Crisi Siriana
La bufala dell’imminente sconfitta di Daesh
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Crisi siriana, agosto 2016 - Per cercare di distinguere quanto c’è di vero da quanto è solo propaganda, conviene analizzare la situazione così come viene percepita dai due campi
Cf2R (Centre Français de Recherche sur le Renseignement), 9 agosto 2016
La bufala dell’imminente sconfitta di Daesh
Alain Rodier
Molti annunci di vittorie nella guerra contro il gruppo Stato Islamico vengono regolarmente divulgati dai portavoce statunitensi, iracheni, siriani e libici. Gli ultimi in ordine di tempo riguardano la liberazione della città di Falluja, a ovest di Bagdad, l'assedio di Manbij, nel nord della Siria, e la progressiva liberazione di Sirte, in Libia. A voler credere alle dichiarazioni ufficiali, anche Raqqa e Mossul dovrebbero essere riconquistate nei prossimi mesi, e il presidente iracheno si è spinto fino al punto di predire la vittoria totale contro Daesh nel 2017 !
Anche la stampa rilancia questa propaganda. Così il 31 luglio si annunciava che «alcuni capi di Daesh e le loro famiglie hanno abbandonato Mossul», precisando che «hanno venduto la loro casa» senza rendersi conto che i dirigenti di Daesh non hanno certo bisogno di acquistare casa e che, in ogni caso, sarebbe stato loro difficile rivenderla per mancanza di compratori.
Per altro verso, vengono analizzati i prodotti mediatici dello Stato Islamico, alla ricerca di qualche mutamento di tono indicativo di un inizio di scoraggiamento. Infine circolano le stime più fantastiche sul territorio “perso” da Daesh, con carte e mappe a sostegno. Si tratta tuttavia per lo più di zone desertiche che non erano in realtà controllate da nessuno. Questa propaganda rientra nella guerra psicologica contro Daesh. Essa mira a demoralizzare l’avversario, a galvanizzare le truppe che lottano contro l’organizzazione terrorista, persuadendo pure le popolazioni locali e internazionali che il «vento di vittoria» alla fine ha mutato direzione.
Per cercare di distinguere quanto c’è di vero da quanto è solo propaganda, conviene analizzare la situazione così come viene percepita dai due campi. E’ per esempio interessante vedere alcuni ufficiali iracheni esibire una pinguedine assai strana per dei militari presentati come "superaddestrati" dagli istruttori stranieri, così come osservare i molti video del fuoco di appoggio (artiglieria, carri, mortai, cannoni, mitragliatrici, ecc). Sorge spontanea la domanda: su che cosa sparano gli Iracheni? Infatti è estremamente raro che questi martellamenti di artiglieria siano seguiti da un attacco che consenta di constatare quali siano state le perdite effettive dell’avversario. E’ peraltro vero che un video ha mostrato una grossa colonna di veicoli scappare da Falluja sotto il fuoco dell’aviazione irachena, a fine giugno[1].
Per contro, i film prodotti dai ribelli sono molto più eloquenti, anche se occorre esaminarli con tutte le precauzioni del caso. In Siria mostrano combattimenti ravvicinati, con l’uso di blindati, veicoli pesanti e leggeri, armamenti di ogni genere, e tutto ciò in pieno giorno, nonostante la minaccia aerea. E l'organizzazione mostra anche le perdite nemiche e talvolta addirittura un po’ le sue.
Daesh si preoccupa di tutelare i suoi effettivi e li impegna solo in minima parte nei combattimenti difensivi frontali. Ha una tattica molto mobile e non esita ad abbandonare il territorio se il rapporto di forze è sfavorevole o se la posizione non è considerata importante tatticamente o simbolicamente. In Iraq sembra che l’organizzazione non sferri più attacchi di grande ampiezza, essendosi rassegnata a condurre una guerra asimmetrica che impegni meno uomini e materiale.
