Article-50.eu, 5 marzo 2013 (trad. Ossin)



Mali : Analisi di Samir Amin
Samir Amin

I – L’islam politico reazionario, nemico dei popoli (…)
II – Il Sahelistan, un progetto al servizio di quali interessi?
III – Vincere la guerra del Sahara
IV – Vincere la battaglia diplomatica
V – Ricostruire il Mali


Io sono tra coloro che condannano per principio ogni intervento militare delle potenze occidentali nei paesi del Sud, trattandosi di interventi che, per loro stessa natura, rispondono solo all’ esigenza del capitale dei monopoli di controllare il Pianeta.


L’intervento francese in  Mali è un’eccezione alla regola? Sì e no. E’ il motivo per cui io invito a sostenerlo, senza minimamente pensare che si tratti della risposta giusta alla continua degenerazione delle condizioni politiche, sociali ed economiche, non solo del Mali, ma di tutti i paesi della regione, degenerazione che è essa stessa il prodotto delle politiche invasive portate avanti dal capitalismo dei monopoli della triade imperialista (Stati Uniti – Europa – Giappone), sempre all’opera, ed è allo stesso tempo causa dello sviluppo dell’islam politico nella regione.


I – L’islam politico reazionario, nemico dei popoli e principale alleato delle strategie della triade imperialista (1)

L’islam politico – al di là dell’apparente diversità delle sue espressioni – non è affatto un “movimento di rinascita della fede religiosa”  (che ci piaccia o no), ma è una forza politica ultra-reazionaria che condanna i popoli che cadono vittime del suo governo, alla regressione su tutti i piani, rendendoli così incapaci di rispondere positivamente alle sfide con cui devono confrontarsi. L’islam politico non costituisce un freno alla prosecuzione del processo di degenerazione e di pauperizzazione in corso da tre decenni. Al contrario lo accentua, avvantaggiandosene.

E’ questa la ragione principale per cui le potenze della Triade lo considerano un alleato strategico. Il sostegno sistematico fornito da queste potenze all’islam politico reazionario è e resta una delle principali ragioni dei suoi “successi”: i Talebani in Afghanistan, il FIS in Algeria, gli “islamisti” in Somalia e in Sudan, quelli di Turchia, Egitto e Tunisia e di altri luoghi, tutti hanno beneficiato di questo sostegno nel momento decisivo per la loro conquista del potere locale.  Nessuna delle componenti dette “moderate” dell’islam politico ha mai preso davvero le distanze dagli autori di atti terroristici compiuti dalle loro componenti dette ”salafiste”. Terroristi che hanno tutti beneficiato, e continuano a beneficiare, “dell’esilio” nei paesi del Golfo quando necessita loro.   Il Libia ieri, in Siria ancora oggi, questi terroristi continuano ad essere sostenuti da queste stesse potenze della triade. Nello stesso tempo, le atrocità e i crimini che commettono sono del tutto funzionali alla strategia nella quale il sostegno loro accordato si inserisce: essi infatti rendono credibile la tesi di una “guerra di civiltà” che mobilita il consenso dei popoli della triade verso il progetto globale del capitale dei monopoli. I due temi – la democrazia e la guerra al terrorismo – si combinano perfettamente con questa strategia.

Ci vuole una buona dose di ingenuità per credere che l’islam politico di qualcuno – tra quelli che vengono definiti in questo senso “moderati” – sarebbe solubile nella democrazia. Vi è certamente condivisione di obiettivi tra questi ultimi e i “salafisti” che li scavalcherebbero – si dice con falsa ingenuità – coi loro eccessi fanatici, criminali, addirittura terroristi. Ma il progetto dei “moderati” e dei fanatici è comune – una teocrazia arcaica, per definizione agli antipodi di una democrazia anche minima.


II – Il Sahelistan, un progetto al servizio di quali interessi?

De Gaulle accarezzava l’idea di un “Grande Sahara Francese”. Ma la tenacia del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) algerino e la radicalizzazione del Mali e dell’Unione Sudanese di Modibo Keita  hanno fatto fallire il progetto, definitivamente, a partire dal 1962-1963. Se mai a Parigi vi fossero dei nostalgici di questo progetto, non credo siano però in grado di convincere dei politici dotati di normale intelligenza che sia possibile risuscitarlo.

