Gli Israeliani prima fanno la legge e poi rubano le case ai Palestinesi in nome della legge
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L'orient le jour, 10 maggio 2021(trad.ossin)
Gli Israeliani prima fanno la legge e poi rubano le case ai Palestinesi in nome della legge
Stéphanie Khouri
Le immagini di Gerusalemme, quelle di Cheikh Jarrah o della Città Vecchia, invadono da una decina di giorni i nostri schermi. Il mondo sembra scoprire con sgomento ciò che pure rappresenta la quotidianità per i Palestinesi di Al Qods da diversi decenni: espulsioni, manifestazioni, violenze poliziesche, arresti, prove di forza, incursioni nei luoghi santi… Nei social, un video rappresenta con grande vividezza questa ingiustizia. Alcuni giovani coloni ebrei, in abiti religiosi e gli occhi iniettati, circondano una donna velata. Qui, niente scontro fisico, tutto è nella simbologia dell’immagine: la violenza di un sistema, la spoliazione di una comunità, le sue buone ragioni. Ma il Diritto, in senso proprio, è assente. Sembra avere ceduto il passo ai rapporti di forza
Ma quello che succede è tutto il contrario. Il diritto non è assente, svolge un ruolo di primo piano. Un ruolo di supplenza, come quando i rapporti di forza si istituzionalizzano. Anche qui, niente di nuovo. Quando Gerusalemme è stata conquistata dalle truppe israeliane nel 1967, i tribunali locali e poi la Corte Suprema israeliana sono stati sommersi da decine di ricorsi miranti a espellere delle famiglie palestinesi sulla base di cavilli giuridici. Il quartiere di Cheikh Jarrah, nella parte est di Gerusalemme, tra il monte Scopius e la Città Vecchia, è diventato allora il simbolo di questa conquista che è proseguita sul terreno giuridico. Dal 2008, quasi un centinaio di famiglie palestinesi è stato espulso o vive sotto la minaccia di esserlo. La legge israeliana – che riconosce agli Ebrei il diritto di proprietà se dimostrano che la loro famiglia viveva a Gerusalemme est prima della guerra – non riconosce un’altra fonte di diritti, quella dell’accordo tra il regno della Giordania e l’Unrwa (l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, ndt), in base al quale nel 1956 vennero attribuiti alloggi a 28 famiglie palestinesi scacciate dalla Palestina dagli Israeliani.
Il mondo si preoccupa – a ragione – per lo spettacolo delle violenze a Gerusalemme. Trascurando però la prima e più importante lezione da trarne: ieri come oggi, il diritto viene utilizzato da Israele come uno strumento, giuridico o amministrativo, al servizio della sua occupazione politica e militare. La storia palestinese ne è una lenta dimostrazione: nel secolo e mezzo trascorso, la deportazione dei Palestinesi si è realizzata attraverso due diverse modalità. La prima è la vicenda classica delle conquiste : lo scontro violento, seguito dall’occupazione, e dall’espulsione o dalla sottomissione della popolazione. Si tratta di avvenimenti-chiave, di guerre (quella del 1948 o del 1967), di massacri (quello di Deir Yassine nel 1948 o di Khan Younès nel 1956) o di conquiste (Sinai, Gaza, Golan, Gerusalemme, Cisgiordania) che segnano la grande storia e le menti.
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La seconda modalità, più silenziosa, e anche più difficile da individuare, è fatta di piccoli cambiamenti e di micro-transazioni che si spalmano su più decenni e che preferiscono al fracasso delle armi mezzi più sottili, come lo strumento giuridico o economico. A partire dalla seconda metà del XIX secolo, è stata per esempio la strategia di acquisto di terre in Palestina da parte di organizzazioni ebraiche, come il Fondo nazionale ebraico o l’Associazione di colonizzazione ebraica della Palestina. Sono, dopo la creazione dello Stato ebraico, le leggi che rendono « illegali » decine di villaggi nel deserto del Neguev, e che costringono all’emarginazione, talvolta alla deportazione forzata, le comunità beduine. E’ soprattutto l’insieme dell’arsenale giuridico messo in campo per rendere legale ciò che è stato ottenuto con la forza delle armi : l’esempio più famoso è la legge degli assenti del 1950 che attribuisce allo Stato israeliano i diritti di proprietà degli « assenti », così definiti coloro che sono stati scacciati (dall’esercito israeliano, ndt) dopo il novembre 1947.
Impossible è anche comprendere le attuali violenze senza considerare che esse sono il prodotto delle politiche attuate negli ultimi anni. L’ideologia dello Stato, prima di tutto, è mutata. Allontanandosi dal sionismo egalitario dei padri fondatori, essa si ispira oggi all’obiettivo di istituzionalizzare il dominio di una comunità sulle altre, sulla base della molto controversa legge « Stato-nazione del popolo ebraico » del luglio 2018, che afferma il suprematismo ebraico. Certamente, sporadiche vittorie isolate alimentano la speranza di una giustizia indipendente : nel novembre 2009, la Corte suprema ha ordinato per esempio lo spostamento del muro di separazione in favore degli abitanti del villaggio palestinese di Bilin, in Cisgiordania. Ma il treno è in marcia. Incoraggiata da una politica coloniale aggressiva che ha portato da 3 200 a quasi 450 000 i coloni istallati in Cisgiordania dal 1976 al 2019, la comunità ultraortodossa in piena crescita ha tutte le ragioni di pensare che l’esercito, il sistema giudiziario e lo Stato la proteggeranno, anche se essa è la causa del peggio. Piano piano il paese scivola. Il diritto e la forza diventano le due facce della stessa medaglia.
Da questo punto di vista, Cheikh Jarrah non è che l’ultimo episodio di una serie che si gioca sui tempi lunghi. La Corte Suprema doveva emettere oggi la sua decisione di autorizzare un giudizio di appello ovvero ordinare l’espulsione di quattro famiglie palestinesi originarie del quartiere. Di fronte al rischio di un’escalation, l’udienza è stata rinviata. I Palestinesi lo hanno capito, la lotta per Cheikh Jarrah va oltre i casi individuali di espulsione. E’ molto di più, è la lotta contro la cancellazione metodica di una comunità, di un popolo e di una memoria.
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