Crisi Siriana
Turchia, Siria, Iraq: le linee mobili
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Cf2R (Centre Français de Recherche sur le Renseignement), 4 agosto 2015 (trad. ossin)
Turchia, Siria, Iraq: le linee mobili
Alain Rodier
I bombardamenti dell’aviazione turca, cominciati il 25 luglio contro postazioni dello Stato Islamico (IS) e del PKK, il movimento separatista curdo di ispirazione marxista-leninista, costituiscono un reale cambiamento su scala regionale. Non è tanto che gli attacchi siano particolarmente efficaci. Infatti la coalizione bombarda a tappeto Daech da un anno senza riuscire a indebolire sufficientemente questo movimento salafita-jihadista. Tutti gli specialisti sanno che, per quanto l’uso della terza dimensione sia importantissimo in un conflitto asimmetrico, il fuoco aria-suolo ha però un valore solo relativo se non vi sono truppe di terra che sappiano sfruttarlo
Le perdite non dovrebbero essere molto significative tra i ranghi di Daech e del PKK, due movimenti che hanno imparato a dissimularsi tra la popolazione e a proteggersi. Per contro, ancora una volta, sono i civili ad essere le vittime principali. Questi attacchi tuttavia accompagnano altre misure che dimostrano un mutamento radicale del pensiero politico al vertice dello Stato. E questo dovrebbe modificare considerevolmente le linee in Medio Oriente nei mesi che verranno.
Verso una evoluzione della situazione?
Il fatto che gli Statunitensi siano stati autorizzati a usare le basi aeree turche di Incirlik (Adana), di Batman e di Diyabakir per lanciare attacchi aerei in Siria e in Iraq è molto importante. Le missioni aeree dovrebbero diventare un po’ più efficaci. Infatti gli apparecchi potranno trattenersi sulla zona più a lungo, a motivo della riduzione delle distanze di viaggio. Quindi se si scopre un bersaglio, potrà essere trattato più rapidamente prima che riesca a nascondersi. Cosa che possono fare solo degli aerei che battano continuamente la zona.
L’aviazione statunitense si prepara dunque ad appoggiare più da vicino le forze curde che si battono sul campo contro Daech: i peshmerga dell’Iraq del nord e le Unità di Protezione del Popolo (YPG) che dipendono dal Partito di Unione Democratica (PYD), vicino al PKK. Ankara si rifiuta di appoggiare le unità curde – e soprattutto il YPG, considerato “terrorista” a causa dei suoi rapporti col PKK – non fidandosi per niente di loro.
Il secondo punto fondamentale che dovrebbe cambiare le cose in Siria è l’istituzione di una “zona tampone” su una parte del nord del paese (tra l’Eufrate, a est, e la città di Azaz, a ovest), separando di fatto delle zone che sono sotto il controllo delle forze curde siriane. L’ossessione della Turchia è che possa crearsi una entità curda che occupi tutta la frontiera turco-siriana, un po’ come è avvenuto nel nord Iraq,
Era molto tempo che Ankara chiedeva l’istituzione di una simile zona e sembra che finalmente essa sia stata messo a verbale con Washington, anche se le due parti restano evasive sugli accordi conclusi. Le conseguenze sono assai importanti. L’aviazione governativa siriana non potrà più avventurarsi in quell’area – ciò che peraltro già accadeva da qualche tempo – e potranno esservi delle incursioni terrestri delle forze speciali statunitensi o turche. Una parte dei due milioni di rifugiati siriani, oggi accolti dalla Turchia, vi potranno essere dislocati, ciò che comporta la realizzazione di immensi campi sotto il controllo internazionale.
Soprattutto, i movimenti ribelli che si oppongono all’IS ed a Bachar el Assad potranno beneficiare di un “pied à terre sicuro” in territorio siriano. Il problema che si pone è: quali forze ribelli? Il pensiero corre immediatamente all’Esercito della Conquista (Jaish al.Fatah), innestatosi sul preesistente Fronte al-Nosra – il braccio armato di Al Qaeda in Siria – e sostenuto dall’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia. Questi tre paesi fanno di tutto perché questa coalizione di movimenti islamici radicali possa diventare in breve tempo un interlocutore presentabile sulla scena internazionale. Il Fronte al-Nosrra è stato anche invitato a rompere i suoi legami con Al Qaeda “centrale”, cosa che Al-Joulani, il suo capo, ha categoricamente escluso. Egli ha in ogni caso dichiarato che i suoi uomini non compiranno atti terroristi contro gli Occidentali, ma con una sfumatura importante quando ha precisato; “salvo che l’ordine non provenga” dall’emiro di Al Qaeda, il dottor Al-Zawahiri.
