Asse della Resistenza: dal Donbass a Gaza
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Le guerre dell'impero in declino, 21 febbraio 2024 - La resistenza nel Donbass e a Gaza condivide una visione comune essenziale: rovesciare l’egemone unipolare che ha annullato le loro aspirazioni nazionali...
The Cradle, 16 febbraio 2024 (trad.ossin)
Asse della Resistenza: dal Donbass a Gaza
Pepe Escobar
La resistenza nel Donbass e a Gaza condivide una visione comune essenziale: rovesciare l’egemone unipolare che ha annullato le loro aspirazioni nazionali
Durante il mio recente viaggio vertiginoso nel Donbass alla ricerca dei battaglioni cristiani ortodossi che difendono la loro terra, la Novorossiya, mi è risultato evidente che la resistenza in queste repubbliche russe appena liberate sta combattendo più o meno la stessa battaglia dei loro omologhi nell’Asia occidentale.
Quasi 10 anni dopo Maidan a Kiev, e due anni dopo l’inizio dell’Operazione Militare Speciale (SMO) della Russia in Ucraina, la determinazione della resistenza si è solo rafforzata.
È impossibile rendere piena giustizia alla forza, alla resilienza e alla fede del popolo del Donbass, che si trova in prima linea in una guerra per procura degli Stati Uniti contro la Russia. La battaglia che combatte dal 2014 si è rivelata essere oramai, nel suo nucleo essenziale, una guerra cosmica dell’Occidente collettivo contro la civiltà russa.
Come ha chiarito molto bene il presidente russo Vladimir Putin nel corso della sua intervista a Tucker Carlson, vista da un miliardo di persone in tutto il mondo, l’Ucraina fa parte della civiltà russa – anche se non fa parte della Federazione Russa. Quindi il bombardamento di civili di etnia russa nel Donbass – ancora in corso – si traduce in attacchi contro la Russia.
Il ragionamento è lo stesso del movimento di resistenza Ansarallah dello Yemen, che considera il genocidio israeliano a Gaza come un attacco contro il “nostro popolo”: il popolo delle terre dell'Islam.
Proprio come la fertile terra nera della Novorossiya è il luogo in cui l’“ordine internazionale basato sulle regole” è andato a morire; la Striscia di Gaza nell’Asia occidentale – una terra ancestrale, la Palestina – potrebbe in definitiva essere il luogo in cui il sionismo perirà. Sia l’ordine basato sulle regole che il sionismo, dopo tutto, sono costrutti essenziali del mondo unipolare occidentale e la chiave per promuovere i suoi interessi economici e militari globali.
Le incandescenti linee di frattura geopolitica di oggi sono già delineate: l’occidente collettivo contro l’Islam, l’occidente collettivo contro la Russia, e presto una parte sostanziale dell’occidente, anche se con riluttanza, contro la Cina.
Eppure è in corso un serio contrattacco.
Tanto quanto l’Asse della Resistenza nell’Asia occidentale continuerà a rafforzare la propria strategia dello “sciame”, quei battaglioni cristiani ortodossi nel Donbass non possono che essere considerati come l’avanguardia dell’Asse della Resistenza slavo.
Quando si è menzionato questo collegamento tra sciiti e cristianesimo ortodosso a due alti comandanti a Donetsk, a soli 2 chilometri dalla linea del fronte, essi hanno sorriso perplessi, ma hanno sicuramente colto il messaggio.
Dopotutto, più di chiunque altro in Europa, questi soldati sono in grado di cogliere questo tema unificante: sui due principali fronti imperiali – Donbass e Asia occidentale – la crisi dell’egemone occidentale si sta approfondendo e se ne sta accelerando rapidamente il collasso.
L’umiliazione cosmica della NATO in atto nelle steppe della Novorossiya si constata anche nel gettarsi ad occhi chiusi della combinazione anglo-statunitense-sionista verso una conflagrazione più ampia in tutta l’Asia occidentale – insistendo freneticamente di non volere la guerra mentre bombarda ogni vettore dell’Asse della Resistenza tranne l’Iran (l’Iran non può bombardarlo, perché il Pentagono ha previsto tutti gli scenari, e tutti annunciano la rovina).
Togliete la maschera a chi è al potere a Kiev e a Tel Aviv, e a chi ne tira i fili, e troverete gli stessi burattinai che controllano Ucraina, Israele, Stati Uniti, Regno Unito, e quasi tutti i membri della NATO.
Lavrov: “Nessuna prospettiva” su Israele-Palestina
Il ruolo della Russia nell’Asia occidentale è piuttosto complesso - e sfumato. In superficie, nei corridoi del potere a Mosca dicono molto chiaramente che Israele-Palestina “non è la nostra guerra: la nostra guerra è in Ucraina”.
