Fabrizio De André: Sidùn, l’implacabile odio israeliano
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Fabrizio De André: Sidùn, l’implacabile odio israeliano
“Senta – disse – so che sta registrando, ma personalmente vorrei vederli tutti morti. Può mandare la registrazione dove le pare: vorrei vedere tutti i Palestinesi morti perché sono un male dovunque vadano” (Un soldato israeliano intervistato da Robert Fisk, in Il martirio di una nazione, Milano, 2010)
Sidùn è una canzone di Fabrizio De André che fa parte dell’album “Crêuza de mä”, pubblicato nel 1984, e realizzato in collaborazione con Mauro Pagani. È interamente cantato in genovese, lingua che, per molti secoli, è stato uno dei principali veicoli linguistici nell’ambito della navigazione e degli scambi commerciali nel bacino del Mediterraneo.
Il disco è stato considerato dalla critica come una delle pietre miliari della musica degli anni ottanta e, in generale, della musica etnica tutta; David Byrne ha dichiarato alla rivista Rolling Stone che Creuza è uno dei dieci album più importanti della scena musicale internazionale degli anni ottanta, e la rivista “Musica & Dischi” lo ha eletto migliore album degli anni ottanta. Inoltre, l’album è nella posizione numero 4 della classifica dei 100 dischi italiani più belli di sempre, secondo Rolling Stone Italia.
Intorno alla metà degli anni ottanta, la scelta di realizzare un disco di musica d'autore destinato al mercato nazionale interamente in lingua ligure andava contro tutte le regole del mercato discografico e, contro ogni aspettativa, ha segnato il successo di critica e di pubblico dell'album, il quale ha infatti segnato una svolta nella storia della musica italiana ed etnica in generale.
Sidùn, l’implacabile odio israeliano contro le proprie vittime palestinesi
“Sidùn” è il canto di dolore di un padre di fronte alla morte violenta, a causa della guerra scatenata in Libano dall’invasione israeliana, del proprio giovane figlio, travolto da un carro armato.
In occasione di una intervista alla trasmissione “Mixer” del 1984, Fabrizio De André ha detto:
Sidone è la città libanese che ci ha regalato oltre all'uso delle lettere dell'alfabeto anche l'invenzione del vetro. Me la sono immaginata, dopo l'attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come un uomo arabo di mezz'età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato. Un grumo di sangue, orecchie e denti di latte, ancora poco prima labbra grosse al sole, tumore dolce e benigno di sua madre, forse sua unica e insostenibile ricchezza. La piccola morte, a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo. Bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea.
Nella canzone, De André indica chiaramente i responsabili del massacro: essa viene infatti introdotta dalle voci del presidente USA, Ronald Reagan, e del ministro della difesa israeliana, Ariel Sharon, alle quali fa da sfondo il rumore dei carri armati.
D’altronde, la sensibilità del cantautore genovese, il suo stare “dalla parte dei vinti” non poteva non fargli provare profonda simpatia per le vittime palestinesi di un’occupazione feroce e genocida.
Egli descrive, in poche battute poetiche, la furia omicida degli Israeliani: “gli occhi dei soldati cani arrabbiati / con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli / A inseguire la gente come selvaggina / finché il sangue selvatico non gli ha spento la voglia”.
Ma coglie anche perfettamente il progetto più immediato dell’operazione, quello della deportazione: "e dopo il ferro in gola i ferri della prigione / e nelle ferite il seme velenoso della deportazione"
E quello di più lungo respiro, quello strategico del sionismo, la cancellazione del popolo palestinese: "Perché di nostro dalla pianura al molo / non possa più crescere albero né spiga né figlio".
Sidùn
Testo di Fabrizio de André
Musica di Mauro Pagani e Fabrizio de André
pubblicato nel 1984 dall'etichetta Dischi Ricordi
U mæ ninin u mæ
u mæ
lerfe grasse au su
d'amë d'amë
tûmù duçe benignu
de teu muaè
spremmûu 'nta maccaia
de stæ de stæ
e oua grûmmu de sangue ouëge
e denti de laete
e i euggi di surdatti chen arraggë
cu'a scciûmma a a bucca cacciuéi de bæ
a scurrï a gente cumme selvaggin-a
finch'u sangue sarvaegu nu gh'à smurtau a qué
e doppu u feru in gua i feri d'ä prixún
e 'nte ferie a semensa velenusa d'ä depurtaziún
perché de nostru da a cianûa a u meü
nu peua ciû cresce aerbu ni spica ni figgeü
ciao mæ 'nin l'ereditæ
l'è ascusa
'nte sta çittæ
ch'a brûxa ch'a brûxa
inta seia che chin-a
e in stu gran ciaeu de feugu
pe a teu morte piccin-a
l mio bambino il mio
il mio
labbra grasse al sole
di miele di miele
Tumore dolce benigno
di tua madre
spremuto nell'afa umida
dell'estate dell'estate
E ora grumo di sangue orecchie
e denti di latte
e gli occhi dei soldati cani arrabbiati
con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli
A inseguire la gente come selvaggina
finché il sangue selvatico non gli ha spento la voglia
e dopo il ferro in gola i ferri della prigione
e nelle ferite il seme velenoso della deportazione
Perché di nostro dalla pianura al molo
non possa più crescere albero né spiga né figlio
ciao bambino mio l'eredità
è nascosta
In questa città
che brucia che brucia
nella sera che scende
e in questa grande luce di fuoco
per la tua piccola morte
La strage di Sidone
Il 6 giugno 1982 le forze di occupazione della Palestina (sedicente Stato di Israele), al comando del ministro della difesa Ariel Sharon, invasero il Sud del Libano per l’operazione dal nome grottesco “Pace in Galilea”.