Infine gli attacchi turchi contro il PKK suscitano i sospetti dei Curdi siriani, i quali chiedono alla comunità internazionale di chiarire la propria posizione sul punto. Infatti il PKK e il suo alleato l’YPG sono le forze che si sono opposte con più tenacia a Daech. E’ logico che essi si interroghino su come comportarsi di fronte al mutamento di atteggiamento da parte di Ankara.
Abdullah Ocalan
La strategia di Erdogan e le tensioni interne in Turchia
Il presidente Recep Tayyp Erdogan, le cui ambizioni personali sono smisurate, persegue oggi quattro obiettivi:
- Abbattere il governo siriano di Bachar el-Assad, che è stato sempre avversario dei Fratelli Mussulmani, e non dimenticando il simbolo che questo paese rappresenta nella caduta dell’Impero ottomano;
- Emarginare i Curdi siriani e il PKK;
- Neutralizzare politicamente il partito filo-curdo HDP che ha fatto ingresso in parlamento con 80 deputati dopo avere ottenuto il 13% di voti alle ultime elezioni legislative del 2015 (1)
- Salvaguardare la Turchia da possibili crisi interne, eliminando il pericolo rappresentato da Daech e dai suoi adepti turco-curdi e combattendo il PKK, particolarmente bombardando le sue basi di retroguardia, situate nell’Iraq del nord.
Su quest’ultimo punto, le cose non sono affatto chiare. Vi saranno altri attentati in Turchia ad opera di Daech. Da parte sua, il PKK, che si sente – giustamente – tradito da Erdogan, è oramai affrancato dagli impegni del cessate il fuoco. Solo poche ore dopo i primi raid dell’esercito turco, i ribelli hanno dichiarato la fine della tregua che osservavano dal 2013. “Sono venute meno le condizioni del cessate il fuoco (…) Di fronte a queste aggressioni, noi abbiamo il diritto di difenderci”, hanno dichiarato le Forze di Difesa del Popolo (HPG), il ramo militare del PKK. Quindi hanno lanciato degli attacchi di rappresaglia in Turchia contro poliziotti, che hanno provocato decine di morti.
I gruppuscoli di estrema sinistra – come il DHKP-C – tradizionalmente violenti in Turchia, intendono anch’essi approfittarne per dare il loro “tocco personale”. Consapevole del rischio di poter innescare una serie di attentati terroristi sul suo suolo, Ankara ha fatto arrestare più di un migliaio di sospetti, accusati di appartenere a Daech, al PKK o a gruppi di estrema sinistra.
Gli attentati che vi sono stati in Turchia, in particolare quello di Suruç del 20 luglio 2015 (32 morti) non sono stati “importati” da Daech dalla Siria. Sembra debbano piuttosto attribuirsi a cittadini turco-curdi che si oppongono al governo di Ankara e ai separatisti del PKK. Questi hanno sposato l’islam radicale come ideologia, ma Erdogan, per quanto sia un Fratello Mussulmano, non tollera più questo attivismo politico-religioso che contesta la sua autorità e quella del suo partito, l’AKP.
Il problema dell’islam radicale non è nuovo in Turchia. Lo Hezbollah turco (Turk Hizbullahi, da non confondere col suo omologo libanese) è una organizzazione islamica radicale curda, creata col sostegno dei servizi di intelligence della gendarmeria turca (Jandarma Istihhbarat ve Terorle Mucadelel/JITEM) negli anni 1980 per opporsi al PKK. Ne è seguita una sporca guerra che ha visto schierati, da un lato, Hezbollah turco e i “guardiani di villaggio” – unità che avrebbero dovuto proteggere le popolazioni del sud-est anatolico dalle angherie dei separatisti – sostenuti dall’esercito, e il PKK dall’altro.