La sua strategia può paragonarsi alla resistenza che le truppe napoleoniche hanno incontrato in Spagna (1810) o i Tedeschi in URSS (1941): ritirata di fronte a truppe numericamente superiori, rallentandone però l’avanzata con cecchini nascosti e trappole piazzate sul percorso, insieme ad azioni di guerriglia contro le linee logistiche avversarie che si allargano smisuratamente. Questa guerra di usura viene punteggiata da potenti contrattacchi – come nella regione di Homs queste estate – che demoralizzano l’avversario.
Oltre al fanatismo dei suoi combattenti, soprattutto delle truppe d’assalto, gli Inghimasiyyin – le specificità tattiche di Daesh prevedono un impiego generalizzato di veicoli suicidi lanciati da kamikaze sulle posizioni nemiche, azioni terroriste nelle retrovie, l’assassinio sistematico dei prigionieri e l’uso della popolazione come scudi umani. E sui due fronti siriano e iracheno, Daesh fa un uso intenso di missili anticarro, spesso impiegati come semplice arma d’appoggio. Si pone quindi la questione: dove l’organizzazione ha ottenuto queste armi e tante munizioni, giacché teoricamente nessuno più la sostiene all’estero?
Queste vittorie che non lo sono davvero...
Sul fronte siriano, la città di Palmira è stata evacuata da Daesh nel marzo 2016, quasi senza opporre resistenza, ma l’organizzazione ha poi attaccato la base aera di Shayrat, situata tra Homs e Palmira[2], a metà maggio, e poi ancora le linee logistiche a ovest della città. La guarnigione russo-siriana di Palmira si ritrova così in una posizione difficile e soprattutto nell’impossibilità di avanzare verso est, lungo l’autostrada M-20, attraverso il deserto siriano.
A Deir ez-Zor – il «piccolo Dien Bien Phu» siriano - la guarnigione comandata dal generale druso Issam Zahreddine – composta dalla 104a brigata della Guardia Repubblicana, dalla 137a brigata meccanizzata, da milizie, da elementi di Hezbollah libanese e della tribù sunnita Shaitat[3] è sottoposta da mesi ad una violenta pressione da parte di Daesh che è alle porte della base aerea. Se queste dovesse cadere, sarà difficile che la città riesca ancora a resistere a lungo ed è facile immaginare la sorte riservata ai difensori. A inizio luglio, civili fedeli al regime sono stati evacuati con elicotteri, ciò che non preannuncia nulla di buono.
L'offensiva lanciata il 3 giugno in direzione di Raqqa dalla 555a brigata di fanteria della 4° divisione meccanizzata e da diverse milizie – tra cui Liwaa Suqour Al-Sahra (I Falchi del deserto) – a partire da Hama è stata fermata da una controffensiva proveniente dalla base aerea di Tabqa sull’Eufrate, a sud del lago Assad, che era uno degli obiettivi di Damasco. La propaganda ufficiale tace il fatto che molte unità si sono sbandate pateticamente e che Daesh ne ha approfittato per respingere gli attaccanti oltre le posizioni di partenza e lanciare un’offensiva verso il sud di Aleppo, per tentare di tagliare le linee di comunicazione della guarnigione locale.
Dopo alcuni successi importanti seguiti all’intervento aereo russo dell’autunno 2015, le forze siriane si ritrovano oggi invischiate in combattimenti strada per strada ad Aleppo. Se sono riuscite ad assediare i quartieri della città tenuti dai terroristi, rischiano di essere però essi stessi accerchiati. Infatti l’unica via di approvvigionamento parte da Hama e si snoda lungo uno stretto corridoio che va da nord a sud attraverso Khanaser, Ithriya, Sheikh Hilal e As San. A più riprese, le forze di Daesh, talvolta insieme a Jund Al-Aqsa e al Harakat Ahrar Al-Sham, sono riuscite a tagliare questo asse all’altezza di Khanaser, o di Sheikh Hilal, ad una sessantina di chilometri a est di Hama. Per parte loro, la coalizione Jaysh al-Fateh insieme al Fronte Fateh al-Cham (ex-Front al-Nusra), ad Ahrar al-Cham, Jaïch al-Sunna, Faïlak al Cham e al Partito islamico del Turkestan (PIT) guadagnano terreno a sud di Aleppo, nel quartiere di Ramussa, dove la scuola di artiglieria sarebbe caduta il 6 agosto. La base aerea di Kuweires, a est di Aleppo, che era stata liberata nel novembre 2015, è nuovamente minacciata da Daesh.