Uccisero e distrussero, non solo a Sidone, ma anche a Beirut e nel campo tragicamente famoso di Sabra e Chatila.
Robert Fisk era all’epoca corrispondente dal Libano del giornale britannico The Independent, ha raccontato la strage di Sidone nel suo libro “Il martirio di una nazione”.
Fisk ha iniziato la sua carriera giornalistica nei primi anni ’70 come inviato del Times nell’Irlanda del Nord e in Portogallo, per poi trasferirsi in Libano nel 1976. È l’unico giornalista occidentale ad avere intervistato bin Laden. In Italia, i suoi articoli sono apparsi su Repubblica, Unità e Internazionale, e i suoi libri sono best-seller in tutti i continenti.
Da: Il martirio di una nazione, Milano 2010
L'assedio israeliano di Beirut (giugno-luglio 1982) - I soldati cani arrabbiati
«Dentro c'erano centoventicinque persone, quasi tutti bambini e donne. Si erano rifugiati nello scantinato per sfuggire alle bombe. Tutti morti. Tutti bruciati. Carne bruciata. Abbiamo raccolto le ossa di centoventicinque persone, e anche borse piene di anelli d'oro e gioielli. Siamo riusciti a ricostruire quanti erano solo dalle testimonianze di sette superstiti che al momento si trovavano all'esterno dell'edificio. Abbiamo portato le ossa al cimitero. Ho deciso io di seppellire lì i corpi.»
Rapporto sul bombardamento israeliano di un palazzo residenziale a Sidone, stilato nel giugno 1982 da Mahmud Khadra, capo della protezione civile del Libano meridionale.
Il ragazzo voleva aiutarci. Gli israeliani avevano bombardato la scuola elementare dietro l'angolo, disse, e c'erano ancora centoventi civili morti nello scantinato. Stentavamo a crederlo, ma nell'aria c'era un odore sottile e terribile, dal quale deducemmo che forse diceva la verità. Poi, appena girato l'angolo, fummo circondati da nugoli di mosche che si posavano sui nostri visi e sulle nostre labbra.
Un ragazzo più giovane ci portò nella piccola scuola, il cortile e il campo da pallacanestro in terra battuta erano pieni di blocchi di cemento, lavagne e sedie. «State attenti quando arrivate in fondo alle scale» disse. In fondo alla ringhiera, c'era già un cadavere, diviso in due, con le braccia aperte come in un gesto di disperazione. «Adesso, guardate giù a sinistra» disse il giovane, e attraverso il tetto rotto dello scantinato, li vedemmo.
I corpi erano ammonticchiati l'uno sull'altro in un cumulo che raggiungeva quasi i due metri, le braccia e le gambe avviluppate, congelate nella morte in una massa stranamente innaturale. Durante i raid aerei israeliani su Sidone erano rimaste uccise tante centinaia di civili che la Croce Rossa locale non aveva ancora avuto il tempo di seppellire tutti i morti. Perciò nella piccola scuola elementare sulla strada di Jezzin, avevano cosparso i cadaveri di polvere di calce, avevano steso su di loro un pietoso velo bianco che in qualche modo rendeva meno agghiacciante la loro visione, trasformando i corpi di uomini, donne e bambini in statue, come quelli degli abitanti carbonizzati dell'antica Pompei dopo che la cenere del Vesuvio li aveva ricoperti.
Una catastrofe simile sembrava essersi verificata anche a Sidone, perché c'erano scantinati ancora più raccapriccianti sparsi per la città, e diverse fosse comuni nelle quali il governatore, il muhafiz, preso dalla disperazione aveva ordinato che venissero interrati i corpi senza nome. Una di queste, che conteneva quaranta morti, si trovava su un’isola spartitraffico, mezzo coperta di rifiuti e macerie. In un ospedale, trovammo un medico talmente sconvolto dal numero dei feriti e di morti che gli avevano portato negli ultimi cinque giorni, da non riuscire a descrivere quello che aveva visto senza scoppiare in lacrime. In varie cantine, trovammo corpi fati a pezzi, teste e braccia, piedi e petti squarciati intrecciati tra loro. Dovunque – nelle strade, nelle case, perfino sul lungomare – sentivamo odore di morte. Era un odore intenso e dolciastro. Nessun altro animale se non un essere umano poteva puzzare in quel modo, era un miscuglio di sudore, interiora e feci delle persone il cui addome era stato squarciato dall’esplosione, di cadaveri che marcivano sotto il sole cocente.
