Dal nostro inviato speciale Lorenzo Cremonesi
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Dal nostro inviato speciale Lorenzo Cremonesi
Azazello
Lorenzo Cremonesi è un corrispondente che le notizie se le va a cercare sul campo. Dice di sé: “un vero reporter scrive solo stando immerso nel luogo ‘caldo’ dove i fatti accadono. Mangiare quel cibo, respirare quell’aria, parlare con la gente, anche in tempo di guerra, è l’unico modo per scriverne davvero. Internet e gli altri metodi di reperimento in remoto delle informazioni, quindi ‘non sul campo’, creano surrogati insipidi di realtà”.
Non si sa se abbia appreso questa filosofia quando, in gioventù, ci dicono abbia trascorso qualche mese di formazione in un kibbutz israeliano, constatiamo però che la segue con grande coerenza. Infatti il nostro inviato speciale non legge mai documenti, né quelli di internet né quelli ufficiali, ma ascolta solo le persone che incontra e – come si dice a Napoli – s’ammocca tutto.
Così si spiega come possa essere accaduto che, in una celebre corrispondenza da Gaza del 22 gennaio 2009, dopo una chiacchierata con un medico (ma lui non è abituato a sottilizzare, si fiderebbe anche di un tassista), il nostro sia stato in grado di rettificare il numero reale delle vittime dell’aggressione israeliana, stabilendo che erano state 600, e non 1300 come dicevano tutti. Quella volta è stato smentito dai principali giornali israeliani, e perfino dal Ministero della Difesa israeliano che, si sa, è legato alle insipide cifre ufficiali.
Non solo, il nostro inviato speciale rivelò anche al mondo, per averlo appreso da 3 o 4 persone incontrate per strada, che la maggior parte delle vittime palestinesi non le avevano fatte i tanks o le bombe dell’aggressore, ma piuttosto Hamas, per gettarne la colpa su Israele.
Lorenzo Cremonesi è dunque uno per cui lo scoop è come il pane quotidiano. Una persona qualsiasi, quando prende il cappuccino al bar, evita di ascoltare le chiacchiere degli avventori, o al massimo le sente distrattamente tutto preso dai fatti suoi. Lui invece si mette li e prende appunti, e subito ci confeziona uno scoop. E’ questo che lo rende un grande inviato speciale.
Oggi lo ritroviamo in Siria, seduto sul sedile posteriore dell’auto di due capi ribelli, a spiarne il colloquio per trasmetterlo al mondo. Uno si chiama Ali, ma potrebbe essere John Wayne che interpreta Davy Crockett nella “battaglia di Alamo”, l’altro Rabiah Ibrahim Allush (noi sospettiamo si tratti però di Richard Widmark nei panni di Jim Bowie). E il nostro non è nemmeno sfiorato dal dubbio che i due possano in qualche modo fare la scena a beneficio dell’importante inviato speciale (sia pure embedded) che si portano appresso, lui è abituato ad ascoltare e riferire senza porsi domande, è questo il suo mestiere. Così riporta fedelmente quello che Rabiah dice al camerata: “Non voglio soldi. Non ho mai pensato di arricchirmi alle spalle della rivoluzione. Mi servono solo munizioni e accetto di obbedire ai tuoi ordini”.
Splendido! Ma chissà che questa volta il nostro non venga smentito dall’emiro del Qatar, o dalla famiglia Al Saud, che si stanno svenando per inviare armi, munizioni e, soprattutto, milioni di dollari ai ribelli siriani e ai mercenari che vogliono abbattere Bachar al Assad. O da Hillary Clinton, o da Erdogan e da tutti gli “amici della Siria” e dalle ricchissime ONG legate al Dipartimento di Stato USA, che hanno investito nella “rivoluzione” altri milioni di dollari.
E il nostro si esalta quando i ribelli gli raccontano di aver vinto la battaglia, e quando gli raccontano che hanno ammazzato mille persone, salvo dover poi constatare con rammarico che, forse, i morti nemici sono stati solo venti.
Ma chi sono questi morti? Sono i soldati dell’esercito regolare? Il nostro non ce lo spiega, ma da quello che lui stesso racconta sembra che siano invece dei civili, proprio quelli del cui massacro il mondo accusa il “dittatore Assad” e per “difendere” i quali le potenze occidentali vogliono intervenire militarmente in Siria.
Che siano cittadini e non soldati, lo si capisce quando il nostro ci dice che “lo scontro più violento è stato presso nove villette del centro”, abitate da civili. Ma non c’è da allarmarsi, i morti non erano civili buoni. Il nostro ci spiega infatti che erano dei “terribili shabiba, le squadracce di civili seguaci indefessi della dittatura”, sunniti ma “collaborazionisti a tutti gli effetti”. Dunque gente che si può ammazzare senza problemi. Come tutti i civili che i ribelli torturano e ammazzano ogni giorno, stando ai rapporti di Amnesty International o del Centro cristiano Vox Clamantis, se proprio ci fa schifo prendere in considerazione le informazioni provenienti da documentate fonti governative.
Ma si sa, il nostro non si cura di rapporti e analisi, rischierebbe di confondersi le idee. Lui ascolta la gente e va dritto per la sua strada, convinto che, quella in corso, sia una “battaglia per la nuova Siria libera”. Che poi dietro ai ribelli ci siano gli interessi geostrategici degli USA, o le orribili dittature del Qatar e dell’Arabia Saudita, dove non ci sono elezioni e vige la schiavitù, sono questioni che non toccano il nostro inviato speciale. La realtà che lui racconta è quella che gli capita di ascoltare con le proprie orecchie, non quella astrusa e insipida che bisogna ricostruire con fatica e senso critico, mettendo insieme testimonianze, documenti e analisi.
Che poi, anche la questione che l’Arabia Saudita sia una dittatura a lui non lo convince per niente. Lui è piuttosto convinto che sia un esempio di democrazia. Glielo ha confidato in segreto un vicino di ombrellone.