Le forze siriane avrebbero ricevuto in marzo il rinforzo di elementi della 65° brigata aereotrasportata delle forze speciali iraniane (Nohed). E’ la prima volta che una unità dell’esercito regolare iraniano viene impegnata in Siria, fino ad ora erano intervenuti solo i pasdaran. Da notare che le perdite subite dalle unità straniere (Iraniani, Iracheni, Afghani, Pakistani, Hezbollah libanese) sono elevate.
Sul fronte dei “ribelli”, se resiste una certa unità d’azione nella zona a sud di Aleppo, non altrettanto avviene a nord, dove si disputano l’accesso alla frontiera turca, soprattutto attraverso il corridoio di Azaz, mentre resta imponente la pressione delle forze curde del PYD[4] provenienti da Afrin, in direzione ovest.
A nord-est, l’attacco delle Forze Democratiche siriane (FDS[5]) che ha portato all’accerchiamento della città di Manbij sta diventando un incubo per gli assalitori che subiscono violenti contrattacchi da parte di Daesh. Detto ciò, questo crocevia logistico è strettamente accerchiato e non vi è più al momento un particolare interesse a difenderlo.
Infine la brigata dei martiri di Yarmouk, che dipende da Daesh, avrebbe rafforzato le sue posizioni a sud-ovest della provincia di Deraa (attigua alla parte di Golan sotto controllo israeliano) cacciando i “ribelli” del Fronte al-Nusra e di Ahrar Al-Sham.
Sul fronte iracheno, la battaglia di riconquista di Falluja, che avrebbe dovuto risolversi in pochi giorni tanta era la sproporzione tra le forze in campo, si è conclusa invece il 26 giugno, dopo diverse settimane di operazioni. Per Daesh è poco importante che edifici, anche governativi, cadano nelle mani degli avversari, perché essi non potranno comunque essere utilizzati, essendo stati in gran parte distrutti dai bombardamenti.
Per quanto riguarda Mossul, i proclami di guerra degli uni (il governo di Bagdad) e degli altri (i Peshmerga) sono da prendere con la massima cautela. Anche se entrambi proseguono nella politica degli annunci, nessuno ha in realtà alcuna intenzione di andare a Mossul, sapendo che Daesh si è preparata per una guerriglia casa per casa in questa località di due milioni di abitanti. Se il paragone con Stalingrado è inappropriato, quello con Beirut degli anni 1980 sembra più adatto. Peraltro, per tenere impegnate una parte delle forze irachene, Daesh ha lanciato una intensa campagna terrorista che ha toccato un punto culminante a Bagdad, il 2 luglio, con l’uccisione di oltre 300 sciiti.
Gli effetti dell’impegno russo
Da qualche tempo Mosca è più disponibile nelle sue dichiarazioni, preferendo agire piuttosto che parlare. Tuttavia il bilancio delle forze russe in Siria resta modesto. I bombardamenti sono spesso imprecisi perché le munizioni aria-suolo telecomandate sono rare e provocano importanti danni collaterali che suscitano un sentimento di vendetta tra la popolazione sunnita verso il governo di Damasco, spingendola tra i ranghi dei “ribelli”. Gli aerei russi e siriani non sono in grado di assicurare la copertura permanente del territorio, e ciò consente ai “ribelli” l’uso di armamenti pesanti. Il coordinamento delle forze tra Siriani, Russi, Iraniani, Hezbollah libanese e altre milizie sciite e russe lascia talmente a desiderare che il ministro della Difesa, il generale d’armata Sergey Choïgou, si è dovuto recare in giugno a Damasco e poi a Teheran, per reclamare l’istituzione di un «alto coordinamento nella guerra contro i terroristi takfiri in Siria». Da luglio, le forze russe di stanza in Siria - a Hmeimim, a Tartus e nelle basi aeree di Palmira e Al-Shayrat, nella provincia di Homs – sono al comando del generale Alexander Zhuravlev[6]. Questi ha sostituito il generale Alexander Dvornikov, promosso ad un più alto incarico operativo in Russia [7].
