Sputnik, 22 febbraio 2015 (trad. ossin)


Daech alla conquista della Libia e la necessità di nuove alleanze per rispondere all’islamismo radicale

Alle origini del caos libico

Dario Chitati


Dopo tre anni di continua instabilità seguita alla caduta di Gheddafi, la Libia è alla fine diventata un Failed State, uno “Stato in fallimento”, sotto l’avanzata dell’estremismo islamista. Le incertezze della comunità internazionale circa la risposta da dare rivelano tutte le divergente esistenti tra gli attori della politica mediterranea

Nel frattempo si aggrava, sempre più rapidamente negli ultimi giorni, il caos libico, e non solo in Libia, ma anche in Europa, in Francia, Gran Bretagna e Italia, e nei paesi arabi, nelle monarchie del Golfo, soprattutto in Qatar. Capire come si sia arrivati alla situazione attuale non è solo questione di analisi storica, ma ci aiuta a comprendere perché sarà difficile giungere ad una risposta condivisa.

Nel 2011 Parigi e Londra sono state le principali responsabili del rovesciamento di Muammar Gheddafi: certamente un regime autoritario, ma che garantiva almeno un minimo di unità nazionale e laica in un contesto di divisioni tribali e sotto la minaccia dell’estremismo islamista. E’ stata soprattutto la Francia che ha ideato e organizzato l’intervento militare, sfruttando le rivalità intertribali che avevano provocato dei disordini, presentati all’opinione pubblica internazionale – secondo la migliore tradizione dei pretesti occidentali per entrare in guerra – come un massacro unilaterale del brutale governo di Gheddafi contro una popolazione pacifica che aspirava alla libertà e alla democrazia. La vera ragione dell’interventismo francese era un’altra: negli anni precedenti, il Colonnello aveva perseguito una politica sovranista e panafricanista che contrastava, prima di tutto, con gli interessi francesi e, in misura minore, con quelli della Gran Bretagna e degli Stati Uniti.

In particolare, Gheddafi non aveva aderito al progetto sarkoziano di “Union Méditerranéenne”, sospettata di essere una forma neocoloniale di intromissione negli affari arabo-africani, e la Libia aveva mantenuto il rango di mero osservatore in questa organizzazione.

Inoltre Tripoli aveva anche rifiutato di partecipare all’AFRICOM, il comando militare statunitense per la messa in sicurezza dell’Africa. Nonostante l’accordo di partenariato firmato con la Francia nel 2006, Gheddafi alla fine non aveva più voluto concludere un contratto di forniture militari (elicotteri e aerei da caccia “Rafale”). Ma era stato soprattutto l’attivismo finanziario del Colonnello che aveva resi inquieti tanto l’Eliseo, che Downing Street e la Casa Bianca. Grazie ai ricchi proventi del petrolio, la Libia aveva investito miliardi di dollari in diversi progetti africani, come l’ammodernamento del più grande oleodotto nella Repubblica Democratica del Congo.

Inoltre Tripoli progettava di istituire una Banca di investimenti a Sirte, un Fondo Monetario a Yaundé, in Camerun, e infine una Banca Centrale Africana ad Abuja, in Nigeria. Il risultato di queste tre congiunte manovre doveva essere ambiziosissimo: la creazione di una nuova moneta, il dinaro d’oro, in grado di sostituire il dollaro negli scambi commerciali e, naturalmente, anche il franco CFA, vale a dire la moneta utilizzata nelle ex colonie francesi e tuttora dipendente dal Tesoro francese. A tutto questo si possono aggiungere le indiscrezioni sul finanziamento della campagna elettorale di Sarkozy da parte del Colonnello libico, un fattore che si aggiungeva alla sua politica continentale poco compatibile con gli interessi francesi in Africa, specialmente nelle ex colonie.

Infine la Francia e l’Inghilterra hanno voluto l’intervento in Libia per un’altra ragione ancora: il crescente ruolo dell’Italia sul piano economico e diplomatico nella regione. Roma aveva infatti firmato un accordo di cooperazione con Gheddafi nel 2008, il Trattato di amicizia italo-libico di Bengasi. Accanto a taluni aspetti criticabili (per esempio, una eccessiva riparazione economica per il passato coloniale), questo accordo conteneva misure molto positive per i due Paesi: fine delle controversie sulla questione del colonialismo italiano, controllo delle coste libiche per prevenire l’immigrazione illegale, ma soprattutto una serie di accordi commerciali privilegiati, soprattutto nel campo delle risorse petrolifere, che rendeva Roma il principale partner di Tripoli. Insomma la Libia di Gheddafi, non solo perseguiva una politica troppo autonomista, ma sceglieva Roma come interlocutore numero 1, ridando vita alla vecchia rivalità franco-italiana-inglese per l’egemonia nel Mediterraneo e nell’Africa del Nord.

