Gli Stati Uniti vogliono la guerra per mantenere il loro dominio globale
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Le guerre dell'Impero in declino, 2 aprile 2023 - Nell'ultimo decennio, che ha visto la rapida ascesa della Cina, l'Occidente – sotto la guida degli Stati Uniti – ha implicitamente costruito il proprio pensiero strategico sul modello “Tucidide” delle relazioni statali...
Cf2R (Centre Français de Recherche sur le Renseignement), marzo 2023 (trad. ossin)
Gli Stati Uniti vogliono la guerra per mantenere il loro dominio globale
Michael Brenner
Agli occhi dei funzionari statunitensi, l'importanza dell'Ucraina va ben oltre il suo intrinseco valore geopolitico o economico. Questo era vero nel 2014 come lo è stato nel 2021 – e sicuramente lo è anche oggi. Il significativo investimento degli Stati Uniti nella campagna per riportare l'Ucraina nell'orbita occidentale indica quali sono gli obiettivi strategici più ampi di Washington. Per dirla semplicemente: la crisi trae origine dall’ostilità di Washington nei confronti della Russia. Ha poco a che fare con l'Ucraina in quanto tale. Questo paese infelice è stato l'occasione, non la causa, dell'attuale scontro
Da più di 20 anni, cioè da quando Vladimir Putin è salito al potere, la politica estera statunitense ha, quale obiettivo cardine, il ridimensionamento della Russia come potenza rilevante sulla scena europea (e ancor più su quella mondiale). La rinascita di questo paese dalle sue ceneri, come una fenice, ha turbato Washington – responsabili politici, politici e pensatori allo stesso modo. Anche la minaccia molto più grande che la Cina rappresenta per il dominio degli Stati Uniti nel mondo non ha attenuato questa preoccupazione. Al contrario, la temuta prospettiva di una partnership sino-russa ha rafforzato la volontà di indebolire – se non eliminare del tutto – il fattore Russia nell'equazione strategica USA.
L'attuale scontro russo-statunitense in Ucraina è la logica conseguenza delle crescenti tensioni generate dall'insediamento dell'amministrazione Biden. Questa crisi è una ripresa della conflagrazione iniziale che risale al colpo di Stato di Maidan del marzo 2014, istigato da Washington. Le fasi successive del deterioramento della situazione devono essere viste nel contesto della crescente ostilità delle relazioni russo-statunitense durante questo periodo. I passaggi importanti sono stati:
– l'intervento di Mosca nella guerra civile siriana;
– le ripetute azioni delle amministrazioni statunitensi che si sono succedute, che hanno rotto o si sono ritirate da una serie di accordi sul controllo degli armamenti risalenti alla fine della Guerra Fredda, fatti che hanno sollevato preoccupazioni a Mosca sulle capacità e le intenzioni militari di Washington;
– l'inarrestabile espansione della NATO verso est (con il dispiegamento di sistemi di difesa contro i missili balistici in Polonia e Romania, facilmente convertibili in piattaforme per il lancio di missili offensivi);
– il finanziamento di “rivoluzioni colorate” alla periferia della Russia;
– e il forte sentimento anti-russo suscitato dalla bufala del “Russiagate”.
L'Ucraina rappresenta quindi la rottura definitiva nei rapporti tra Mosca e Washington.
Dall'aprile 2021, i contorni della strategia statunitense nei confronti di Ucraina e Russia sono diventati subito più chiari. Ci sono prove sostanziali che il presidente Biden e i suoi alti funzionari della politica estera ritenessero che ci fosse una ragione, e un'opportunità, per riaccendere la vicenda ucraina [1].