Più discreti, i consiglieri militari e gli Spetsnaz russi forniscono aiuti a terra alle forze siriane. Loro missione è l’addestramento dell’esercito di Damasco all’uso degli ultimi materiali forniti (carri T90, lanciamissili multipli a munizioni termobariche TOS-1, ecc), ma anche la guida dei lanci aria-suolo. Proprio come i loro omologhi occidentali, i Russi si rendono conto che il personale locale ha difficoltà ad usare i mezzi più moderni. Ed è per questa ragione che essi vengono trasferiti in Siria ed affidati alle mani più esperte degli hezbollah e dei pasdaran iraniani.
Per quanto riguarda gli uomini, il ministero della Difesa russa ha commissionato in marzo 10.300 medaglie [8] e ciò fornisce una idea del numero di militari che sono stati impegnati in Siria dal 30 settembre 2015. Ha anche dichiarato che 25.000 militari potranno beneficiare dello status di «veterano», che in Russia comporta il riconoscimento di molti diritti. Come sempre, il Cremlino non fornisce dati precisi sulle perdite subite, ma non esita a esaltare qualche eroe caduto sul campo d’onore, come il tenete Alexander Prokhorenko, ucciso a marzo 2016 durante la riconquista di Palmira. Piuttosto che essere preso vivo da Daesh, questo ufficiale spetsnaz avrebbe segnalato la propria posizione agli attacchi aerei russi che aveva il compito di guidare. Un elicottero Mi-8 è stato anche abbattuto nei cieli della provincia di Idlib, il 1° agosto, uccidendo i cinque occupanti tra cui un pilota donna. Mosca ha affermato che l’apparecchio – munito di una postazione di razzi – rientrava alla base di Hmeimim dopo una «operazione umanitaria» ad Aleppo... I “ribelli” della coalizione Jaish al-Fateh (l'esercito della conquista) che ha rivendicato questa azione si sono detti dispiaciuti per non avere catturato l’equipaggio vivo, soprattutto la donna pilota...
L'impegno russo è anche la causa del peggioramento delle relazioni tra Mosca e Washington. Così John Kerry ha formulato minacce appena velate nei confronti del Cremlino: «La Russia deve capire che la nostra pazienza non è infinita. Ed è davvero limitata sulla questione sul se Assad debba o meno essere giudicato responsabile delle sue azioni». Affermazione alla quale il ministro della Difesa russo Serguaï Choïgou ha replicato: «i nostri partner USA non si sono ancora decisi a comunicarci dove sono le forze di opposizione e dove gli elementi delle organizzazioni terroriste internazionali. (...) Il risultato è che i terroristi in Siria sono sempre attivi e le tensioni si aggravano. Tutto ciò non può continuare indefinitamente». Ha poi aggiunto che il suo ministero ha fornito agli Statunitensi una lista degli obiettivi terroristi per i prossimi tre mesi. La posizione ufficiale di Mosca è chiara: la soluzione del problema siriano passa per il ristabilimento della pace e dell’ordine da parte del governo di Bachar el-Assad. Solo in seguito si potranno svolgere delle elezioni e Bachar potrà essere costretto a passare le consegne… eventualmente.
Di fronte alla volontà dei neocon statunitensi - e di taluni Europei – di abbattere il governo di Damasco, il presidente Putin è stato chiaro: «qualsiasi attacco militare contro la Siria sarà considerato un atto di aggressione», sottintendendo che vige un accordo di difesa tra Mosca e Damasco. D'altronde occorre sapere che la zona della base aerea di Hmeimim (Laodicea) usata dai Russi è contornata da cartelli frontalieri russi. Un bombardamento di questa base potrebbe dunque essere considerato come una aggressione diretta contro il territorio russo, con i rischi incontrollabili di escalation che ciò comporterebbe.