Ma la “creatura” dei servizi turchi è sfuggita al controllo dei suoi creatori e il Turk Hizbullahi è entrato nel mirino delle autorità a partire dagli anni 2000. Comunque le cose cominciavano a deteriorarsi. Nel 2012 nasceva il partito Huda-Par, fondato da alcune associazioni curde islamiste radicali. Si opponeva sia al governo di Ankara che al PKK. Tra le frange estreme di questo, alcuni gruppi sono entrati in clandestinità e sono passati alla lotta armata, provocando centinaia di vittime in occasione di vari attentati perpetrati contro il Partito democratico dei popoli (HDP), vicino alla causa curda, come verosimilmente quello di Suruç. In quest’ultimo caso, il bersaglio era simbolico: dei giovani turchi socialisti e dei Curdi che intendevano impegnarsi nella ricostruzione di Kobane.
In vista delle elezioni anticipate che dovrebbero tenersi in novembre, il presidente Erdogan tenta di guadagnarsi le estreme. Nel momento in cui colpisce i salafiti-jihadisti di Daech, che godono di un certo seguito in Turchia (2), deve fare lo stesso coi “separatisti” del PKK. Infatti ha interesse a dare soddisfazione ai nazionalisti di estrema destra e agli islamisti radicali, colpendo i marxisti-leninisti separatisti del PKK, che essi aborrono.
Oltre a questi estremisti, anche i due grandi partiti di opposizione, il VHP (3) Kemalista e il MHP nazionalista, sono contrari alla politica di mani tese al PKK, avviata più di tre anni fa, attraverso la mediazione di Abdullah Ocalan, il capo storico, detenuto nell’isola di Imrali. Per quanto detenuto, egli gode ancora di grande influenza ideologica tra gli attivisti del movimento separatista curdo. Ma da tre mesi è stato rimesso in isolamento e nessuna delegazione del HDP, che assicurava i rapporti col PKK – da cui le attuali accuse di collusione con un movimento terrorista – ha ottenuto più l’autorizzazione di rendergli visita.
L’AKP, il partito del presidente Erdogan, conta di prendersi la rivincita nelle prossime elezioni (4), presentandosi come l’unica forza capace di garantire l’unione nazionale e di farsi carico delle sfide securitarie cui il paese è esposto. Ottenere la maggioranza assoluta escludendo il HDP con delle inchieste giudiziarie, gli permetterebbe di riformare la Costituzione secondo le aspirazioni di Erdogan: passare ad un regime presidenziale.
Per quanto riguarda il PKK, sul piano puramente tecnico, l’impresa appare più facile per Ankara, giacché si tratta di un avversario antico per l’esercito turco, che lo combatte da decine d’anni. Detto ciò, nonostante gli altisonanti annunci di neutralizzazione di centinaia di attivisti del PKK attraverso gli attacchi aerei – la maggior parte dei quali sono stati nell’Iraq del nord -, conviene mantenersi prudenti circa questi bilanci considerevolmente gonfiati per ragioni di propaganda interna (5).
Lo Stato Maggiore del PKK si trova lungo i pendii del monte Qandil, vicino alla frontiera Iraq-Iran. Tutte le operazioni militari che le forze armate turche possono eseguire nella regione vanno bene a Teheran. Infatti, nello stesso luogo si trovano anche i Curdi del PJAK, l’emanazione iraniana del PKK, una delle bestie nere di Teheran. Il PKK non si è ingannato e, per rappresaglia, ha sabotato il gasdotto che unisce l’Iran alla Turchia nella regione di Agri.
Più sorprendente la reazione di Massoud Barzani, il presidente del governo regionale curdo dell’Iraq del nord. Secondo l’AFP, avrebbe dichiarato: “Il governo turco ha fatto dei passi positivi (…) in vista di una soluzione pacifica, tuttavia abbiamo notato che qualcuno (del PKK) non ha colto queste opportunità per orgoglio”. Ha inoltre chiesto al PKK di lasciare il paese per evitare perdite civili (6). Ha tuttavia chiamato il Primo Ministro Ahmet Davutoglu, per fargli parte della propria “insoddisfazione per la pericolosità della situazione”. Secondo lui, l’escalation deve cessare: “La pace è il solo modo di risolvere i problemi, e anni di negoziati valgono più di un’ora di guerra”, ha aggiunto.