Gli attacchi aerei israeliani erano stati - almeno fino a quel momento - i più feroci che fossero mai stati sferrati contro una città libanese. Nella zona sud di Sidone, sembrava che un tornado avesse sconquassato i palazzi, portando via balconi e tetti, abbattendo muri e facendo crollare interi edifici sulla testa dei loro occupanti. Molti morti erano rimasti incastrati tra le macerie. Nelle strade, da dove i bulldozer israeliani avevano spazzato via i detriti con militare efficienza, gli abitanti di Sidone camminavano come storditi. Non rispondevano ai soliti saluti e fissavano stupiti i palazzi rimasti ancora in piedi perché non avevano mai visto la loro città in quelle condizioni.
Non c'era da sorprendersi se gli israeliani non volevano che i corrispondenti stranieri residenti in Libano raccontassero quanto era successo a Sidone. I giornalisti che arrivavano da Israele erano sotto scorta militare e dovevano sottoporre i loro articoli alla censura israeliana. Senza contare il fatto che, i reporter che venivano in macchina da Tel Aviv e da Gerusalemme potevano andare solo sul lungomare di Sidone, al castello dei crociati, nella zona vicino al suq, che non era stata danneggiata dai bombardamenti, e più tardi, al campo di Ain al-Helwe spianato dalle bombe. Ma a nessun giornalista di Beirut era permesso di entrare nella zona di occupazione israeliana.
Il maggiore che fermò me e il giornalista del Washington Post Jonathan Randal sulla strada a sud di Khalde ce lo disse senza mezzi termini. Era un uomo grassoccio, con i capelli castani striati di grigio e parlava un inglese modesto. Si appoggiò al tetto della nostra auto e ci guardò attraverso il finestrino scuotendo vigorosamente la testa. «Ho ricevuto ordini di non permettere a nessun corrispondente di Beirut di andare più a sud di qui» disse. «Dovete tornare indietro.» Randal gli spiegò lentamente e pazientemente che, sebbene fossimo giornalisti - gli mostrammo spontaneamente i nostri tesserini - in realtà stavamo andando a Sidone per vedere se la moglie e la figlia di un nostro collega libanese erano ancora vive. Dovevamo portarle dei soldi da parte del marito. «Niente da fare» disse il maggiore. «Mi scusi», rispose Randal. «Ma evidentemente lei non ha capito. Stiamo andando a Sidone a cercare la famiglia di un nostro collega. Perciò deve lasciarci passare.»
Intorno a noi, la strada era nel caos. Camion militari che trasferivano le truppe in prima linea, mezzi corazzati per il trasporto del personale e pezzi di artiglieria trainati da altri camion stavano cercando di infilarsi tra la nostra auto e la buca scavata da una bomba che era scoppiata a un metro dalla carreggiata. Una salva di razzi katyusha sparati dall'Olp da dietro l'aeroporto di Beirut fischiò sulle nostre teste ed esplose su un dirupo sopra di noi. Il maggiore era furioso. E Randal lo era altrettanto. Scese dalla macchina. Era un uomo snello e muscoloso, fissato con i dettagli come tutti i giornalisti, e molto irascibile. «Stia a sentire, amico» - Randal chiamava tutti «amico» quando era nervoso o arrabbiato - «le ho già detto che dobbiamo passare. Deve assolutamente lasciarci arrivare a Sidone. La nostra è una missione umanitaria.» Il maggiore agitò un dito sulla faccia di Randal. «Non me ne importa niente» urlò.
Randal alzò gli occhiali sulla fronte - questo era sempre un segnale pericoloso - e attraversò la strada passando davanti a un altro camion militare. Dietro c'era un carro armato Merkava, con la sua enorme canna puntata a nord verso l'aeroporto. Randal gli si avvicinò, seguito dal maggiore. «Vede quel carro armato?» chiese. Il maggiore lo guardò. «Be' io pago le maledette tasse perché voi possiate avere quei maledetti giocattoli, quindi ci faccia passare e non discuta.» Un altro uomo si avvicinò a loro, un ufficiale più giovane che parlò al maggiore in ebraico. «Non sposterò la macchina da questa maledetta strada fino a quando non mi farete passare.» Il maggiore alzò un dito ammonitore. «Dico sul serio. Lei vorrebbe ordinare a un americano di togliersi di mezzo, ma finché dovrò pagare le vostre maledette guerre con i miei soldi, non ho nessuna intenzione di muovermi di qui.» L'ufficiale più giovane fece un cenno a Randal. «Potete andare» disse. Fu così che raggiungemmo Sidone.
