Un accordo che cambierà il volto del Medio Oriente
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espritc@rsaire, 23 novembre 2014 (trad. ossin)
Iran-Stati Uniti e nucleare iraniano
Un accordo che cambierà il volto del Medio Oriente
Bernard Hourcade
“Mai la possibilità di un accordo è stata così vicina”. Il segretario di Stato statunitense John Kerry e il viceministro degli Affari Esteri russo, Serguei Ryabkov, da un po’ gareggiano in frasette ottimistiche. Sembrano voler preparare le opinioni pubbliche e le cancellerie diplomatiche ad un avvenimento che aprirà le porte ad un importantissimo cambiamento nei rapporti di forza in Medio Oriente: il ritorno dell’Iran come attore politico ed economico proattivo e non più solo reattivo, isolato nel campo dell’opposizione
Si volterà pagina questo lunedì 24 novembre, alla scadenza dei negoziati per il nucleare iraniano? La posta in gioco va molto al di là della questione, già gravissima in sé, della proliferazione nucleare. Si tratta né più né meno di porre termine a 35 anni di conflitto tra la Repubblica Islamica dell’Iran e gli Stati Uniti. Appare evidente che gli alleati locali degli Occidentali non sono in grado di governare le crisi regionali che si amplificano: “primavera araba”, guerra di Siria, emergenza dell’organizzazione dello Stato Islamico (IS), rivalità montante tra Arabia Saudita e Iran, che va degenerando verso un conflitto culturale e religioso sunnita/sciita incontrollabile, deterioramento del conflitto israeliano-palestinese, che va assumendo anch’esso caratteri religiosi. La caduta del prezzo del petrolio e le grandi manovre sul mercato del gas aggiungono, infine, una posta economica a queste crisi delle quali l’Iran è protagonista. Un accordo internazionale sul nucleare iraniano non produrrà un rovesciamento di alleanze ma solo l’avvio di un ritorno all’equilibrio, a un po’ di razionalità, indispensabile per stabilizzare la regione. A breve termine, esso è indispensabile perché la crisi provocata dallo Stato Islamico non degeneri in guerra.
Il nucleare non è più la priorità. Un buon accordo è sicuramente indispensabile, ma è urgente voltare la pagina diplomatica e valutare i nuovi rapporti di forza sul campo. Perfino in Israele, alcuni responsabili militari ritengono che il rischio maggiore non sia più la minaccia nucleare iraniana, né la crisi palestinese, né Hezbollah, ma, dopo l’offensiva israeliana a Gaza dell’estate 2014, l’appannamento dell’immagine di Israele e del sostegno mediatico, e dunque politico, di cui gode.
Un accordo di fatto
Un fallimento totale dei negoziati è fin d’ora impossibile, giacché da più di un anno i diplomatici iraniani e statunitensi si incontrano quotidianamente, cosa che è stata impossibile, e perfino vietata, negli ultimi 35 anni. Nessuna forza di opposizione, in Iran e negli Stati Uniti, sembra in grado di imporre una marcia indietro e bloccare la normalizzazione de facto delle relazioni tra Iran e Stati Uniti. Indubbiamente la costruzione di una coesistenza pacifica sarà lunga e difficile, dopo tre decenni di rottura tra il “Grande Satana” USA e lo “Stato canaglia” iraniano. Cambiare il vocabolario è una prima tappa che i diplomatici e gli esperti delle due parti hanno già superato, nel rispetto degli interessi reciproci. E’ un successo irreversibile.
La firma formale, alla data prevista del 24 novembre, di un accordo globale sul nucleare sarebbe “sensazionale”, ma la cosa più importante è di raggiungere un accordo politico che garantisca la buona esecuzione di un accordo tecnico, e che non si ripeta la drammatica esperienza dell’accordo Iran-Unione Europea dell’ottobre 2003, che nessuno ha voluto applicare. E’ acquisito ormai che le due parti vogliono e hanno bisogno di un accordo. Il presidente statunitense sembra determinato a realizzare, a proposito dell’Iran, un successo nella gestione delle crisi regionali. Sulla scia della lettera inviata il 6 novembre 2014 da Barack Obama alla Guida Suprema iraniana Ali Khamenei, è stata organizzata un riunione a Oman, il 9 novembre, tra il ministro degli affari esteri Mohammad Javad Zarif, John Kerry e Catherine Ashton, l’alta rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri. Essa sembra avere confermato che vi è un consenso di fondo sul panorama e gli scenari possibili, ma anche sul quadro politico di insieme (“gli esiti complessivi”), secondo l’espressione usata dal negoziatore iraniano Abbas Araghchi. Si può dunque ritenere che il programma nucleare iraniano sia oramai sotto controllo e che sia acquisito il principio della revoca delle sanzioni economiche internazionali contro l’Iran.
Perché si vada oltre l’enunciazione di principio, occorre che in qualche giorno si raggiunga un accordo preciso e tecnico su diversi punti: numero di centrifughe in attività, controllo e uso degli stock di uranio arricchito, specifica intesa sul reattore di Arak, calendario della revoca delle sanzioni economiche e programma di controllo… Il meglio essendo nemico del bene, ci si può accontentare di un accordo parziale, che verta su immediate decisioni significative e su una tabella di marcia per la regolamentazione dei dettagli che rimarranno in sospeso. Un accordo “a buchi” che risulterà tanto più facile colmare, se la fiducia reciproca sarà rafforzata dall’esperienza infine ritrovata di relazioni economiche, sociali, culturali e politiche “normali”. Passando al secondo livello di priorità, dopo l’IS e soprattutto la questione palestinese, la crisi del nucleare iraniano, risolta sul piano dei principi, potrebbe così trovare progressivamente, discretamente, la sua soluzione definitiva.