Due i loro obiettivi:
– risolvere in chiave occidentale il duplice problema della Crimea e delle regioni secessioniste del Donbass al fine di ripristinare la piena sovranità territoriale dell'Ucraina, aprendo così la strada alla sua integrazione formale nella NATO e/o nell'Unione Europea;
– indebolire la Russia, o intimidendo Mosca perché facesse concessioni cruciali in linea con le visioni occidentali di quello che dovrebbe essere lo spazio politico dell'Europa orientale, o esercitando pressioni militari attraverso il dispiegamento di una forza ucraina significativamente rafforzata al confine del Donbass, che avrebbe minacciato Mosca con vere ostilità, sia in caso di attacco ucraino attraverso la linea di controllo, che di un'azione preventiva della Russia. Queste ultime opzioni avrebbero portato all'imposizione di sanzioni economiche draconiane, già predisposte, la cui applicazione era attesa con ansia da gruppi influenti dentro e fuori l'amministrazione Biden.
La narrativa predominante sulle cause dello scoppio della guerra presta poca attenzione a questo retroterra conflittuale. Né attribuisce molta importanza alle misure aggressive adottate dal governo di Kiev, in linea con la strategia statunitense. È quindi difficile affermare che l'attacco militare russo del 24 febbraio non sia stato provocato, giustificato o meno che esso sia. Il rafforzamento delle forze ucraine lungo la linea di contatto, abbondantemente rifornite di armi anticarro Javelin e missili di difesa aerea Sprint, può essere considerato un presagio di preparativi per operazioni militari offensive. Washington si aspettava, e Mosca lo ha capito, che la conseguente crisi avrebbe costretto gli europei occidentali ad accettare una serie completa di sanzioni economiche, inclusa la cancellazione dell'accordo Nordstream II. Le sanzioni paralizzanti erano il fulcro del piano che puntava sulla crisi ucraina per provocare un cambio di regime in Russia.
Il team di politica estera di Biden era assolutamente certo che queste misure draconiane avrebbero causato il collasso della fragile e apparentemente monoattiva economia russa. Un vantaggio collaterale per gli Stati Uniti sarebbe stata la maggiore dipendenza dell'Europa dagli USA per le risorse energetiche (in particolare, GNL per sostituire il gas naturale dalla Russia). Inoltre, i legami commerciali sempre più stretti della Russia con le potenze europee si sarebbero interrotti, probabilmente irrimediabilmente. Una nuova cortina di ferro avrebbe diviso il continente, essa sarebbe stata segnata da una linea di sangue, sangue ucraino. Questa nuova realtà geostrategica avrebbe poi consentito all'Occidente di dedicare tutte le sue energie alla Cina. Tutto ciò che gli Stati Uniti hanno fatto nei confronti dell'Ucraina nell'ultimo anno è stato dettato da questi obiettivi strategici.
Insomma, il bersaglio principale di ciò che Washington ha fatto in Ucraina è stata la Russia, con il vantaggio collaterale di rafforzare la tradizionale obbedienza europea a Washington. Il diffuso, e se possibile globale, boicottaggio delle esportazioni russe di gas naturale e petrolio è stato concepito come un modo per drenare risorse finanziarie dall'economia del paese, mentre i proventi delle esportazioni diminuivano. Se a questo si aggiunge il progetto di escludere la Russia dal meccanismo di transazione finanziaria SWIFT, lo shock subito dalla sua economia avrebbe dovuto portare alla sua implosione. Il rublo sarebbe crollato, l'inflazione sarebbe aumentata, il tenore di vita sarebbe diminuito, il malcontento popolare avrebbe indebolito Putin così tanto, da costringerlo alle dimissioni o ad essere sostituito da una cabala di oligarchi scontenti. Per l'amor di Dio, quest'uomo non può restare al potere! [2] Il risultato doveva essere una Russia più debole e legata all'Occidente, o una Russia isolata e impotente.