La strada costiera era tutta una scena di devastazione. Damur era in macerie, il tanfo dei cadaveri scendeva dalla città fino alla strada a due corsie. Sulla carreggiata opposta, il corpo di un palestinese era stato schiacciato, investito ripetutamente dai veicoli diretti a Beirut, pressato sull'asfalto fino al punto che il cadavere e la polpa rossastra che usciva dal suo stomaco non superavano lo spessore di pochi centimetri.
Su tutte le case lungo la strada sventolavano lenzuola o asciugamani bianchi, dalle antenne della televisione, dai balconi, da pennoni improvvisati montati sui tetti e sui garage. Tra la strada e il mare, lungo la spiaggia, gli israeliani avevano eretto accampamenti sui quali le loro bandiere bianche e azzurre ondeggiavano nella brezza estiva. Sul fiume Awwali, c'erano i miliziani di Haddad e un agente della polizia militare israeliana che ci chiese il passaporto e voleva riempirlo di timbri con la stella di David. Non glielo permettemmo, facendogli notare che quel posto di guardia non segnava la frontiera settentrionale di Israele.
Sia io che Randal conoscevamo bene Sidone - andavamo lì dal 1976 - ma la piazza dove si trovano gli uffici comunali e la caserma dei vigili del fuoco era irriconoscibile. La strada era una distesa di polvere disseminata di crateri e di pezzi di ferro contorto, gli edifici erano bruciati e pericolanti, il municipio era stato sventrato da una bomba che ne aveva sfondato la facciata, c'era un buco di cinque metri sul muro di pietra sopra al portone. Alla sede della Croce Rossa libanese, una dottoressa ci disse che erano morte duemila persone.
«State attenti» continuò. «La gente è spaventata. Gli israeliani hanno portato sulla spiaggia tutte le persone dai sedici ai sessant'anni e poi sono arrivati uomini incappucciati scortati da poliziotti in borghese. Ogni volta che gli uomini con il cappuccio puntavano il dito contro un prigioniero, gli israeliani lo portavano via. C'erano decine di migliaia di persone sulla spiaggia, e ne hanno arrestate a centinaia. Gli incappucciati indicavano anche libanesi che non avevano mai posseduto una pistola. Gli incappucciati erano collaborazionisti. Puntavano il dito contro uomini che odiavano i palestinesi ma anche quelli venivano portati via. Se andate sulla strada per Jezzin, troverete i cadaveri. Andate a vedere la scuola, il palazzo Jad e gli edifici lì intorno. Sono stati tutti colpiti.» Mentre ce ne stavamo andando, la donna ci corse dietro e mi prese per un braccio. «Non fate dire alla gente cose per cui potrebbe essere incriminata» disse. «Vi prego, ricordatevelo. dobbiamo stare attenti perché adesso siamo sotto occupazione.»
Sulla strada di Jezzin, un cingolato israeliano era parcheggiato vicino a una casa distrutta, i soldati erano seduti sul retro a mangiare arance. Uomini e donne passavano senza guardarli, tenendo gli occhi fissi sul centro della città e camminando come assenti attraverso un nugolo di polvere. Sulla strada aleggiava una nebbia gialla attraverso la quale penetrava quel terribile odore. La nostra reazione alla morte - alla realtà dei cadaveri e delle mutilazioni - tendeva a essere pragmatica. Non poteva essere altrimenti.
I giornalisti che raccontano le guerre devono essere distaccati come i medici nei confronti degli aspetti fisici della morte. Dovevamo trovare la forza psicologica di convincerci che quei dettagli raccapriccianti erano anche fatti scientifici: dovevamo interpretare l'odore della decomposizione umana non come qualcosa di disgustoso ma come un processo chimico naturale, anche se sgradevole. Ma tutto questo è più facile a dirsi che a farsi. La morte è spaventosa. I morti del Libano - la vista continua di cadaveri gettati come sacchi sulle strade, nei fossati e nelle cantine - ci ricordavano costantemente quanto fosse facile essere uccisi. E una lezione necessaria. Sarebbe bastato superare una linea sottilissima, commettere un piccolo errore di giudizio nel decidere quando attraversare una strada quando sorridere o quando rimanere seri davanti a un uomo armato, per fare la differenza tra la vita e la morte.
Ma un corpo in decomposizione è disgustoso. L'odore dei resti umani a una temperatura di 40° è nauseante. Contraddice tutti i nostri valori più profondi: l'amore, la bellezza, il rispetto, la salute, la pulizia, l'igiene, la vita. Sia a livello fisico sia mentale, quel tanfo era la manifestazione della nostra paura e della nostra repulsione. Appena scendemmo le scale della scuola elementare di Sidone, provammo il vecchio e familiare impulso di vomitare. L'odore di quegli uomini, donne e bambini, denso e nauseante, ci inondò, cercando di cancellare dalla nostra mente e dal nostro corpo le domande che avremmo dovuto fare. Perché erano morti lì sotto? Come era potuta accadere una cosa così abominevole? Se un attacco alla Galilea con i katyusha che uccideva una, cinque o dieci persone era «terrorismo», che cos'era quel carnaio? Per tutta risposta, le mosche ci tesero un'imboscata sulle scale, concentrandosi voracemente sulle nostre labbra e sui nostri occhi, portando la corruzione di quei corpi sulle nostre facce.