Infatti il progetto del Sahelistan non è quello francese – anche se Sarkozy vi si era allineato. E’ piuttosto il progetto della nebulosa costituita dall’islam politico in questione e si avvantaggia di uno sguardo eventualmente benevolo degli Stati Uniti e, sulla scia, dei loro luogotenenti nell’Unione Europea (che non esiste) – la Gran Bretagna e la Germania.

Il Sahelistan islamico consentirebbe la creazione di un grande Stato che potrebbe raggruppare una buona parte del Sahara malieno, mauritano, nigerino e algerino, dotato di risorse minerarie importanti: uranio, petrolio e gas. Dette risorse non sarebbero principalmente destinate alla Francia, ma prima ancora alle potenze dominanti della triade.

Questo “regno”, sul modello dell’Arabia Saudita e degli Emirati del Golfo, potrebbe agevolmente “comprarsi” il consenso della sua scarsa popolazione, e i suoi emiri trasformare in favolose fortune personali la frazione di rendita che sarebbe loro lasciata. Il Golfo resta, per le potenze della triade, il modello del migliore alleato/servitore utile, a onta del carattere ferocemente arcaico e schiavista della sua struttura sociale – io direi, grazie a questo carattere. I gruppi dirigenti del Sahelistan si asterrebbero dal commettere azioni terroriste sul loro territorio, senza peraltro vietarsi di intraprenderle eventualmente altrove.

La Francia che, del progetto del “Grande Sahara”, era riuscita a salvare per sé il controllo del Niger e del suo uranio, occuperebbe in quello del Sahelistan solo un ruolo di secondo piano (2).

E’ merito di Hollande – e va tutto a suo onore – di averlo capito e rifiutato. Così non ci si deve meravigliare del fatto che il suo intervento sia stato immediatamente sostenuto da Algeri  e da qualche altro paese che pure non è classificabile tra gli “amici” di Parigi. Il governo algerino ha dimostrato la sua assoluta lucidità: sa che l’obiettivo del Sahelistan mira anche al Sud algerino e non solo al Nord del Mali (3). E non bisogna neppure meravigliarsi del fatto che gli “alleati della Francia” – gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Germania, senza parlare dell’Arabia Saudita e del Qatar – siano in realtà ostili a questo intervento, che hanno accettato stentatamente solo perché sono stati posti di fronte al fatto compiuto – la decisione di F. Hollande. Ma non dispiacerebbe loro vedere l’operazione impantanarsi e fallire. Ciò restituirebbe vigore alla ripresa del progetto del Sahelistan.


III – Vincere la guerra del Sahara

Io sono quindi tra coloro che sperano che la guerra del Sahara venga vinta, che gli islamisti vengano sradicati dalla regione (Mali e Algeria soprattutto), il Mali restaurato nelle sue frontiere. Questa vittoria ne è la condizione necessaria e imprescindibile, ma è lontano dall’essere la condizione sufficiente per una successiva ricostruzione dello Stato e della società nel Mali.

Questa guerra sarà lunga, costosa e penosa e l’esito resta incerto. La vittoria esige che si realizzino talune condizioni. Occorrerebbe infatti, non solo che le forze armate francesi non abbandonino il terreno prima della vittoria definitiva, ma che venga rapidamente ricostruito un esercito malieno degno di questo nome. Perché occorre rendersi conto che l’intervento militare degli altri paesi africani non potrà costituire l’elemento decisivo per la vittoria.

La ricostruzione dell’esercito malieno è assolutamente fattibile. Il Mali di Modibo era pervenuto a costruire una forza armata competente e fedele alla nazione, sufficiente a dissuadere gli aggressori come sono oggi gli islamisti di AQMI. Questa forza armata è stata sistematicamente distrutta dalla dittatura di Mussa Traoré e non è stata ricostruita dai suoi successori. Ma giacché il popolo malieno ha piena coscienza del fatto che il  paese ha il dovere di armarsi, la ricostruzione dell’esercito beneficia di un terreno favorevole. L’ostacolo è finanziario: reclutare migliaia di soldati ed equipaggiarli non è alla portata dei mezzi di cui oggi dispone il paese, e né gli Stati africani, né l’ONU potranno tamponare questa indigenza. La Francia deve capire che vi è obbligata in quanto è l’unico mezzo per assicurarsi la vittoria. L’impantanamento e la sconfitta non sarebbe solo una catastrofe per i popoli africani, lo sarebbe anche per la Francia. La vittoria sarebbe un modo importante di ricostruire il ruolo della Francia nel concerto delle nazioni, anche al di là dell’Europa.