Una opposizione rassegnata
Non sarà il “grand soir” (1) e questo accordo “a buchi” è forse preferibile, perché sono numerosi gli oppositori ad un accordo definitivo che renderebbe possibile il ritorno dell’Iran. Meglio nessun accordo che un cattivo accordo, continuano a ripetere gli Israeliani, la maggioranza del Congresso USA – sia democratici che repubblicani – e le monarchie petrolifere. La posizione del governo francese sembra avere avuto un’evoluzione sul punto. Questo accordo Iran-USA, tanto globale che parziale, viene considerato da Israele e le monarchie arabe come un accordo abbandono, dopo quello che ha consegnato nel 2003 il governo dell’Iraq agli Sciiti. A Tel Aviv si torna a parlare di azioni militari, mentre in Arabia Saudita si fanno progetti per dotarsi di un’industria nucleare equivalente a quella di Teheran, con l’aiuto del Pakistan. Nel Congresso USA e tra i gruppi di pressione che considerano l’Iran come la principale fonte dei conflitti regionali, si preparano sanzioni più dure. I timori sono grandi e la volontà di mantenere l’Iran sotto controllo è più forte che mai, ma tutti questi oppositori sono anche consapevoli che è passato il tempo in cui potevano beneficiare dell’appoggio esclusivo degli USA. Dovranno oramai rassegnarsi a fare i conti con il ritorno dell’Iran che, in ogni caso, non sarà un “alleato” degli Occidentali per lungo tempo, se mai lo diverrà.
Nemmeno in Iran mancano gli oppositori. Un Comitato per la tutela degli interessi dell’Iran, animato soprattutto dal deputato Mehdi Kouchekzadeh, è nato all’indomani della breve conversazione telefonica tra il presidente Barack Obama e Hassan Rohani nel settembre 2013. La stampa conservatrice (Keyhan, Javan), una parte dei Guardiani della Rivoluzione e i deputati del partito Peydari (resistenza) formano un gruppo di pressione eterogeneo, ma attivissimo nei media e sul campo con le milizie dei bassiji, per ricordare che l’Iran non deve cedere nulla dei suoi diritti e delle sue conquiste, e soprattutto non deve fidarsi degli Stati Uniti e del loro presidente.
Prospettive di cambiamento
Questi radicali constatano con rammarico che la Guida Suprema stessa non è ostile ad un accordo necessario per la sopravvivenza della Repubblica islamica, e sembrano rassegnati ad una lotta di retroguardia. Si preparano dunque a lottare contro le conseguenze politiche, sociali e culturali di una normalizzazione politica, dell’apertura economica e della presenza nel paese di molti residenti stranieri. Ali Khamenei sembra seguire la stessa strategia, quando sostiene la politica di Rohani sul nucleare, ricordando però in ogni occasione la propria ostilità a Israele e la propria determinazione nella “lotta contro l’aggressione culturale occidentale”. La realizzazione di un accordo, anche parziale, sul nucleare rischia dunque di avere per corollario, almeno a breve termine, un discorso anti-israeliano e un irrigidimento della situazione nel campo culturale, dei diritti umani e della condizione della donna. Ma tutti sanno che un ritorno delle imprese occidentali in Iran, alla revoca delle sanzioni, provocherà un cambiamento profondo e irreversibile.
Il Parlamento occupa uno spazio sempre più importante in questo dibattito e cerca di posizionarsi nel processo di ricostruzione politica interna che seguirà all’accordo. Alaeddin Borujerdi, il presidente della Commissione Affari Esteri, ha reiteratamente affermato, soprattutto durante la visita a Parigi del 29 ottobre, che il Majless (Parlamento) dovrà essere investito dell’accordo e convalidarlo, in quanto detentore della legittimità popolare che non è seconda a quella - religiosa – della Guida. Per dimostrare la propria determinazione nei confronti del governo, occupando fin da subito il terreno sociale e culturale, il Parlamento ha appena votato l’impeachment del ministro dell’Università e respinto per quattro volte i sostituti proposti dal presidente Rohani.
Ognuno si prepara a volare verso la vittoria, sia che l’accordo sia globale che “a buchi” o impossibile. Sarà una vittoria per la Guida, che avrà autorizzato l’accordo o difeso gli interessi nazionali in caso di fallimento. Per il governo di Hassan Rohani, un accordo globale sarebbe un successo politico di grande ampiezza, che ne assicurerebbe non solo la rielezione ma consoliderebbe anche il consenso politico e sociale per cambiamenti politici e sociali che metterebbero fine alla “Rivoluzione”, rafforzando la Repubblica Islamica. In caso di fallimento grave, Mohammad Javad Zarif e il governo potranno salvare la faccia evidenziando che essi non hanno ceduto alle pretese eccessive delle grandi potenze.
Ma quest’ultimo argomento nazionalista farà cilecca. Tutti sanno in Iran che un fallimento o una cattiva realizzazione degli accordi aprirebbe la strada alla vittoria dei radicali e dei conservatori alle elezioni parlamentari del 2015 e il probabile ritorno al governo dei partigiani di Mahmoud Ahmadinejad. Soprattutto, vi sarebbe un aggravamento delle tensioni internazionali, con una probabile nuova guerra in Iraq, e soprattutto il crescere della protesta di una gran parte della popolazione e delle élite politiche che chiedono un’apertura, all’interno come sul piano internazionale, e non sono più disposte ad attendere.
1) Grand soir, mito poetico di matrice anarchica e marxista del capovolgimento rivoluzionarioe della creazione di un mondo migliore