e dei Qatariani.
Tutto ciò provoca disordine, certo, ma è soprattutto rivelatore dell’orientamento che gli Stati islamisti sostenuti dai neo-conservatori USA intendono dare ai movimenti di contestazione nel mondo arabo.
E non sono evidentemente simili evidenze che possono rassicurare le minoranze di Siria e incitarle alla riconciliazione e alla moderazione. Le minoranze Siriane – in particolare gli Alauiti che controllano gli apparati di sicurezza dello Stato – sono minoranze inquiete per la loro sopravvivenza che difenderanno con la violenza. Fare uscire il presidente siriano di scena può al massimo avere un valore simbolico ma non cambierà nulla del problema. Non è lui l’obiettivo, non è lui in discussione, è tutta la sua comunità che si mostrerà ancora più violenta e aggressiva se perderà i propri riferimenti e i propri capi. Più il tempo passa, più la comunità internazionale vorrà esercitare pressioni sulle minoranze minacciate, più le cose andranno assumendo l’aspetto della guerra civile libanese che ha insanguinato il paese dal 1975 al 1990.
Sarebbe forse stato possibile alla comunità internazionale cambiare i dati del problema un anno fa, esigendo dal governo siriano delle riforme liberali in cambio di una protezione internazionale assicurata alle minoranze minacciate. E poiché l’Arabia e il Qatar – due monarchie teocratiche ispirate al wahabismo – sono teoricamente nostri amici e nostri alleati, avremmo potuto chiedere loro di dichiarare la fatwa di Ibn Taymiyyah superata, nulla e inesistente al fine di calmare le acque. Niente di tutto ciò è stato fatto. A queste minoranze siriane minacciate l’Occidente, Francia in testa, ha offerto solo la condanna senza appello e l’anatema talvolta isterico provocando dappertutto – politicamente e talvolta militarmente – la presa del potere da parte degli islamisti e la supremazia degli Stati teocratici che praticano il salafismo politico.
Sbarazzatesi dei tenori indubbiamente poco virtuosi del nazionalismo arabo, di Saddam Hussein, di Ben Ali, di Mubarak e di Gheddafi, al riparo dalla critiche dell’Iraq, dell’Algeria e della Siria, invischiate nei loro conflitti interni, le teocrazie petroliere sono riuscite agevolmente ad assumere, coi loro petrodollari il controllo della Lega araba ed a renderla uno strumento di pressione sulla comunità internazionale e l’ONU a favore di movimenti politici fondamentalisti che sostengono la loro legittimità e li pongono al sicuro da ogni forma di contestazione democratica.
Che le monarchie reazionarie difendano i loro interessi e che le forze politiche fondamentaliste cerchino di impossessarsi di quel potere cui aspirano da quasi un secolo non è particolarmente sorprendente. Più strano appare invece lo zelo occidentale nel favorire dappertutto le imprese integraliste ancora meno democratiche delle dittature alle quali si sostituiscono e ad esporre sulle Gemonie coloro che vi resistono.
Pronto a condannare l’islamismo a casa propria, l’Occidente si ritrova a incoraggiarne le manovre nel mondo arabo e mussulmano. La Francia, che non ha esitato ad impegnare tutta la sua forza militare per eliminare Gheddafi a vantaggio degli Jihadisti e ad invitare tutta la comunità internazionale a fare altrettanto con Bachar al-Assad, assiste senza reagire allo smembramento del Mali da parte di orde criminali che si definiscono islamiste solo perché i loro rivali politici non lo sono.
Allo stesso modo i media e le politiche occidentali hanno assistito senza protestare alla repressione sanguinosa coi carri armati sauditi e degli emirati delle contestazioni in Bahrein, paese a maggioranza sciita governato da un autocrate reazionario sunnita. Allo stesso modo i ripetuti massacri dei cristiani nigeriani da parte delle milizie di Boko Haram non suscitano alcun interesse nei media e ancor meno la condanna dei nostri politici. Quanto al rapimento ed al sequestro prolungato di quattro membri della Corte Penale internazionale da parte di “rivoluzionari” libici, è stata trattata con tono sommesso ed è passata quasi inavvertita nei nostri media dei quali immaginiamo l’esplosiva indignazione se questo rapimento fosse stato effettuato dalle autorità siriane, algerine o di qualche altro paese non ancora “rientrato nei ranghi” delle “democrature”, vale adire le dittature islamiste uscite dalle urne.
Se non la logica, almeno la ragione e la morale ci invitano a interrogarci su questa curiosa schizofrenia dei nostri politici e dei nostri media. Il futuro ci dirà se la nostra fascinazione infantile per il neo-populismo veicolato da Internet e se gli investimenti massicci del Qatar e della Arabia Saudita nelle nostre economie in crisi valgano la compiacenza di fronte alla crescita di una barbarie dalla quale avremmo torto a consideraci al riparo.