(...)
Sul tetto della scuola c'era un buco, come quello che avevamo visto prima sulla porta del municipio, provocato dalla bomba. Non era esplosa a contatto con il tetto. Era stata progettata per detonare solo quando non avrebbe più potuto sfondare le superfici dure che incontrava. Quindi aveva attraversato i tre piani dell'edificio fino a raggiungere la cantina buia nella quale i rifugiati si erano accalcati in preda al terrore e soltanto allora, quando era arrivata a contatto con il 'pavimento solido e impenetrabile, era scoppiata.
I corpi giacevano in un'enorme catasta, con i bambini in cima e le donne sotto di loro. La bomba doveva aver sollevato la massa di corpi e risucchiato i più 'pesanti in un vortice. La polvere di calce biancastra formava uno strato più spesso su alcune parti del cumulo piuttosto che su altre, lasciando esposti i bambini, con le gambe divaricate e la testa all'ingiù. Randal era vicino a me e scribacchiava sul suo taccuino. Poi se lo mise in tasca e guardò semplicemente il grande mucchio di corpi. Vidi spuntare le lacrime nei suoi occhi. «Dio santo» disse. «Povera gente, povera gente.»
Il giorno dopo, a Beirut Est, un ufficiale israeliano «addetto ai contatti con la stampa» mi avrebbe detto che la storia dei cadaveri insepolti di Sidone era solo «propaganda dell'Olp», che tutti quelli che erano morti nella città erano «terroristi» o - nel peggiore dei casi - erano morti per mano dei «terroristi». La notizia che più di cento persone, bambini compresi, erano morte nello scantinato di quella scuola era «una sciocchezza». Mi consigliò di «controllare i fatti» prima di scrivere articoli diffamatori. Quando gli dissi che ero stato nella scuola e avevo visto i corpi con i miei occhi, mi disse che non ero stato autorizzato ad andare a Sidone. Che avrei dovuto essere accompagnato da un ufficiale israeliano e che non sarei più dovuto tornare in quella città.
In quel torrido pomeriggio, davanti alla scuola, l'equipaggio del veicolo corazzato aveva finito di mangiare arance. Doveva aver sentito il tanfo dei cadaveri ma non tradiva alcuna curiosità. Quelle persone erano morte da undici giorni. ma nessuno le aveva ancora sepolte. Nel frattempo, quante altre ne erano state estratte dalle cantine?
(…)
Ma in altre zone di Sidone, le bombe israeliane avevano distrutto gli edifici e ucciso i loro occupanti a caso. Una famiglia era morta nella sua abitazione nel quartiere di Sabbagh. Venti civili erano rimasti carbonizzati nello scantinato del palazzo Baba. L'esplosione che li aveva uccisi aveva scagliato i corpi fuori della cantina e li aveva sparsi sulla strada. Più tardi gli israeliani avrebbero dichiarato di aver lanciato volantini sulla città in cui ordinavano ai civili di raccogliersi sulla spiaggia. A Tiro lo avevano fatto. Ma quel giorno gli abitanti di Sidone ci dissero - e in seguito gli israeliani me lo avrebbero confermato in privato - che l'avvertimento non era giunto in tempo. I volantini erano stati lanciati, ma solo dopo il bombardamento; a quel punto il muhafiz, il governatore, stava già ordinando la costruzione della prima fossa comune sulla piazza in fondo a via Riyad Solh.
La città era coperta da una nuvola di sabbia e polvere. Gli incendi divampavano ancora e i giorni e le notti di bombardamenti aerei avevano polverizzato a tal punto il campo di Ain al-Helwe che l'aria era piena del pulviscolo prodotto dalle centinaia di case distrutte. Impiegammo diverse ore a capire perché tanti giovani uomini avevano quell'aria sbigottita. Erano storditi per quello che era successo nell'ultima settimana, ma avevano anche il terrore di essere arrestati. A quel punto, cominciava già a circolare la voce che i soldati israeliani picchiavano a morte i prigionieri o li lasciavano morire di fame.
Quasi tutti gli uomini che erano stati arrestati sulla spiaggia furono bendati e portati in due posti: nella scuola delle suore di San Giuseppe o nella fabbrica Safa per l'inscatolamento della frutta, alla periferia sud di Sidone. Si diceva che li almeno dieci uomini fossero morti di sete dopo essere stati picchiati dalle guardie israeliane. Io e Randal trovammo un volontario della Croce Rossa che era stato trattenuto con i prigionieri.