Tuttavia, nel corso di questa estate 2016, un accordo Russia-USA sarebbe stato segretamente discusso. Prevedrebbe una cooperazione nella lotta contro il Fronte al-Nusra, che ha ufficialmente rotto i rapporti con Al Qaeda il 28 luglio ed ha cambiato nome, diventando il Fatah el-Sham (La Conquista del Levante). Questa grossolana manovra non riuscirà a sottrarre il gruppo ai fulmini di Washington, perché la sua eliminazione rientra nella complessiva politica statunitense di lotta contro il terrorismo islamico; l'obiettivo è di evitare che questo movimento riempia il vuoto lasciato da Daesh, quando esso sarà vinto militarmente. Ma il problema è che il Fronte al-Nusra e i gruppi ribelli «moderati» presenti nell’ovest della Siria - e sostenuti dall’Occidente – sono indistinguibili l’uno dagli altri. Washington avrebbe quindi ottenuto da Mosca il permesso di creare una «zona protetta» nel sud-est della Siria, alla frontiera giordana. E’ difficile prevedere quali saranno gli effetti di questi accordi e perfino se saranno rispettati dopo l’elezione del nuovo presidente USA nel 2017. Nessuno dei due candidati sembra condividere la mansuetudine del presidente Obama nei confronti della Russia e soprattutto del presidente Bachar el-Assad. Va ricordato che Hillary Clinton è una neocon e resta una convinta fautrice delle maniere forti.
Sul campo, gli stati maggiori russi e statunitense comunicano tra loro per evitare qualsiasi incidente. E’ vero che la situazione ha rischiato di degenerare in più occasioni. A metà giugno, due F/A-18 statunitensi sono entrati in contatto con due Su-34 in prossimità della frontiera giordana. L'incidente è stato evitato per un pelo. E’ successo poi che, a luglio 2016, dei bombardieri russi hanno attaccato un campo della Jaych Suriya al-Jadid (Nuovo esercito siriano) in prossimità della frontiera giordana. Elementi delle forze speciali statunitensi e britanniche che addestravano questo movimento creato alla fine del 2015 avevano appena lasciato il campo. Segnale più positivo, qualche giorno dopo, dei caccia statunitensi hanno distrutto un veicolo suicida di Daesh agli avamposti di un attacco contro la guarnigione governativa di Deir ez-Zor. I Russi non potevano intervenire, non disponendo di apparecchi in zona, e le forze governative siriane sono state salvate da un intervento statunitense!
Le wilaya estere di Daesh
Se Daesh sostiene di avere fondato uno «Stato» situato a cavallo di una parte della Siria e dell’Iraq, ha anche istituito delle wilaya (province) nel resto del mondo. Esse sono parte del «califfato» del quale Abou Bakr Al-Baghdadi è il capo religioso, politico e militare. E’ questa una delle differenze fondamentali con Al Qaeda «canale storico» i cui capi che si sono succeduti (Bin Laden, e poi Al-Zawahiri) hanno riconosciuto come autorità morale e religiosa l’emiro dei Talebani afghani.
Tutte queste province estere sono «terre di conquista», nelle quali Daesh ha accettato il giuramento di fedeltà di gruppi islamici locali attirati dalla dinamica di vittoria dell’organizzazione, nonostante i «successi» ottenuti dai suoi avversari in Medio Oriente. A parte rare eccezioni, queste wilaya non amministrano una popolazione come accade sul teatro siro-iracheno[9]. Inoltre queste province non ricevono – per il momento – dei rinforzi importanti dalla sede centrale, tutt’al più del personale istruttore. Infatti Daesh invita i volontari stranieri a recarsi in Iraq e in Siria, avendo bisogno di completare i suoi effettivi per continuare quella guerra che considera decisiva. Solo se questi volontari non sono in grado di raggiungere il califfato, vengono allora incoraggiati a recarsi nelle wilaya estere o, in ultima analisi, a compiere azioni terroristiche là dove si trovano.
Le wilaya estere sono parecchie, ma non di uguale importanza. Quella del Sinai[10] sviluppatasi intorno all’ex movimento Ansar Bayt Al-Maqdis (I partigiani di Gerusalemme) è forte di più di un migliaio di attivisti il cui sogno ultimo è quello di attaccare un giorno Israele[11]. Il 4 agosto, l’esercito egiziano ha annunciato l’eliminazione del suo capo, Abou Douaa al-Ansari e di una quarantina dei suoi uomini. Se la notizia dovesse essere confermata, questo sarebbe un colpo importante inferto a questo ramo di Daesh.
