Crisi Siriana
La strategia di Trump in Medio Oriente
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Crisi siriana, maggio 2017 - Le nuove alleanze in Siria, dopo l'elezione di Trump e la vittoria di Erdogan nel referendum costituzionale
Cf2R (Centre Français de Recherche sur le Renseignement), 1° maggio 2017 (trad.ossin)
La strategia di Trump in Medio Oriente
Alain Rodier
Poco a poco, si va delineando la nuova strategia dell’amministrazione Trump in Medio oriente. Continua ad appoggiarsi sulle forze curde , i peshmerga in Iraq e le Forze Democratiche siriane in Siria, per “sradicare” Daesh, ma potrebbe anche sostenere indirettamente l’Organizzazione di liberazione della Siria (OLS/Hayat Tahrir al-Cham), per il tramite della Turchia, del Qatar e dell’Arabia Saudita. Si tratta infatti dell’unica coalizione ritenuta in grado di mettere in difficoltà il governo di Bachar al-Assad. Non è un mistero per nessuno che, al di là del leader siriano, l’avversario nel mirino degli Stati Uniti è decisamente Teheran. In questo, Washington opera in totale accordo con Israele, che considera l’Iran (e la sua creatura, Hezbollah libanese) come il nemico principale (1).
Il ruolo della Turchia
Il presidente Trump pensa che il suo omologo turco, Recep Tayyip Erdogan, debba essere uno degli elementi essenziali della sua strategia medio-orientale. La Turchia permette di effettuare con facilità il bombardamento di Daesh in Siria e in Iraq, a partire dalla sua base aerea di Incirlik; ma serve anche da retrovia per l’OLS in quanto la provincia di Idlib, che questa coalizione controlla in gran parte, è alla frontiera col territorio turco.
Se ufficialmente Ankara non intrattiene alcun rapporto con l’OLS, vi sono però dei segnali che non possono ingannare. Per esempio, il 17 aprile 2017, il comando politico dell’OLS si è ufficialmente felicitato col “popolo e il governo turco” per il risultato del referendum del 16 aprile, che approvato una modifica della Costituzione che permette l’instaurazione di un regime presidenziale confezionato a misura di Erdogan (2). Il testo del messaggio sarebbe stato redatto in Qatar da Ziad al-Attar, un ex portavoce del Fateh al-Cham (ex Fronte al-Nusra, e dunque Al Qaeda), attualmente responsabile del Dipartimento degli affari politici dell’OLS.
Più o meno contemporaneamente, questo emirato avrebbe ospitato un incontro riservato tra un emissario USA e un capo militare dell’OLS conosciuto col nome di Al-Chafii, per negoziare la cancellazione della coalizione islamista dalla lista ufficiale di Washington dei “movimenti terroristi”. Al momento questa organizzazione viene ancora considerata troppo ideologicamente vicina al Al Qaeda “canale storico”, nonostante siano stati interrotti “ufficialmente” tutti i rapporti da parte della componente principale, l’ex Fronte al-Nusra.
Oltre alla provincia di Idlib, l’OLS è anche molto attiva nell’ovest del paese – Hama, Damasco e Deraa – dove realizza molte operazioni contro il governo di Damasco. Tenta di federare dietro di lei tutta l’opposizione islamica a eccezione di Daesh, ma incontra le resistenze dei capi locali. La sua strategia è semplice: se i tentativi di giungere ad un accordo non daranno frutti, allora non esiterà a usare la forza per imporre la sua leadership. E’ quanto sta accadendo nel quartiere di Ghuta, nella parte est di Damasco, dove dalla fine di aprile si sta scontrando con Jaish al-Islam e con Faylaq al-Rahman.
Infine il presidente Trump si compiace del riavvicinamento in corso tra Israele ed Ankara. A titolo di esempio, presto alle rispettive rappresentanze diplomatiche ad Ankara e a Tel Aviv saranno destinati degli attaché esperti nel campo della difesa. Questa riconciliazione chiude il periodo di freddo che ha prevalso dopo il 2013 (3). Tale riconciliazione ha un unico obiettivo: opporsi all’influenza di Teheran in Medio Oriente. Infatti tra i due paesi restano molti punti di disaccordo, soprattutto la causa palestinese che il presidente turco ha fatto sua. Tra parentesi, gli attacchi chirurgici che lo Stat ebraico realizza regolarmente in Siria contro convogli di armi destinati a Hezbollah libanese, non dispiacciono affatto né a Washington, né ad Ankara. Quanto ai Russi, non ci tengono affatto che le loro buone relazioni col Premier israeliano possano essere turbate da un incidente che coinvolga la loro difesa anti-aerea. Quindi lasciano fare senza por mano alla pistola (ai missili).
Il presidente turco incontrollabile?
L’amministrazione statunitense ha comunque seri dubbi circa l’affidabilità dell’alleato turco. Dopo la vittoria nel referendum del 16 aprile, la sua politica repressiva interna si è fatta ancora più stretta. Per esempio, il 26 aprile ha fatto arrestare più di 1000 “partecipanti al complotto” del movimento Gulen, contro il quale continua a esercitare la sua vendetta perché era l’unico a poterlo mettere in difficoltà dopo averlo sostenuto lungo tutta la sua carriera politica, fin dagli esordi negli anni 1980. Dopo il suo tentativo di colpo di Stato militare del 14 luglio 2016, ben 46.000 persone sono state già arrestate – militari, giudici, poliziotti, intellettuali, giornalisti, deputati, ecc – e oltre 100.000 funzionari sono stati silurati o sospesi. Ciliegina sulla torta, Erdogan fa controllare strettamente i programmi delle televisioni e internet; anche l’accesso a Wikipedia è stato sospeso il 28 aprile! La libertà di stampa in Turchia diventa un lontano ricordo, lasciando il posto ad una propaganda sfrenata.