«Ci hanno tenuti lì quattro giorni, quasi sempre all'aperto» disse. «Ci davano da bere ma niente da mangiare e accanto a me sono morti dieci uomini. Ne ho visto uno - credo che fosse palestinese - chiedere da mangiare. Un soldato lo ha colpito allo stomaco con il calcio del fucile e l'uomo ha cominciato a sputare sangue. È crollato a terra ed è morto soffocato nel suo sangue. Non so perché gli israeliani si comportino così. Molti di noi odiavano i palestinesi ed erano contenti del loro arrivo. Ma adesso hanno arrestato centinaia di persone, tra cui anche un uomo di sessantadue anni.»
Queste descrizioni sarebbero diventate ogni giorno più frequenti. Gli israeliani negavano che fossero vere e sostenevano che tutti quelli che diffondevano questi racconti erano «sospetti terroristi». Dato che soltanto quelli che erano stati arrestati potevano aver assistito a queste violenze - e dato che tutti gli arrestati erano «sospetti terroristi» - qualunque giornalista prendesse sul serio i loro racconti era un ingenuo o una vittima della «propaganda dell'Olp». Ma quelle storie erano vere. In seguito, anche alcuni ufficiali israeliani parlarono di questa persistente brutalità e diciotto mesi più tardi, dopo mesi di indagini a Sidone, scoprii le tombe di sette uomini che erano morti durante la prigionia e che la notte dell'11 giugno - una settimana prima che io e Randal arrivassimo a Sidone - erano stati fatti portare al cimitero locale da un ufficiale israeliano per essere sepolti in segreto.
Era evidente che l'occupazione israeliana sarebbe stata dura e implacabile, sebbene gli agenti dello Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano, stessero già arrivando a Sidone - così come gli agenti delle mukhabarat siriane seguivano sempre il loro esercito - per istituire un sistema di identificazione che avrebbe suddiviso i civili in cittadini ostili, neutrali o fidati. Quel pomeriggio del 18 giugno, parecchi libanesi - compreso un uomo di settant'anni - mi mostrarono i loro passaporti timbrati dagli israeliani. Su tutti c'era il numero 0507, ma alcuni timbri erano rettangolari, altri oblunghi o circolari. In tutti figurava la stella di Davide. Ma ai proprietari dei passaporti non era stato detto a quale categoria appartenessero. Il vecchio aveva un timbro circolare sul suo passaporto. Era considerato un cittadino rispettoso della legge? O un «sospetto terrorista»?
Randal e io ci accorgemmo che alcuni agenti israeliani in borghese armati di mitragliette Uzi avevano cominciato a guardarci con diffidenza mentre intervistavamo i libanesi nelle strade di Sidone. Dopo aver parlato con una donna, vidi che uno di loro la prendeva da parte e la interrogava. Eravamo sulla piazza più a sud della città, a pochi metri dalla fossa comune. Ai lati della strada, sommersi dalla polvere degli autobus e dei carri armati israeliani, c'erano diversi profughi palestinesi rimasti senza casa. Non osammo fare domande per non correre il rischio di attirare l'attenzione su di loro. Ma attraverso la folla, vedemmo venire verso di noi la figura piccola e bionda di una ragazza europea in un lungo abito azzurro, probabilmente non aveva più di diciassette anni.
Vista più da vicino, dimostrava il doppio della sua età. Aveva gli occhi iniettati di sangue e camminava leggermente curva. Accanto a lei, un uomo spingeva un carretto carico di vestiti. La fermammo e le chiedemmo chi fosse. «Sono tedesca, ma sono sposata con un palestinese» disse. «Lo hanno preso gli israeliani. Non so dove sia. Sto andando al campo per vedere se la nostra casa esiste ancora.» La ragazza era stanca e aveva la testa piegata da un lato. Non volle dirci altro e si avviò di nuovo tra la folla. Ma poi si fermò e si girò verso di noi. «Sono qui da sei mesi» disse. «Sono sopravvissuta a tutto.» Poi scomparve.
Randal e io ripartimmo da Sidone in silenzio. Ci stavamo ponendo entrambi le stesse domande. Se lì gli israeliani si erano comportati in quel modo - se avevano potuto uccidere tanti civili in un periodo di tempo così breve - quanti ne avrebbero uccisi a Beirut, dove almeno mezzo milione di persone vivevano ammassate nel settore occidentale accerchiato della città?
A sud di Damur, ci imbattemmo in un convoglio che ci diede motivo di temere il peggio. In realtà, non era un convoglio ma una mostruosa colonna lunga venticinque chilometri di carri armati Merkava e Centurion, che procedevano in fila per tre a venticinque chilometri all'ora lungo la strada costiera in direzione di Beirut. Era come se l'intero esercito israeliano stesse avanzando verso la città, un unico gigantesco millepiedi corazzato, con i cingoli dei carri armati che tracciavano solchi nell'asfalto e falciavano l'erba alta dello spartitraffico centrale, inondando il paesaggio con la nebbia bluastra dei loro gas di scappamento.