La wilaya Khorasan, che raggruppa l'Afghanistan, il Pakistan e il Bangladesh, viene ferocemente contrastata contemporaneamente dalle autorità locali, da Al Qaeda «canale storico[12]» e dai Talebani. Ciò non ha impedito a dei terroristi che si dichiarano di Daesh di realizzare attacchi omicidi a Kabul e a Dacca a fine giugno-inizio luglio.
In Estremo Oriente, il gruppo Abou Sayyaf (o Haraka al-Islmaiya, Movimento islamico delle Filippine) ha fatto parlare di sé a giugno 2016, assassinando due ostaggi canadesi, John Ridsdel ad aprile e Robert Hall.
Il suo capo Isnilon Hapilon - alias Abou Abdallah al-Filippini – ha esteso la lotta ai paesi vicini dove cooperava con una parte del Jemaah Islamiyah[13] (JI) e con Darul al-Islam, in Indonesia. Altri gruppi come il Katibah Nusantara, la brigata Abou Abu Dujana Brigade, il Jund Allah e i gruppi Abi Khabib e Abi Sadr hanno anch’essi giurato fedeltà allo Stato Islamico. In conseguenza di ciò, per la prima volta nel giugno 2016, Daesh ha pubblicato un opuscolo in lingua malese, Al-Fathihin, destinato agli abitanti della regione. Sembra che l’Estremo Oriente stia per diventare una terra di jihad prioritaria per Daesh, che avrebbe perfino tentato di realizzare questa estate delle operazioni terroristiche a Singapore.
La wilaya del Caucaso è in conflitto diretto con Al Qaeda «canale storico» conosciuto in zona come il «califfato del Caucaso». Daesh ha chiesto agli «jihadisti solitari» locali di passare all’azione in Russia.
In Nigeria e nella regione del lago Ciad, Boko Haram – diventata la wilaya per l'Africa dell’Ovest – resiste alla pressione delle forze di sicurezza della regione che si sono finalmente decise ad agire di conseguenza. Per contro, questa estate è scoppiata una guerra dinastica all’interno del gruppo jihadista nigeriano, dal momento che Abubakar Shekau non sembra più essere nelle grazie di Abou Bakr al Baghdadi che gli preferirebbe il portavoce del movimento, Abou Moussab al-Barnaoui. Occorre ricordare che Shekau è piuttosto lontano dalla linea ideologica predicata da Daesh, combinando allegramente islamismo radicale e sincretismo forsennato.
Nell’Africa dell’est, il Jabha East Africa (Il Fronte dell’Africa dell’Est) sarebbe una dissidenza degli Shabab somali. Questi ultimi vengono accusati da Daesh di essere una «prigione psicologica e psichica» per i giovani Somali. Abdiqadir Mumin, un ex emiro degli shabab che si è unito allo Stato Islamico, avrebbe trovato rifugio nel Puntland insieme a qualche decina di militanti. Avrebbe qui aperto il primo campo di addestramento di Daesh in Somalia[14].
Per contro Daesh non menziona il Jund al-Khalifa in Algeria, che ha assassinato Hervé Gourdel a settembre 2014. Le autorità algerine hanno fatto quanto si doveva per sradicare questo gruppuscolo.
L'organizzazione sembra voler operare anche in Arabia Saudita, facendo appello all’assassinio dei religiosi e dei membri delle forze di sicurezza del regno. Riyadh ha reagito con energia, come al solito, arrestando più di 1.600 sospetti in un anno, scongiurando la realizzazione di diversi attentati, uno dei quali nei pressi del consolato USA di Jeddah, il 4 luglio.
Infine Daesh approfitta del caos dilagante per impiantarsi solidamente in Yemen. Qui combatte contro i ribelli sciiti huthi, il governo legale del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi, i Sauditi e gli alleati della coalizione che questi ultimi hanno creato per lottare contro gli houthi e Al Qaeda nella penisola araba (AQPA).