Coerente con questi scenari ottimistici, era la speranza che la nascente partnership sino-russa sarebbe stata significativamente indebolita, facendo pendere la bilancia a favore degli Stati Uniti nell'imminente scontro con la Cina per la supremazia globale. Come è stato concepito e deciso il piano? In effetti, gli obiettivi generali erano stati fissati sin dall'amministrazione Obama. Fu quest’ultimo ad approvare il golpe di Maidan, supervisionato direttamente dall'allora vicepresidente Joe Biden, che ha agito come prefetto (di solito assente) per l'Ucraina tra marzo 2014 e gennaio 2017. L'amministrazione Obama ha cercato di bloccare l'attuazione dell'accordo di Minsk II, rimproverando Merkel e Macron per aver accettato di esserne i garanti. Questo è il motivo principale per cui Berlino e Parigi non hanno mai fatto il minimo gesto per convincere Kiev a rispettare i suoi obblighi. L'operazione per provocare una crisi nel Donbass era in preparazione negli ambienti neoconservatori (in particolare sotto la spinta dei più influenti tra loro, Tony Blinken e Jake Sullivan) già durante la presidenza Trump – la cui incoerenza e disordine hanno impedito lo sviluppo di qualsiasi calibrata e concertata politica nei confronti dell'Ucraina o della Russia, anche se il peso delle sanzioni imposte è aumentato durante i quattro anni del suo mandato.
Contesto strategico
Così come la politica nei confronti dell'Ucraina va vista nel contesto della dura presa di posizione di Joe Biden nei confronti di Mosca, la politica nei confronti della Russia va collocata nel contesto più ampio della decisione della nuova amministrazione di confrontarsi con i suoi rivali – attuali o potenziali – in tutte le aree. In altre parole, la dottrina Wolfowitz a tutto gas [3]. Il pressing su Mosca si è accompagnato all'abbandono degli impegni storici presi con Pechino su Taiwan, nell'ambito dell'accordo "Una sola Cina" concluso cinquant'anni fa, ed al rifiuto del promesso rinnovo dell'accordo sul nucleare (JPCOA) con l'Iran, imponendo drastiche condizioni che Washington sapeva che Teheran non avrebbe mai potuto accettare. Questo cambiamento nei piani strategici degli Stati Uniti non è stato reso pubblico e nemmeno menzionato nelle comunicazioni ufficiali (ad eccezione dell'annuale National Defense Review del Pentagono e del nuovo concetto strategico della NATO) [4]. Non ha suscitato l'interesse dei media né si è cercato il consenso della più ampia comunità di politica estera, che negli ultimi vent'anni era comunque giunta gradualmente ad accettarne i principi e gli obiettivi fondamentali.
La strategia degli Stati Uniti come descritta sopra, quindi, non è stata tutta concepita dalle menti dei funzionari dell'amministrazione Biden. I suoi punti salienti esistono da una generazione. Eppure le premesse di partenza sembrano non corrispondere alle realtà strategiche sotto un aspetto fondamentale. Oggettivamente, gli Stati Uniti sono più al sicuro dai pericoli esterni di quanto lo siano mai stati dalla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Non hanno nemici in grado, o disposti a usare la forza militare contro il territorio nazionale o contro i loro interessi fondamentali all'estero. La Cina non è un avatar del Giappone imperiale e rappresenta una sfida di ordine completamente diverso. La Russia di Putin non è un avatar dell'Unione Sovietica in termini di ideologia o potere. La promozione degli interessi nazionali russi e il desiderio di assicurarsi un posto come attore importante sulla scena mondiale sono ciò che i principali paesi hanno sempre fatto. Si tratta di realtà che lascerebbero aperta la strada ad accordi di conciliazione.
L’idea però che gli USA hanno del loro posto nel mondo si discosta da questa linea di pensiero per due aspetti fondamentali. In primo luogo, la preoccupazione principale di Washington non è la sicurezza in sé, ma piuttosto il mantenimento della sua posizione dominante negli affari mondiali, con le relative prerogative di agire e dare priorità ai propri interessi nazionali nelle sue relazioni con il resto del mondo. Mentre nei decenni del dopoguerra si poteva giustamente affermare che gli Stati Uniti si erano coscientemente proposti di creare "beni pubblici" che servissero gli interessi dei loro partner oltre che i propri, in seguito i criteri che ne hanno orientato l’azione si sono gradualmente concentrati esclusivamente sul consolidamento del loro dominio mondiale, e sui vantaggi nazionali che conseguono a tale dominio.