Non c’è molto da attendersi dai paesi della CEDEAO. Le guardie pretoriane della maggior parte di questi paesi, di armato hanno solo il nome. Certamente la Nigeria dispone di forze cospicue ed equipaggiate, malauguratamente poco disciplinate per dirla con un eufemismo; e molti dei suoi ufficiali superiori non perseguono altro obiettivo che il saccheggio delle regioni in cui intervengono. Anche il Senegal dispone di una forza militare competente e per di più disciplinata, ma piccola, adeguata alle dimensioni del paese. Più lontano in Africa, l’Angola e l’Africa del Sud potrebbero fornire degli aiuti efficaci; ma la loro collocazione geografica, e forse anche altre considerazioni, fanno correre il rischio che non ne vedano l’interesse.

Un impegno della Francia fermo, determinato e per tutta la durata necessaria implica che la diplomazia di Parigi comprenda di dover prendere le distanze dai suoi compagni di gioco della NATO e in Europa. Si tratta di una partita che è lontana dall’essere vinta e per il momento niente indica che il governo di Hollande sia capace di osare.


IV – Vincere la battaglia diplomatica

L’evidente contraddizione tra gli onorevoli obiettivi dell’intervento francese in Mali e il proseguimento dell’attuale linea diplomatica di Parigi diventerà rapidamente intollerabile. La Francia non può contemporaneamente combattere gli “islamisti” a Tombouctou e sostenerli ad Aleppo!

La diplomazia francese, agganciata alla NATO e all’Unione Europea, condivide la responsabilità dei suoi alleati nel successo dell’islam politico reazionario. Ne ha fornito la prova eclatante nell’avventura libica, il cui unico risultato è stato (ed era prevedibile e certamente voluto, almeno da Washington) non di liberare il popolo libico da Gheddafi (un pagliaccio più che un dittatore) ma di distruggere la Libia, diventata terra di operazioni dei signori della guerra, direttamente all’origine del rafforzamento di AQMI in Mali.

Perché l’idra dell’islam politico reazionario è capace di reclutare tanto negli ambienti del banditismo che tra i folli di Dio. Al di là della “jihad”, i loro emiri – quelli che si autoproclamano i difensori intransigenti della fede – si arricchiscono col traffico di droga (i Talebani e AQMI), delle armi (i signori della guerra libici), della prostituzione (I Kosovari).

Ebbene fino ad oggi la diplomazia ha sostenuto proprio questi, in Siria per esempio. I media francesi  danno credito ai comunicati del sedicente Osservatorio Siriano dei Diritti umani, un covo noto dei Fratelli Mussulmani, fondato da Ryad El Maleh, sostenuto dalla CIA e dai servizi inglesi.  E’ come dare credito ai comunicati di Ansar Eddine! La Francia tollera che la sedicente “Coalizione Nazionale delle Forze dell’Opposizione e della Rivoluzione” sia presieduta dallo sceicco Ahmad El Khatib, scelto da Washington, Fratello Mussulmano e responsabile dell’incendio appiccato nel quartiere Duma a Damasco.

Io sarei sorpreso (ma la sorpresa sarebbe gradevole) che F. Hollande osasse rovesciare il tavolo, come fece De Gaulle (uscire dalla NATO, praticare in Europa la politica della sedia vuota). Non gli si chiede di fare tanto, ma solo di adeguare le sue relazioni diplomatiche a quanto è necessario perché possa proseguire l’azione in Mali, di capire che la Francia conta più avversari nel campo degli “alleati” che in quello dei “nemici”! E non è la prima volta che ciò accade quando due campi si affrontano sul terreno della diplomazia.


V – Ricostruire il Mali

La ricostruzione del Mali può essere opera solo dei Malieni. Sarebbe auspicabile che li si aiuti piuttosto che si erigano barriere che rendano impossibile questa ricostruzione.