In Libia, lo Stato Islamico ha istituito tre wilaya: Barca[15], Tripolitania e Fezzan. Ma Daesh trova difficoltà a designare un nemico preciso, giacché in questo paese, a differenza del Medio oriente, non ci sono né Sciiti né Curdi da sterminare. Incontra dunque maggiori difficoltà a guadagnarsi quel consenso popolare che è indispensabile perché i suoi 5-6000 combattenti trovino aiuto e appoggio. Tuttavia, tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, l’organizzazione è riuscita a impadronirsi di Sirte, e poi di 250 km di costa. La cosa è sembrata inaccettabile alle milizie di Misurata – legate ai Fratelli Mussulmani – che vedono oramai Daesh come una minaccia per loro. Stesso scenario a ovest, dove gli uomini della Petroleum Facilities Guard (PFG) temono che Daesh possa impadronirsi dei giacimenti di idrocarburi. Queste due entità hanno allora deciso di contrattaccare e il Governo di unione nazionale, sostenuto dalla comunità internazionale, ha colto la palla al balzo pretendendo di assumere il comando delle operazioni. A ovest di Sirte, uno stato maggiore congiunto denominato «Camera di coordinamento» guida l’offensiva Al-Bunyan Al-Marsus (Muro impenetrabile). Questa sarebbe in realtà diretta sottobanco dal comandante militare di Tripoli, Abdelhakim Belhadj. A fine giugno, dopo numerosi comunicati di vittoria, sembra che la situazione si sia stabilizzata e che Daesh sia riuscita a bloccare l’avanzata dei suoi avversari, il cui numero si stima in 4000 combattenti, e perfino a lanciare vigorose controffensive. Al centro, Ibrahim Jadhrane, il responsabile delle PFG – e anche capo di ciò che viene indicato col nome di «federalisti» - conduce un’offensiva in collaborazione coi combattenti delle tribù Awlad Suleiman. Le sue forze sarebbero giunte a 50 chilometri da Sirte.
Queste wilaya estere rappresentano un reale pericolo di esportazione del terrorismo – vedi la Tunisia colpita a più riprese a partire dalla vicina Libia -, ma non sembrano in grado, almeno al momento, di scatenare azioni di guerriglia generalizzate, con l’eccezione della regione di Sirte, del nord-est del Sinai e del nord della Nigeria.
In linea di massima, Daesh incontra difficoltà ad avanzare là dove Al Qaeda «canale storico» ha messo solide radici: Sahel, Somalia, Yemen, zona afghano-pakistana, Caucaso, ecc. Ma l’ideologia salafita jihadista dello Stato Islamico è più o meno la stessa di quella di Al Qaeda «canale storico». E’ solo sulla strategia che i due movimenti divergono. In particolare, se entrambe condividono l’aspirazione alla creazione di un califfato mondiale, Daesh ha inteso realizzarne le fondamenta fin dalla sua fondazione nel 2014. Al-Qaeda «canale storico», scottata dal crollo del califfato di Afghanistan nel 2001, dopo l’intervento statunitense, ha scelto la strada di una guerra asimmetrica più diffusa.
Questa frattura si può notare anche nelle specifiche azioni terroriste. Per esempio, se Daesh ha rivendicato il massacro del 12 giugno in un locale gay di Orlando, Al-Qaeda «canale storico», attraverso AQMI (Al Qaeda nel Maghreb islamico), si è congratulata col cecchino. AQMI ne approfitta per fornire consigli in vista di future azioni del tipo “jihad solitario[16]".
Se entrambe le organizzazioni terroriste sollecitano i membri dell’Umma (la comunità dei credenti) a passare all’azione, Al Qaeda chiede di selezionare bene gli obiettivi, evitando le minoranze che sviano l’attenzione generale dal «vero messaggio» di cui la loro azione è portatrice: la difesa dell’islam. Qualsiasi civile che elegge, «sopporta e paga le imposte a un governo criminale (specialmente quello statunitense) che maltratta l’Umma» è considerato alla stregua di un «civile combattente» che è legittimo colpire. I due ultimi numeri di Inspire forniscono d’altronde delle indicazioni sul come realizzare degli assassini mirati, compreso al loro domicilio[17].