Ci infilammo in questa legione di mezzi corazzati, facendoci strada a colpi di clacson tra camion per il trasporto delle truppe, autocisterne, jeep e camion carichi di munizioni. Gruppi di carri armati erano già stati parcheggiati sulla collina un po' più avanti e schierati nei contrafforti sopra Kfarshima e Hadath. Gli israeliani stavano inviando una tale quantità di attrezzature militari a Beirut che le spiagge e le piantagioni di banane tra la strada costiera e il mare erano coperte di carri armati e di artiglieria pesante per una trentina di chilometri. A volte, io e Randal dovevamo sterzare bruscamente per evitare di andare a sbattere contro le canne dei Merkava che si spostavano a destra e a sinistra avanzando.
A Khalde, i poliziotti israeliani stavano cercando di incolonnare i carri armati in un'unica fila sulla stretta strada che passa a ovest di Beirut, ormai coperta di macerie, casse rotte di munizioni e migliaia di bossoli vuoti. Doveva esserci un'intera divisione dell'esercito in marcia con tutti i suoi mezzi corazzati e la sua artiglieria. Gli israeliani avevano piazzato i mortai e l'artiglieria a est di Khalde, da dove controllavano l'aeroporto e l'estremità meridionale del perimetro di Beirut. I carri armati erano per la maggior parte Centurion inglesi con la corazza rinforzata alla base delle torrette. L'artiglieria pesante era stata piazzata sotto i ponti dell'autostrada. Non avendo abbastanza camion, per trasportare le truppe di rinforzo l'esercito israeliano aveva perfino requisito alcuni autobus privati Egged, con i manifesti pubblicitari di Gerusalemme e di Haifa ancora incollati dietro.
(…)
Dopo che gli israeliani avevano ucciso migliaia di civili nella prima settimana e mezzo di invasione del Libano, adesso la macchina propagandistica del loro esercito cercava di riportare in vita le vittime. Lo sdegno con cui la comunità internazionale aveva accolto la pesante perdita di vite umane lo rendeva indispensabile. Sulla carta, era un compito facile. I soldati israeliani, ci ripetevano ad nauseam, rischiavano la loro vita per difendere quella dei civili. Il portavoce delle Forze di difesa israeliane di Tel Aviv produsse perciò un documento di sessantasei pagine per la stampa internazionale, un opuscolo che conteneva notizie talmente distorte e imprecise e dichiarazioni talmente false che in seguito perfino gli israeliani avrebbero espresso imbarazzo per la sua pubblicazione.
Nel comunicato si sosteneva che nei feroci scontri intorno a Nabatiye erano morti soltanto dieci civili, che a Tiro ne erano rimasti uccisi solo cinquanta e «circa quattrocento» a Sidone. Nonostante l'evidenza della strage di Sidone la brutalità dell'attacco e del bombardamento aereo del campo profughi di Ain - al-Helwe con le sue migliaia di abitanti, nonostante l'enorme numero di vitime causato dagli attacchi aerei contro i palazzi residenziali di Beirut Ovest, quel documento ipocrita affermava che l'esercito e l'aviazione israeliani «avevano evitato con la massima cura di provocare vittime tra la popolazione civile».
Quando cercava di dimostrare che i guerriglieri palestinesi avevano le loro postazioni vicino alle case e agli ospedali, citava il mio servizio da Sidone del 18 giugno - ma soltanto i paragrafi in cui dicevo che gli abitanti si erano lamentati del fatto che l'Olp avesse messo in pericolo la vita dei civili. Nel documento era riportata una fotocopia di questa parte del mio articolo, ma erano state completamente eliminate le prime 531 parole, che denunciavano la brutalità dei loro raid, i più di cento cadaveri trovati nello scantinato della scuola elementare e le stime della Croce Rossa secondo le quali le vittime civili sarebbero state tra 1500 e 2000.
(...)
Verso la fine della seconda settimana dall'inizio dell'invasione, tuttavia, questa grossolana riscrittura della storia crollò sotto il peso delle prove, raccolte a Beirut Ovest e in tutte le zone del Libano occupate dagli israeliani, che nel corso dei raid erano state uccise l4mila persone - per la maggior parte civili - e ne erano state ferite altre 20mila. I dati della Croce Rossa e della polizia libanese, a volte raccolti da personale che non disapprovava la nuova «realtà» politica creata dall'invasione israeliana, dimostravano che alla fine della prima settimana (14 giugno), in tutto il Libano, erano morte 9583 persone e ne erano state ferite 16608. Non si faceva distinzione tra uomini, donne e bambini, ma la polizia diceva che per la maggior parte erano persone morte durante gli attacchi aerei israeliani.
Al di fuori di Beirut, il maggior numero di vittime era stato a Sidone, dove la polizia locale - che adesso collaborava con le autorità di occupazione israeliane - aveva denunciato 1109 morti e 3681 feriti soltanto nella città. Ma altre 1167 persone erano morte e 1859 erano rimaste ferite nei campi profughi palestinesi di Ain al-Helwe e Miye Miye vicino a Sidone. A Tiro, tra uomini, donne e bambini, i morti erano stati 1200, per la maggior parte nei campi profughi palestinesi di Rashidiye, Burj ash-Shamali e al-Bass. E i feriti ammontavano a 2018.