Allo stesso tempo, il Cremlino continua a proporsi come mediatore e pacificatore affidabile nell’Asia occidentale. La Russia è forse situata in una posizione unica per poter svolgere questo ruolo: è una grande potenza globale, fortemente investita nella politica energetica della regione, leader delle istituzioni economiche e di sicurezza emergenti del mondo e gode di solide relazioni con tutti i principali Stati regionali.
Una Russia multipolare – con la sua vasta popolazione di musulmani moderati – si trova istintivamente in empatia con la difficile situazione dei Palestinesi. Poi c’è il fattore BRICS+, dove l’attuale presidenza russa può avere influenza sui nuovi membri Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto per promuovere nuove soluzioni all’enigma della Palestina.
Questa settimana a Mosca, alla 13a Conferenza sul Medio Oriente del Club Valdai, il ministro degli Esteri Sergey Lavrov è andato dritto al punto, sottolineando quale ne siano la causa, le politiche dell'egemone, e i suoi effetti, spingere Israele-Palestina verso la catastrofe.
Ha intravisto un ruolo di pacificatore per la Russia: noi proponiamo di “tenere un incontro inter-palestinese per superare le divisioni interne”. E ha anche dato dimostrazione della Realpolitik della Russia: “non ci sono prospettive per un accordo israelo-palestinese al momento”.
Un dettagliato rapporto Valdai ha aperto una finestra cruciale per comprendere la posizione russa, che collega Gaza e lo Yemen come “epicentri del dolore”.
Per contestualizzare, è importante ricordare che alla fine del mese scorso, il rappresentante speciale di Putin per gli affari dell'Asia occidentale, il viceministro degli affari esteri ML Bogdanov, ha ricevuto a Mosca una delegazione di Ansarallah guidata da Mohammed Abdelsalam.
Fonti diplomatiche confermano che si è parlato approfonditamente di tutto: delle prospettive di una soluzione globale alla crisi politico-militare nello Yemen, di Gaza e del Mar Rosso. Non c’è da stupirsi che Washington e Londra abbiano perso la pazienza.
"Cancellare la questione palestinese"
Probabilmente, la sessione decisiva a Valdai riguardava la Palestina – e come unificare i Palestinesi.
Nasser al-Kidwa, membro del Consiglio nazionale palestinese (PNC) ed ex ministro degli affari esteri dell'Autorità palestinese (AP) (2005-2006), ha chiarito quali sono le tre posizioni strategiche di Israele, tutte volte a mantenere un pericoloso status quo:
In primo luogo, Tel Aviv cerca di mantenere la divisione tra Gaza e la Cisgiordania occupata. Il secondo obiettivo, secondo Kidwa, è quello di “indebolire e rafforzare ora l’uno e ora l’altro, impedendo la formazione di una leadership nazionale, usando la forza e solo la forza per sopprimere i diritti nazionali palestinesi e impedire una soluzione politica”.
Il terzo punto nell’agenda di Israele è quello di tentare in ogni modo di raggiungere la normalizzazione con un certo numero di paesi arabi senza affrontare la questione palestinese, vale a dire “cancellando la questione palestinese”.
Kidwa ha poi sottolineato che il venir meno di queste tre posizioni strategiche dipende essenzialmente dal fatto che Netanyahu sta cercando di prolungare la guerra “per salvare se stesso” – e tale fatto apre altre possibili prospettive: un nuovo governo israeliano; una nuova leadership palestinese, “che ci piaccia o no”; e una nuova Hamas.
Secondo Kidwa vi sono quindi quattro vasti campi di discussione:
- lo Stato della Palestina;
- Gaza e il ritiro israeliano;
- cambiare la situazione palestinese, un processo che dovrebbe essere su base interna, “pacifico” e non contemplare “nessuna vendetta”;
- e la successiva strategia complessiva.
Ciò che è chiaro, dice Kidwa, è che non è in vista alcuna “soluzione a due Stati”. Si ritornerà alle origini, ovvero si dovrà affermare “il diritto all’indipendenza nazionale per la Palestina” – una questione che sembrava già essere stata concordata tre decenni fa a Oslo.
Riguardo alla strategia futura, Kidwa non nasconde il fatto che “il Quartetto è disfunzionale”. Ripone le sue speranze nell’idea spagnola, approvata dall’UE, “che abbiamo modificato”. Si tratta, in generale, di una conferenza di pace internazionale in più tornate basata sulla situazione sul campo a Gaza.
