Il razzismo israeliano colpisce (anche) gli ebrei neri
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La croix, 4 luglio 2019 (trad.ossin)
Il razzismo israeliano colpisce (anche) gli ebrei neri
Malo Tresca
Due giorni dopo la morte di un giovane «Falasha» ucciso durante un alterco con un poliziotto, migliaia di Israeliani di origine etiope hanno bloccato, martedì 2 luglio, alcune arterie stradali e affrontato le forze dell’ordine dello Stato ebraico
► Perché gli Israeliani di origine etiope scendono in piazza?
Pneumatici bruciati, lanci di bottiglie e pietre contro le forze dell’ordine, petardi e auto date a fuoco. Dopo la morte, domenica 30 giugno, di un giovane israeliano di origine etiope, ucciso da un poliziotto non in servizio vicino alla città costiera di Haïfa, la rabbia dei «Falasha» non si placa. E si ravviva lo spettro dei moti violenti del 2015, quando migliaia di appartenenti a questa comunità incendiarono il paese per denunciare le «discriminazioni» di cui sono vittima.
Organizzati in memoria di Salomon Teka il giorno dei funerali, movimenti civili di protesta contro il «razzismo poliziesco» sono infatti scoppiati martedì 2 luglio nel Nord, ma anche nei dintorni di Gerusalemme, Tel Aviv, e nel Sud, vicino ad Ashdod. Gridando «Basta con gli assassinii, basta col razzismo», i manifestanti hanno bloccato delle arterie stradali, e attaccato veicoli che tentavano di forzare i blocchi improvvisati. Stando alle prime stime poliziesche, sarebbero stati arrestati 136 manifestanti e feriti altre diverse decine. Le forze dell’ordine denunciano 111 feriti.
Ci si chiede se questa nuova vicenda abbia delle radici discriminatorie. Nella loro versione iniziale, le forze dell’ordine hanno detto che il poliziotto incriminato era intervenuto in un litigio tra giovani. Quando questi ultimi hanno saputo quale era il suo mestiere, gli avrebbero lanciato delle pietre contro, e l’uomo avrebbe finito con l’aprire il fuoco. Ma secondo la stampa israeliana, questa versione è contestata dalla famiglia della vittima, e da almeno un testimone oculare. L’indagine interna dovrà dunque stabilire se il poliziotto si trovasse in pericolo quando ha aperto il fuoco.
► Quale è la storia della comunità etiope in Israele?
Dopo un tardivo riconoscimento da parte delle autorità religiose israeliane del loro giudaismo, circa 80 000 ebrei etiopi sono emigrati, nel quadro della «Legge del Ritorno», verso lo Stato ebraico, attraverso due ponti aerei organizzati nel 1984 e nel 1991, chiamate operazione «Mosè» e «Salomone». Per lo più, essi discendevano da comunità rimaste per secoli ai margini della vita civile. Ma l’integrazione dei Falasha nella società israeliana è stata molto complicata. Fin dall’arrivo della loro prima ondata migratoria, i religiosi israeliani li hanno voluti sottoporre ad una «conversione rigorosa al giudaismo» col pretesto che gli ebrei etiopi, lontani centinaia di anni dal Talmud, non seguivano i precetti della tradizione orale.
Oggi la comunità ebraica etiope del paese conta più di 140 000 persone, di cui più di 50 000 nate in Israele. Negli ultimi anni, esse hanno organizzato una serie di manifestazioni per ottenere che altri membri delle loro famiglie, rimaste in Etiopia, potessero stabilirsi in Israele, ma anche per denunciare il razzismo e le discriminazioni cui dicono essere vittime nello Stato ebraico.
«Per evitare di essere confusi per il colore della loro pelle con gli Eritrei – non ebrei e vittime di una recrudescenza di atti discriminatori – gli Etiopi hanno di recente cercato di riaffermare la loro fede nello spazio pubblico, portando ad esempio più di frequente la kippa», osserva Leïla Rharade, ex ricercatrice in servizio, nel 2015, al Centre de Recherche Français di Gerusalemme, associato al CNRS.
► Quale è la risposta delle autorità di fronte ai recenti scontri?
A inizio luglio, il presidente Reuven Rivlin ha fatto appello alla «responsabilità» di ciascuno e invitato all’unità nazionale in questo clima di forte recrudescenza delle tensioni. «Non accetteremo una situazione nella quale i genitori hanno paura di fare uscire i figli di casa, perché possono essere oggetto di violenze a causa del colore della loro pelle», ha detto, «questa non è una guerra civile. Si tratta di una lotta condivisa tra fratelli e sorelle per (…) un futuro comune».
«So che ci sono problemi che devono trovare soluzione. Abbiamo lavorato sodo e ancora dobbiamo lavorare per risolverli», ha detto con maggiore distacco il primo ministro Benjamin Netanyahu, «[ma] noi siamo uno Stato di diritto. Non tollereremo che si blocchino le strade».