Conclusioni
A voler credere alle stime, lo Stato Islamico dovrebbe essere già distrutto poiché il numero delle sue perdite dichiarate dalla coalizione antiterrorista supera largamente quello dei suoi effettivi. Per esempio, la CIA affermava nel giugno 2016 che il numero dei combattenti di Daesh presenti sul fronte siro-iracheno era di 22-28.000, laddove a inizio anno era stimato in 35 000. Bisogna quindi riconoscere che tutte queste stime devono essere prese con beneficio di inventario.
La guerra contro Daesh durerà molti anni. In Siria, le battaglie di Aleppo e di Manbij si eternizzano al ritmo dei contrattacchi lanciati dai “ribelli” e da Daesh. Nonostante qualche vittoria riportata contro l’organizzazione terrorista, quest’ultima è capace di rigenerarsi, perché la sua lotta è pensata come di lunga durata. Occorre però considerare il fatto che Daesh si comporta un po’ come il regime nazista alla sua fine. Vede dovunque traditori e vigliacchi che giustizia pubblicamente per dare l’esempio. Mantenersi in vita col terrore esercitato tra i suoi propri ranghi non è un segno positivo per l’avvenire dell’organizzazione.
Note:
[1] Si trattava però verosimilmente di combattenti.
[2] La base aerea di Shayrat, posta tra Homs e Palmira, è stata più volte attaccata. I Russi smentiscono la perdita, a metà marzo, di quattro MI-24, di un Mi-8, di un Su-25 e di una decina di camion di rifornimento.
[3] Una tribù che odia Daesh, che ha massacrato 900 dei suoi membri dal 2014.
[4] Unità di protezione del popolo curdo, braccio armato del Partito dell’Unione Democratica (PYD), alleato del PKK.
[5] Composta dall'YPG curdo, dal Jaysh al-Thuwar, dalle forze Al-Sanadid, dalla brigata dei gruppi di Al-Jazira e dello stato maggiore Bourkan al-Firat.
[6] Diplomato nel 1996 all’Accademia militare delle truppe blindate.
[7] Il comando del distretto militare sud: oltre a occuparsi delle operazioni in Siria, ha in carico la gestione della situazione militare nel Caucaso e nel mar Nero.
[8] Al costo di 2,2 milioni di rubli, vale a dire 30.600 euro.
[9] Il territorio siro-iracheno è suddiviso in 18 province poste sotto l’autorità di governatori e dotati di larghissima autonomia. Sono operativi diversi uffici che assicurano l’amministrazione della provincia: insegnamento, sanità, agricoltura, finanze, beni fondiari, affari tribali, circolazione, lavoro, polizia, giustizia, ecc.
[10] E’ appoggiata dal Jaych al-Islam, con sede nella striscia di Gaza. Sembra che esista un’unica linea logistica tra Libia, Sinai e Striscia di Gaza.
[11] Oltre alle azioni di guerriglia realizzate nel nord-est del Sinai, la wilaya Sinai realizza anche molte azioni terroriste in tutta la regione. La più celebre fu quella del 31 ottobre 2015 contro l’aereo commerciale russo Metrojet 9268, che ha provocato 224 vittime.
[12] Ha creato nel 2015 un nuovo comando per coprire la zona: Al-Qaeda per il subcontinente indiano.
[13] Abou Bakar Bachir, il suo leader spirituale, è stato trasferito nell’isola prigione di Nusakambangan. In effetti, egli beneficiava di una grande libertà di azione nel suo ultimo luogo di detenzione, riuscendo a far passare messaggi audio e video all’esterno!
[14] Il campo Abou Numan dal nome di un martire ucciso dagli shabab.
[15] Cirenaica.
[16] Formulazione nuova e un po’ diversa del «lupo solitario», che contiene in sé la motivazione dell’aggressore: la guerra santa(jihad).
[17] N°14 di settembre 2015 e n°15 di maggio 2016. E’ possibile che Larossi Aballa, l’assassino della coppia di poliziotti di Magnanville del 13 giugno, abbia letto il numero 15 di questa pubblicazione, anche se essa è edita da AQMI e non da Daesh, del quale si è dichiarato affiliato.