Nell'ultimo decennio, che ha visto la rapida ascesa della Cina, l'Occidente – sotto la guida degli Stati Uniti – ha implicitamente costruito il proprio pensiero strategico sul modello “Tucidide” delle relazioni statali. Non è stato l’esito di un percorso coerente e deliberato. Non c'è stato un grande dibattito, né nei circoli intellettuali né tra i politici di alto livello. Di certo, a Washington, la cerchia ristretta dei nazionalisti integralisti e dei "neoconservatori" sapeva esattamente quello che voleva da decenni: un sistema globale dominato dall'egemone USA, che dettasse le regole secondo i propri criteri e fosse pronto utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per farli rispettare. Ciò includeva un’azione preventiva che impedisse l'emergere di qualsiasi grande sfidante, come illustra il progetto di Paul Wolfowitz. L'influenza sproporzionata che hanno esercitato assicurandosi la fedeltà dell'establishment della politica estera del paese rappresenta un risultato notevole, reso possibile dall'assenza di una chiara alternativa che risultasse accettabile per le élite politiche, inclini a fare proprie le idee alla moda promosse dai gruppi più determinati.
La grande strategia ha l'ulteriore vantaggio di essere l’opzione più facilmente percepibile. Anzi, fa rivivere il modello semplicistico della guerra fredda e lo sovrappone alla realtà attuale, molto più complicata e molto meno comprensibile. In effetti, questa versione molto semplificata – persino primitiva – del modello di Tucidide trasforma la strategia in termini di idraulica politica [5]. Il potere di uno Stato, trasmesso attraverso la sua forza militare ed economica, esercita pressioni sugli altri Stati che devono o soccombere o resistere, generando contropressioni. Quando si tratta di un potere in ascesa che minaccia la posizione del potere dominante, il risultato è - il più delle volte - la guerra. Questo è tutto! Ciò è illustrato da molti esempi storici, senza offesa per coloro che negano le peculiarità della situazione attuale del mondo.
La sintesi di tutto questo costituisce una formidabile sfida intellettuale e strategica. Il mondo è diventato troppo complicato per essere spiegato dalle tradizionali dottrine di politica estera. Il risultato non è l’innovazione e l’immaginazione. Al contrario. Cerchiamo rifugio nelle vecchie verità della Realpolitik, vale a dire l'equilibrio di potere e la competizione tra grandi potenze per stabilire posizioni dominanti. La convinzione principale è l'idea che gli Stati Uniti debbano utilizzare tutti gli strumenti di influenza, fino alla forza coercitiva – inclusa quindi la guerra preventiva e a sorpresa – per mantenere la propria preminenza globale plasmando il mondo secondo il proprio disegno. Da qui la crescente accettazione dell'idea che un conflitto tra USA e Cina per il primo posto sul podio della supremazia mondiale sia inevitabile. Alti funzionari militari statunitensi sono arrivati al punto di inserire, in una comunicazione ufficiale del Pentagono, l'avvertimento che dovremmo prepararci alla guerra con Pechino entro due anni [6].
C'è motivo di diffidare di questo determinismo strutturale. Il fatto stesso di trovarci in circostanze fluide e senza precedenti (che probabilmente continueranno ad esserlo all'infinito) sembra sottolineare non solo la possibilità di una grande varietà di esiti, ma anche il fatto che leader capaci e volenterosi avrebbero un certo spazio di manovra per influenzare il percorso. Si può immaginare una sorta di quasi-sistema “misto”.