Le ambizioni “coloniali” francesi – fare del Mali uno Stato cliente a immagine di qualche altro della regione – non sono forse assenti in alcuni dei responsabili della politica maliena di Parigi. La Francafrique ha sempre i suoi portavoce. Ma questa ambizioni non costituiscono un pericolo reale, e meno che mai maggiore. Un Mali ricostruito saprebbe anche affermare – o riaffermare – rapidamente la propria indipendenza. Al contrario un Mali devastato dall’islam politico reazionario sarebbe a lungo incapace di occupare un posto onorevole sullo scacchiere regionale e mondiale. Come la Somalia, rischierebbe di essere cancellato dalla lista degli Stati sovrani degni di questo nome.

Il Mali aveva, all’epoca di Modibo, fatto passi avanti in direzione del progresso economico e sociale, di una sua affermazione indipendente e dell’unità delle sue componenti etniche.

L’Unione Sudanese era riuscita a unificare in un’unica nazione i Bambara del Sud, i pescatori bozo, i contadini songhai e i Bella della vallata del Niger da Mopti a Ansongo  (ci si dimentica oggi che la maggioranza della popolazione del Nord Mali non è costituita da Tuareg) e perfino fatto accettare ai Tuaregh l’affrancamento dei loro schiavi Bella. Resta però che per mancanza di mezzi  - e di volontà dopo la caduta di Modibo – i governi di Bamako hanno successivamente trascurato i progetti di sviluppo del Nord. Alcune rivendicazioni dei Tuareg sono da questo punto di vista perfettamente legittime. Algeri, che raccomanda di distinguere nella ribellione i Turaeg (oramai marginalizzati), coi quali bisogna discutere, dagli jihadisti venuti da fuori – spesso assolutamente razzisti nei confronti dei “Neri” – dimostra sul punto grande lucidità.

I limiti delle realizzazioni del Mali di Modibo, ma anche l’ostilità delle potenze occidentali (e della Francia in particolare), sono le cause del fallimento e alla fine del successo dell’odioso colpo di stato di Mussa Traoré (sostenuto fino in fondo da Parigi), la cui dittatura porta la responsabilità della disgregazione della società maliena, del suo impoverimento e della sua impotenza. Il forte movimento di rivolta del popolo malieno che è riuscito, al prezzo di decine di migliaia di vittime, a rovesciare la dittatura aveva nutrito grandi speranze di rinascita del paese. Queste speranze sono già state deluse. Perché?

Il popolo malieno gode, dalla caduta di Mussa Traoré, di libertà democratiche senza pari. E però sembra che questo non sia servito a niente: centinaia di partiti fantasma senza un programma, parlamentari eletti del tutto impotenti, la corruzione generalizzata. Alcuni analisti vittime di pregiudizi razzisti si affannano a concludere che questo popolo (come tutti gli Africani) non è maturo per la democrazia! Si finge di ignorare che la vittoria delle lotte del popolo malieno ha coinciso con l’offensiva “neoliberale” che ha imposto a questo paese estremamente vulnerabile il modello di lumpen-sviluppo raccomandato dalla Banca Mondiale e sostenuto dall’Europa e dalla Francia, generatore di regressione sociale ed economica illimitata e di impoverimento senza limiti.

Sono queste politiche ad essere le prime responsabili  del fallimento della democrazia, screditata. Questa involuzione ha creato, qui come altrove, un terreno favorevole alla crescita dell’influenza dell’islam politico reazionario (finanziato dal Golfo) non solo nel Nord poi preso in ostaggio da AQMI, ma anche a Bamako.

La fatiscenza dello Stato malieno che ne è conseguito è all’origine della crisi che ha portato alla destituzione del
Presidente Amani Toumani Touré (poi rifugiatosi in Senegal), all’avventato colpo di stato di Sanogho poi alla messa del Mali sotto tutela con la “nomina” di un Presidente “provvisorio” – detto di transizione – da parte della CEDEAO, la cui presidenza è affidata al Presidente ivoriano A. Ouattara, che è sempre stato solo un funzionario del FMI e del Ministero francese della cooperazione.