Il fetore cosmico
Anche la giornalista Belen Fernandez ricorda quei drammatici giorni.
L’invasione del 1982, che il governo israeliano vendette come “Operazione Pace per la Galilea”, avrebbe avuto luogo come rappresaglia per il tentato omicidio di Shlomo Argov, l’ambasciatore di Israele in Gran Bretagna. Anni dopo, il Guardian osservò drammaticamente: ”E’ dall’uccisione dell’arciduca Ferdinando a Sarajevo nel 1914, che una squadra di sicari ha reso la guerra un risultato così probabile”, fornendo un “pretesto” all’allora ministro della Difesa israeliano Ariel Sharon per la sua “campagna a lungo pianificata per eliminare” l’OLP, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina con sede a Beirut.
Non importa che l’OLP avesse condannato il tentativo di omicidio – o che in primo luogo non ci sarebbe mai stato un’OLP se Israele nel 1948 non avesse massacrato 10.000 palestinesi e trasformato altri tre quarti di essi in milione in rifugiati.
Nel suo libro di memorie sulla guerra civile libanese “Beirut Fragments”, Jean Said Makdisi – una scrittrice e studiosa palestinese residente a Beirut e sorella del defunto Edward Said – ricorda che, all’inizio di “Peace for Galilee”, si sentì molto parlare di Argov, il nominato casus belli. Ma che alla fine una simile motivazione aveva avuto vita breve: “Dopo un po’ nessuno menzionò più l’ambasciatore, finché – parecchie decine di migliaia di morti dopo; diverse centinaia di migliaia di profughi più tardi; dopo che gran parte di Tiro, Sidone, Damour e Beirut, per non parlare di dozzine di altre città e villaggi, erano state distrutte, sul giornale apparve un breve articolo nel quale si informava che era sopravvissuto ed era stato dimesso dall’ospedale”.
A un certo punto, Said Makdisi si chiede se sia possibile esprimere a parole l’orrore dell’assedio, descrivendo “il cielo arancione con la luce innaturale delle bombe al fosforo che esplodono; le urla sibilanti dei jet che sfrecciano verso la morte”. Il 4 agosto il figlio le sussurra: “Mamma, oggi moriremo; di sicuro, moriremo”.
Gli orrori continuano. Le famiglie impossibilitate a raggiungere il cimitero a causa dei pesanti bombardamenti sono costrette a gettare in mare i corpi dei propri cari e il crematorio dell’ospedale AUB non è in grado di tenere il passo con la domanda. Il debutto a Beirut della bomba termobarica vede un edificio di otto piani nel quartiere di Sanayeh polverizzato insieme a tutti quelli che vi si trovano. Il 12 agosto – il giorno del cessate il fuoco, a seguito dei negoziati per l’imminente evacuazione dell’OLP da Beirut – Said Makdisi è in piedi sul balcone mentre l’esercito israeliano continua il suo bombardamento: “Era come se gli israeliani avessero raggiunto un parossismo di odio violento; un impulso folle e distruttivo di uccidere, cancellare ogni essere vivente, non lasciare nulla in piedi, sradicare la città”.
Questo, ovviamente, non è stato l’ultimo parossismo di odio violento sponsorizzato da Israele. Il mese successivo, dal 16 al 18 settembre, diverse migliaia di civili palestinesi e libanesi disarmati furono massacrati nei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut dalle milizie libanesi di destra sostenute da Israele. Le forze armate israeliane avevano circondato i campi e usato razzi per illuminare la strada degli assassini. Come documenta Bayan Nuwayhed Al-Hout nel suo libro “Sabra and Shatila: September 1982”, l’uccisione di bambini e fanciulli non ancora nati fu “un fatto comune” durante il massacro, con i miliziani che accoltellavano le donne incinte e ne strappavano i feti dal ventre.
Alla fine di settembre 1982 Israele si ritirò dalla capitale libanese, sebbene per altri 18 anni l’esercito avrebbe continuato a presiedere una pesante occupazione nel Libano meridionale. Dopo il ritiro da Beirut, osserva Said Makdisi, i residenti della città cominciarono a sentire “l’aspetto più straordinario” dell’occupazione; i soldati israeliani avevano defecato dappertutto: su libri, vestiti, tappeti, mobili, banchi di scuola, ecc..
Al posto della morte sfrenata e della distruzione, quindi, rimase un “grande mucchio di escrementi” – un “fetore cosmico” che fungeva da memoriale dell’assedio. Ora, 40 anni dopo l’invasione del Libano nel 1982 – mentre Israele persiste con i suoi folli impulsi di uccidere in Palestina e altrove – il fetore è ancora cosmico.
Belen Fernandez – 4 giugno 2022 https://www.invictapalestina.org/archives/46027
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