Questa concezione di un sistema multipolare che ponga l’accento su di un multilateralismo non coercitivo, guidato da una sorta di comitato delle maggiori potenze più influenti, non è stata in alcun modo approfondita e tanto meno presa in considerazione dai leader dei governi occidentali, vale a dire dalle élite che dirigono gli affari esteri dei loro paesi. L'unico statista che ha riflettuto su questa soluzione è Vladimir Putin, che ne ha delineato forme e metodi in numerosi discorsi e scritti a partire dal 2007. La cruda verità è che i suoi omologhi occidentali non hanno mai dato loro molto credito, né riflettuto seriamente sulle idee che tali interventi di Putin enunciavano. Certamente, oggi tutto questo rimane lettera morta. Non c'è possibilità di impegnarsi in un dialogo capace di portare ad un insieme di regole, intese e accordi, che potrebbero formare lo schema di una simile costruzione.
In pratica, simili regole di comportamento (esplicite e implicite) mirerebbero a portare un minimo di ordine in ognuna delle dimensioni di un mondo interdipendente – economia, sicurezza, comunicazioni – senza che vi sia un'architettura globale e primordiale. Inoltre, questi regimi parziali non devono necessariamente essere universali fintanto che i partecipanti marginali non sono in grado di sconvolgere o sfidare la situazione esistente.
Un tale quasi-ordine ha bisogno di un egemone? Non necessariamente; ciò di cui avrebbe bisogno è di controllo. Manterrebbe degli elementi di liberalismo – soprattutto per quanto riguarda le relazioni economiche internazionali, che però sarebbero funzionalmente limitate – e non prevederebbe certamente format politici uguali per tutti. La gestione delle crisi, e la mediazione tra parti diverse dai tre grandi, sarebbero supervisionate dall’intervento benevolo di questi ultimi, o semplicemente congelate. Norme e metodi potrebbero anche essere modificati per tenere conto degli effetti dirompenti che potrebbero causare ad una singola nazione, come il risveglio del nazionalismo insulare e le proteste anti-globalizzazione.
È ovvio che nessun accordo del genere è concepibile senza un incontro tra Stati Uniti, Cina e Russia. Gli Europei sono totalmente privi di volontà politica e si schiereranno sulla scia degli Stati Uniti. Non hanno alcun ruolo. Si può sostenere in modo convincente che l'ostacolo più grande sono gli Stati Uniti, per tutta una serie di motivi. In effetti, in termini di personalità, si può dire che i due leader che più sono in grado di porre le basi di un simile sistema sono Putin e Xi. Intelligenti, razionali, grandi pensatori, in pieno possesso delle loro facoltà. Sembra difficile da credere? Questo è abbastanza comprensibile nelle circostanze attuali e l'idea può sembrare discutibile. Ma in tutta onestà, non c'è la minima prova che questa idea sia mai passata per la mente di un presidente statunitense o di uno dei suoi omologhi europei dal 2000. In effetti, è dubbio che qualcuno di loro abbia mai prestato molta attenzione a ciò che Putin stava effettivamente scrivendo o dicendo - o ha cercato di discernere cosa Xi avrebbe potuto pensare in questo senso. (C'è motivo di ritenere che lo stesso sia vero per i loro principali aiutanti: Blinken, Sullivan e Austin; Cleverlyr e Wallace; Baerbock; Borrell, ecc.) Per Hillary Clinton, Putin è un "nuovo Hitler"; per Barack Obama, è il diabolico nemico che ha cercato di corrompere la democrazia statunitense manipolando le elezioni del 2016 – avvertendo Putin che “possiamo farti qualcosa” -; e per Joe Biden è un "killer" che deve lasciare immediatamente la scena. Pertanto, è difficile immaginare una discussione seria e franca su questi grandi temi attorno a un tavolo in cui Putin e Xi siedano insieme a Biden, Schulz, Sunak, Johnson, Ruud, Macron, Stoltenberg, Van der Leyen e altri. Immaginare i tuoi avversari come personaggi dei cartoni animati, contro i quali lanciare stravaganti freccette verbali è un modo infallibile per fallire e causare un fallimento catastrofico.