Ed è per questo che l’Italia porta una responsabilità forse ancora più pesante nella crisi libica, a causa della debolezza che ha dimostrato nella gestione della vicenda. Incapace di impedire un intervento unilaterale francese o franco-inglese, Roma ha preferito partecipare alle operazioni militari sotto l’egida della NATO al fianco dei “partner” europei, per evitare di perdere ogni influenza in Libia. A causa delle eccellenti relazioni che conservava con la Russia (che suscitavano molto fastidio a Washington), l’Italia non ha avuto la forza diplomatica di fare pressione sugli Stati Uniti, affinché convincessero Londra e Parigi a desistere. Al contrario, il cappello della NATO ha permesso agli Stati Uniti di intromettersi in modo diretto, e allo stesso tempo sottile, sostenendo dei “ribelli”, fino a poco prima considerati “terroristi”. E’ il caso di Abu Sufyan ben Qumu, già prigioniero a Guantanamo, improvvisamente liberato nel 2011 per diventare uno dei capi di Ansar Al-Shari, un gruppo radicale che recentemente ha dichiarato fedeltà a Daech, lo Stato Islamico del Califfo Al-Bagdadi.

Dopo la morte di Gheddafi, la Libia ha dunque conosciuto una permanente instabilità, perché all’interventismo muscolare degli Occidentali ha fatto seguito l’incapacità di governare le conseguenze della guerra e il sostegno di personaggi assai discutibili. Le tre regioni storiche che formano il territorio libico – la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan – sono state interessate da un moltiplicarsi di gruppi e fazioni, spesso sostenuti da diversi paesi arabi. Soprattutto il Qatar ha giocato un ruolo decisivo, con una ingerenza denunciata da diverse fonti (da ultimo, anche il governo egiziano). Per esempio, Abdel Rahim al-Kib, presidente del Consiglio di transizione tra il 2011 e il 2012 e poi Primo Ministro ad interim, viene indicato come il terminale libico degli interessi di Doha, dato il suo lavoro alle dipendenze delle compagnie petrolifere del Golfo. Ugualmente, l’ex combattente in Afghanistan, Abdelhakim Belhadj, capo del movimento islamista Al-Watan, anch’egli viene considerato come sponsorizzato dal Qatar.

Quando, la settimana scorsa, le milizie islamiste che si riconoscono nel Califfato Islamico (Daech) hanno raggiunto Sirte, la cosa non ha meravigliato i conoscitori del contesto nord-africano: questa avanzata profitta infatti di un terreno di instabilità e di tensioni ben conosciute, di cui la Cirenaica è il bacino principale da cui per anni sono partiti gli islamisti che andavano a combattere in Iraq. Dopo la barbara esecuzione di 21 cristiani copti, l’Egitto del generale Al-Sissi non ha voluto attendere ancora per colpire con la sua forza aerea, così come aveva fatto la Giordania qualche settimana fa, dopo la morte del suo pilota, Maaz al-Kassasbeh, attaccando Daech in Siria e in Iraq. Il Cairo ha anche chiesto l’appoggio delle Nazioni Unite per la formazione di una coalizione militare, ma la sessione del Consiglio di Sicurezza del 18 febbraio non ha, per il momento, approvato alcun intervento.

Ora, se in nome della sicurezza tutti gli Stati si dicono pronti a cooperare, il vero problema sarà la stabilizzazione del paese dopo una prova di forza che sarà probabilmente inevitabile. E’ evidente l’impossibilità di pensare ad una soluzione politico-diplomatica, che non preveda la partecipazione dei paesi arabi, ma il problema qui è la scelta degli alleati. I leader europei e statunitensi, che di fronte alle rispettive opinioni pubbliche si dicono scioccati dalla barbarie dell’estremismo islamista, non disdegnano però di appoggiare le fazioni più radicali dell’Islam quando la cosa è funzionale ai propri interessi. Nel contesto attuale, l’Egitto di al-Sissi dimostra un certo pragmatismo e una linea moderata (che si vede bene, per esempio, nei confronti di Israele), che ne fa il candidato principale per influenzare altri Stati nord africani, come l’Algeria e la Tunisia, che temono l’avanzata islamista. C’è dunque da augurarsi che Il Cairo prevalga sui paesi arabi più ambigui, come l’Arabia Saudita e il Qatar, che hanno fino ad oggi sostenuto le fazioni estremiste, dai Salafiti fino ai Fratelli Mussulmani. Sul versante europeo occidentale, occorrerà ancora evitare ka reiterazione dello scenario del 2011, con gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna in testa. Questa volta è la Russia ad essere chiamata a giocare un ruolo più attivo, forse anche per la sua relazione privilegiata con l’Egitto, che sembra diventare sempre più stretta.

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