Certamente non sembra che sia la deriva dittatoriale di Erdogan a preoccupare oltre misura il presidente Trump, quanto piuttosto il fatto che egli abbia allargato la guerra scatenata contro il PKK nell’estate del 2015 a quasi tutti i Curdi della regione (ad eccezione dei Curdi iracheni). Il bersaglio principale è il Partito dell’Unione Democratica (PYD) e il suo braccio armato, le Unità di protezione del popolo (YPG e YPJ per le formazioni femminili). Per tentare di rabbonire Erdogan, il presidente Trump ha dichiarato di appoggiarlo incondizionatamente nella sua guerra contro il PKK. Ma il problema sta nel fatto che gli Stati Uniti sostengono le Forze democratiche siriane (FDS), una coalizione la cui colonna vertebrale è costituita proprio dal PYD. Gli USA contano su queste forze per riprendere Raqqa, la “capitale” del proto Stato Islamico. D’altro canto Washington afferma che le FDS siano oramai costituite maggioritariamente da forze arabe e siriache, cosa che è una grandissima menzogna. Infatti se queste forze sono effettivamente presenti in seno alle FDS, restano comunque assai minoritarie. Ma occorre ben tentare di non dispiacere troppo al “nuovo Sultano”.
Insensibile ad ogni ammonimento, il 25 aprile l’aviazione turca ha lanciato degli attacchi aerei in Siria e in Iraq. Prima di tutto ha operato un importante raid aereo contro il Quartier Generale delle YPG posto sul monte Karachok, vicino alla città di al-Malikiyah, nel nord-est della Siria. Non solo l’obiettivo è stato colpito, ma anche un centro stampa. 20 Curdi, tra cui una responsabile femminile, sono stati uccisi e il bilancio potrebbe aggravarsi perché tre feriti sono gravissimi. Salih Muslim, uno dei due co-dirigenti del PYD, ha avanzato una protesta ufficiale facendo perfino intendere che i Curdi potrebbero arrestare l’offensiva in corso verso Raqqa, se gli USA non interverranno su Ankara per far cessare queste “coltellate alla schiena”.
Contemporaneamente un altro attacco ha preso di mira attivisti del PKK nel Sinjar, nel nord-est dell’Iraq. Ma sono stati sei peshmerga del Governo regionale del Kurdistan (KRG) di Massud Barzani, alleato della Turchia, a perdere la vita. Ankara ha riconosciuto l’errore e accettato di trasferire tre feriti nei suoi ospedali. Peraltro Halgurd Hikmat, il capo del dipartimento della comunicazione dei peshmerga, ha rinnovato l’ingiunzione, fatta da settimane al PKK dal KRG, di evacuare la provincia di Sinjar, non essendo in grado di assicurare la loro sicurezza. Gli attivisti del PKK, che erano stati i primi a correre in soccorso delle popolazioni yazide durante l’offensiva di Daesh in Sinjar nel 2014, si rifiutano di evacuare questa regione alla frontiera della Siria, considerata come vitale per i loro interessi.
Nella serata del 25 aprile, i Turchi hanno ripetuto gli attacchi aerei nell’Iraq del nord, soprattutto sul fiume Grand Zab, oltre che nelle province truche del sud-est, annunciando di avere abbattuto Sait Tanit – alias Bedran Cudi – un responsabile operativo storico del PKK, il cui nome compariva nella lista delle persone più ricercate da Ankara. Il giorno dopo, in Siria, hanno aperto un nutrito fuoco di artiglieria su dei villaggi controllati dalle FDS a est di Aleppo. Per evitare qualsiasi malinteso coi consiglieri russi e statunitensi dispiegati sul campo delle operazioni, Ankara assicura che è stata sua cura avvisare le due capitali prima di cominciare i bombardamenti.
Volendo mostrare i muscoli, Ankara si prepara a inviare truppe nella regione di Sanliurfa, come in previsione di una nuova offensiva terrestre a est dell’Eufrate (4) nella regione di Tal Abyad controllata dalle FDS. Per dissuadere una simile iniziativa, gli Statunitensi fanno pattugliare, in funzione di "interposizione", dei veicoli blindati Stryker con bandiere a stelle e strisce lungo tutta la frontiera nord-est siriana. Erdogan è furioso perché indizi di connivenza tra militari statunitensi e attivisti del PYD vengono ampiamente diffusi nelle reti sociali.
E’ evidente che tutte queste questioni saranno prioritariamente affrontate nel corso della visita che Erdogan farà negli Stati Uniti il prossimo 16 maggio.
Note:
(1) Le posizioni iraniane e israeliane sembrano irrimediabilmente rigide. Israele punta molto l’accento sul fatto che Teheran continuerebbe a auspicare la distruzione dello Stato ebraico
(2) Anche altri movimenti ribelli si sono felicitati con Ankara per il successo elettorale: Jaish al-Islam, Faylaq al-Cham e la brigata Sultan Murad. Queste sono meno sorprendenti, trattandosi di gruppi che hanno partecipato all’operazione Scudo dell’Eufrate, lanciata nel nord-est della Siria il 24 agosto 2016
(3) Una nave battente bandiera turca aveva tentato di spezzare il blocco israeliano della striscia di Gaza. L’intervento di commando israeliani ha provocato la morte di 10 passeggeri turchi (con dieci feriti anche tra gli assalitori israeliani). La situazione si è normalizzata solo nell’estate 2015
(4) L’operazione Scudo dell’Eufrate, avviata nella parte est del fiume, si è ufficialmente conclusa il 29 marzo 2017