Prospettive
Qualunque sia l'esito del conflitto ucraino – in termini militari, politici e diplomatici – si possono già trarre alcune conclusioni. Il primo è il consolidamento di due blocchi di potere antagonisti: l'«Occidente collettivo», costituito dall'alleanza dei cinque Paesi anglosassoni guidati dagli Stati Uniti, più l'UE e le potenze ausiliarie dell'Asia orientale, il Giappone e la Corea del Sud. L'altro blocco, quello eurasiatico, sarà dominato dal duopolio sino-russo sostenuto da un eterogeneo assortimento di amici: tra gli altri l'Iran, gli stati dell'Asia centrale, la Bielorussia, il Venezuela. Saranno rivali in tutti i campi: sicurezza, commercio, finanza e in quello dei valori e della cultura. Altri attori importanti, come India, Brasile, Turchia, Indonesia, eviteranno di unirsi all'uno o all'altro pur perseguendo i propri interessi nazionali. Va notato che nessuno di questi ultimi ha partecipato alle sanzioni imposte alla Russia; alcuni addirittura - India, Turchia e Arabia Saudita - hanno preso provvedimenti attivi per contrastarli, approfittando dei prezzi dell'energia più bassi e fungendo da intermediari tra la Russia e consumatori entusiasti, compresi alcuni paesi occidentali. Infatti, nessun Paese al di fuori dell’ “occidente collettivo” ha cooperato rispettando le restrizioni imposte dalle sanzioni.
In secondo luogo, la concezione neoliberista di un mondo economicamente integrato e globalizzato, in cui i vecchi giochi di potere sono banditi, è ormai obsoleta. L'integrazione funzionale nella sfera economica continuerà, ma con importanti avvertimenti. Tutti gli Stati assicureranno più attivamente che i loro interessi nazionali non siano compromessi dal funzionamento dei mercati internazionali e dalle decisioni di attori privati. Allo stesso modo, i governi saranno consapevoli dei vantaggi relativi di tutte le modalità di relazioni economiche. Le considerazioni politiche saranno onnipresenti, anche se non sempre decisive.
L'effetto più ampio e duraturo di questa devoluzione del sistema mondiale in blocchi – eredità dell'Ucraina – sarà che le relazioni tra le nazioni attraverso i blocchi (o anche tra non membri e membri di blocchi principali) non potranno sfuggire alla logica dettata da una rivalità primordiale. Il sospetto, l'attento calcolo dei benefici/costi/rischi delle transazioni e una profonda consapevolezza della sicurezza saranno onnipresenti. Il controllo degli armamenti è il caso più notevole – e forse il più importante – a questo riguardo. In questo ambito delicato, una certa fiducia (sebbene basata su interessi convergenti) è essenziale. Non c'è oggi e non ci sarà nel prossimo futuro. Regna la diffidenza. Questo è davvero un guaio.
Note:
[1] Questa valutazione si basa su interviste con i partecipanti al processo decisionale dell'amministrazione.
[2] Osservazioni del presidente Joe Biden a Varsavia il 25 marzo 2022.
[3] La Dottrina Wolfowitz è il nome non ufficiale dato alla versione iniziale della Defense Planning Guidance per gli anni fiscali 1994-1999 (datata 18 febbraio 1992) emessa dal Sottosegretario alla Difesa statunitense Paul Wolfowitz e dal suo vice Scooter Libby.
[4] 2022 National Defense Strategy (27 ottobre 2022) ; e NATO 2022 New Strategic Concept (3 marzo 2023)
[5] Si veda il fondamentale articolo di John Mearscheimer “Bound to Fail: The Rise and Fall of the Liberal International Order”, International Security (2019) 43 4), pp. 7-50. È un'esposizione precisa, rigorosa e storicamente informata della “trappola di Tucidide”.
[6] Il generale Mike Minihan, che come capo dell'Air Mobility Command sovrintende alla flotta cargo e di navi cisterna dell'aeronautica statunitense, ha esortato gli aviatori a essere "impenitenti nella loro letalità” in preparazione di una potenziale guerra con la Cina. Più tardi ha detto: " Il mio istinto mi dice che combatteremo nel 2025 " (Air Force amn/nco/snco 26 gennaio 2023).
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