Ciò comporterà diversi round, “con un nuovo governo israeliano”, costretto a sviluppare un “quadro di pace”. Il risultato finale deve essere il minimo accettabile per la comunità internazionale, basato su una gran quantità di risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: confini del 1967, riconoscimento reciproco e una tempistica specifica, che potrebbe essere il 2027. E, soprattutto, deve stabilire “impegni da rispettare fin dall’inizio”, qualcosa che la folla di Oslo non è riuscita proprio a capire.
È abbastanza ovvio che nulla di quanto sopra sarà possibile finché ci saranno Netanyahu e l’attuale Casa Bianca disfunzionale.
Ma Kidwa ammette anche che da parte palestinese “non abbiamo un dirigente che sappia mettere insieme questi elementi, Gaza e Cisgiordania”. Questo, ovviamente, è un successo politico strategico degli Israeliani, che hanno a lungo lavorato per mantenere i due territori palestinesi in conflitto e hanno assassinato qualsiasi leader palestinese in grado di superare il divario.
A Valdai, Amal Abou Zeid, consigliera dell’ex presidente libanese, generale Michel Aoun (2016-2022), ha osservato che, “così come la guerra in Ucraina, la guerra di Gaza ha sconvolto le basi dell’ordine regionale”.
L’ordine precedente era “economico-centrico, come percorso verso la stabilità”. Poi è arrivata l'operazione di Hamas del 7 ottobre contro Israele, che ha innescato una trasformazione radicale. Ha “sospeso la normalizzazione tra Israele e il Golfo, in particolare l’Arabia Saudita”, e ha rilanciato la soluzione politica della crisi palestinese. “Senza una tale soluzione”, ha sottolineato Zeid, la minaccia alla stabilità è “regionale e globale”.
Torniamo così alla coesistenza di due Stati lungo i confini del 1967: il sogno impossibile. Zeid, tuttavia, ha ragione nel dire che senza chiudere il capitolo palestinese, “gli europei non potranno mai avere relazioni normali con le nazioni del Mediterraneo. L’UE deve portare avanti il processo di pace”.
Nessuno, dall’Asia occidentale alla Russia, si fa illusioni, soprattutto perché “l’estremismo israeliano prevale”, l’Autorità Palestinese ha un “vuoto di leadership” e c’è “l’assenza di mediazione statunitense”.
Vecchie idee contro nuovi giocatori
Zaid Eyadat, direttore del Centro per gli studi strategici dell’Università della Giordania, ha cercato di adottare una “prospettiva razionale” controcorrente. Ci sono “nuove dinamiche” in gioco, ha sostenuto, affermando che “la guerra è molto più grande di Hamas e va oltre Gaza”.
Ma la prospettiva di Eyadat è desolante. “Israele sta vincendo”, insiste, nonostante l'intero Asse della Resistenza della regione e perfino la piazza araba.
Eyadat sottolinea che “la questione palestinese è tornata sulla scena – ma senza il desiderio di una soluzione globale. Quindi i Palestinesi perderanno”.
Perché? A causa di una “bancarotta di idee”. È “come trasformare qualcosa da insostenibile a più ragionevole”. Ed è proprio l’“ordine basato su regole” che è al centro di questo “deficit morale”.
Questo è il tipo di dichiarazioni del passato che sono in contrasto con i visionari multipolari e orientati alla resistenza di oggi. Mentre Eyadat si preoccupa della concorrenza tra Israele e Iran, di una Tel Aviv estremista e incontrollata, della spaccatura tra Hamas e l’Autorità Palestinese, e degli Stati Uniti che perseguono i propri interessi, ciò che manca in questa analisi è la competizione sul campo e l’impennata del multipolarismo a livello globale.
Lo “sciame” dell’Asse della Resistenza nell’Asia occidentale è appena iniziato e porta ancora con sé una serie di risorse militari ed economiche che devono ancora entrare in gioco. L’Asse della Resistenza slavo combatte senza sosta da due anni – e solo ora comincia a intravedere una possibile luce, legata alla caduta di Adveevka, alla fine del tunnel (fangoso).
La guerra di resistenza è globale e si è svolta – finora – solo su due campi di battaglia. Ma gli Stati che la sostengono sono giocatori formidabili sullo scacchiere globale di oggi, e stanno lentamente accumulando vittorie nei rispettivi ambiti. Il tutto mentre il nemico, l’egemone, è in caduta libera economica, non ha mandati interni per le sue guerre e non offre soluzioni.
Che si trovino nel terreno nero e fangoso del Donbass, sulle coste mediterranee di Gaza o nelle vie navigabili più importanti del mondo, Hamas, Hezbollah, Hashd al-Shaabi e Ansarallah si prenderanno tutto il tempo necessario per trasformare gli “epicentri del dolore” in “epicentri di speranza”.
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