E’ questo Presidente, la cui legittimità è agli occhi dei Malieni vicina a zero, che ha fatto appello all’intervento francese. Questo fatto indebolisce molto l’argomento di Parigi, benché diplomaticamente impeccabile: che Parigi ha risposto all’appello del Capo di Stato “legittimo” di un paese amico. Ma allora in che cosa l’appello del capo dello Stato siriano – incontestabilmente non meno legittimo – al sostegno dell’Iran e della Russia è invece “inaccettabile”? Spetta a Parigi di correggere il tiro e cambiare linguaggio.

Ma soprattutto la ricostruzione del Mali passa oramai per il rifiuto puro e semplice delle “soluzioni” liberali che sono all’origine di tutti i problemi. Però su questo punto fondamentale, il punto di vista di Parigi resta lo stesso di quelli di Washington, Londra e Berlino. I concetti di “aiuto allo sviluppo” di Parigi non si distinguono dalle litanie liberali dominanti (4). Niente altro. La Francia, anche se vincerà la battaglia del Sahara – cosa che mi auguro – parte svantaggiata per contribuire alla ricostruzione del Mali. Il fallimento, certamente, consentirebbe ai falsi amici della Francia di prendersi la rivincita.


Nota:

Nell’intento di conservare a questo articolo un carattere di brevità e di esclusiva attenzione alla questione maliena, ho evitato di sviluppare le più importanti questioni collegate, che ho ridotto in note a piè di pagina, evitando così lunghe digressioni.

L’articolo non tratta la vicenda dell’aggressione di In Amenas. Gli Algerini sapevano che, se pure hanno vinto la guerra più importante contro il progetto di Stato sedicente islamista del FIS (sostenuto all’epoca dalle potenze occidentali in nome della “democrazia”!), la lotta contro l’idra resta permanente, da portare avanti su due terreni: la sicurezza e il progresso sociale, che è l’unico mezzo di prosciugare il terreno di reclutamento dei movimenti sedicenti islamisti. Senza dubbio l’assassinio di ostaggi USA e inglesi costringerà Washington e Londra a comprendere meglio che Algeri ha fatto quello che andava fatto: nessun negoziato è possibile con gli assassini. Io non credo purtroppo che nel lungo termine questo “errore” dei terroristi modificherà il sostegno degli Stati Uniti e della Gran Bretagna a quello che essi continuano a definire islam politico “moderato”.


Riferimenti:


(1) Questo breve promemoria di cosa è realmente l’islam politico reazionario si impone come introduzione. L’utilizzazione strategica dei movimenti in questione da parte delle forze del capitalismo/imperialismo dominanti non esclude le stonature. La mobilitazione di avventurieri “jihadisti” (terroristi) è lo strumento ineludibile attraverso il quale l’islam politico reazionario può  imporre il suo potere. Questi avventurieri sono evidentemente inclini agli atti criminali (saccheggi, presa di ostaggi, ecc.). Inoltre i “folli di Dio”, tra cui essi reclutano i loro “soldati”, sono sempre, per natura, capaci di iniziative imprevedibili. La leadership del movimento (il Golfo wahabita) e quello dell’establishment degli Stati Uniti (e di riflesso i governi degli alleati subalterni europei) sono consapevoli dei loro limiti di “controllo” degli strumenti attraverso i quali si realizza questo comune progetto. Ma accettano questo caos.

(2) La Francia ha mantenuto il controllo sul Niger e il suo uranio attraverso una politica di “aiuto” a buon mercato che mantiene il paese nella povertà e nell’impotenza. Vedi la nota (4). Il progetto del Sahelistan spazza via le opportunità della Francia di mantenere il suo controllo sul Niger.

(3) In contrasto con la lucidità di Algeri, si evidenzia il silenzio del Marocco, la cui monarchia ha sempre espresso le sue rivendicazioni su Tombouctou e Gao (città “marocchine”!) in ripetuti discorsi altisonanti. Si resta ancora in attesa di una spiegazione di questo ripiegamento di Rabat.

(4) Yash Tandon (En finir avec la dépendance de l’aide, CETIM, 2009) ha dimostrato che “l’aiuto” associato ai condizionamenti della mondializzazione liberale non è un « rimedio » ma un veleno.   Nella introduzione di questa opera io proprio ho fornito un esempio, precisamente quello del Niger.    


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