La strage di Suruç
Conclusioni
Per cercare di capire l’atteggiamento di Ankara, occorre conoscere l’atteggiamento dei Turchi in Medio Oriente: condiscendenza nei confronti dei paesi arabi (eredità del vecchio complesso dell’Impero ottomano) ed equilibrio coi Persiani. Durante le “rivoluzioni arabe” del 2011, Erdogan, allora Primo Ministro, ha pensato che era finalmente giunto il suo momento. Come Fratello Mussulmano, guardava con soddisfazione la presa del potere da parte del movimento in Egitto, in Tunisia e, sottobanco, anche in Libia. Era certo che anche il governo di Bachar el-Assad sarebbe caduto per fare posto ai Fratelli Mussulmani. Dimenticata l’antica amicizia con la famiglia Assad, l’unico suo obiettivo diventò quello di partecipare all’insurrezione in Siria, sostenendo tutti i movimenti di opposizione, senza andare troppo per il sottile sulle loro motivazioni e le diverse ispirazioni religiose. L’obiettivo era chiaro: la Turchia, governata sotto banco dai Fratelli Mussulmani, avrebbe rinnovato la sua tradizione di influenza, avendo la meglio sull’Arabia Saudita e l’Iran, l’Iraq e la Siria oramai considerate fuori gioco. Inoltre Erdogan contava fermamente sull’appoggio del grande alleato statunitense e dell’Europa. Quale non è stata la sua delusione nel vedere i Fratelli cacciati dal potere in Egitto e in Tunisia, emarginati in Libia e il presidente Assad dimostrare una capacità di resistenza non prevista. Più ancora, quando gli Statunitensi e gli Europei hanno rinunciato a proseguir e negli aiuti ai movimenti ribelli siriani – a causa della crescita di Daech -, la Turchia si è trovata isolata. Però, dopo l’attentato di Suruç e la sua reazione – giustificata contro Daech ma meno digeribile nei confronti del PKK – Ankara si ritrova ad essere sostenuta incondizionatamente dall’ONU e dalla NATO nella sua “lotta contro il terrorismo”, senza che troppe voci si levino per ricordare la sorte dei Curdi. Che cosa Ankara ha dovuto cedere per ottenere una tale unanimità?
Se in bombardamenti turchi hanno carattere più simbolico che operativo, i risultati tattici restano assai limitati, segnano però una svolta importante destinata a segnare l’opinione pubblica turca per tentare di unirla in un “dovere patriottico” dietro il suo presidente soprannominato dai suoi oppositori il “nuovo califfo”.
I perdenti sono prima di tutto i Curdi, il processo di pace essendo oramai chiuso e i leader del partito HDP che rappresenta la loro causa, sottoposti a procedimenti giudiziari per ordine di Erdogan; l’altra vittima di questo rivolgimento è il governo di Bachar el-Assad che perde ufficialmente il controllo sul nord della Siria. La sua prossima sconfitta potrebbe essere la battaglia di Aleppo che potrebbe essere vinta dall’Esercito della Conquista. L’ultimo perdente infine è Daech che non può più contare sulle antiche facilitazioni logistiche in Turchia. Come si vede, l’espressione “politica bizantina” resta d’attualità.
Note:
[1] Per ottenere ciò, Erdogan ricorre ad una tattica rodata: trascinare davanti ad una Giustizia ai suoi ordini le persone di cui si vuole liberare. Così è stato, in ordine di tempo, per i quadri dell’esercito, della polizia, del movimento Gülen e, paradosso estremo, anche di una parte dello stesso corpo giudiziario!
[2] Almeno 1.000 volontari, per metà Turchi di origine curda, operano nei ranghi dello Stato Islamico (IS). Così si spiega come i combattenti di IS trovino accoglienza ed assistenza presso le loro famiglie che vivono in territorio turco. Il resto si deve anche alla tradizionale propensione dei funzionari per il contrabbando e la corruzione.
[3] E’ possibile il varo di una coalizione di governo tra l'AKP e questo partito.
[4] Soprattutto sul HDP che gli aveva impedito, con il successo ottenuto, di raggiungere la maggioranza assoluta in parlamento.
[5] A titolo di esempio, l’esercito francese e i suoi alleati saheliani hanno neutralizzato, coi bombardamenti e le operazioni di terra, 70 terroristi in un anno.Gli attacchi aerei turchi avrebbero ucciso più di 260 ribelli in una sola settimana!
[6] Esclusa la possibilità di rifugiarsi in Siria, ci si chiede dove gli attivisti del PKK potrebbero andare: tornare in Turchia, passare in Iran?