nostramerica, 26 dicembre 2015
 
 
43 morti sono davvero pochi
Sebastian Salgado
 
 
Su Resumen Latinoamericano del 24 dicembre, ho trovato questo scritto che ricorda, insieme ai 43 desaparecidos di Ayotzinapa (*), tutti i morti, gli scomparsi, i respinti di questo nostro mondo. E’ firmato Sebastián Salgado. Non sono riuscita a confermare che l’autore sia il grande, grandissimo fotografo brasiliano, ma potrebbe esserlo. L’ho scelto come lettera di Natale di <nostramerica.wordpress.com> (A. Riccio)
 
 
 
 
43 morti sono proprio pochi, quasi niente. Nella Scuola Rurale di Ayotzinapa, Guerrero, Messico, li pretendono ancora con vita. Poco più di un anno fa, la polizia municipale della località di Iguala li ha presi mentre facevano una protesta per rivendicare gli omicidi del governo di Díaz Ordaz, nel 1968. Forse perché il sistema monopolistico dei mezzi di comunicazione messicani, con Televisa in testa, garantisce l’impunità mediatica ai suoi politici di laboratorio, compreso il Presidente della Repubblica.
 
Sull’altra sponda, i giornalisti che non appartengono a questi imperi della comunicazione, “i morti di fame”, in parole di Alfredo Jalife, ne restano fuori. Possono morire, come i 43 giornalisti assassinati nel 2015 in America Latina, 14 dei quali sono messicani.
 
Sono messicani anche i 43 morti di Zamora, Michoacán, dove, dopo uno scontro armato di tre ore, nel mese di maggio, è morto un poliziotto e 42 civili, qualificati come “ presunti delinquenti”. Nessuno protesta in loro nome.
 
Eppure, in coro, un gruppo di politici conservatori di importanza internazionale, fra cui ci sono degli ex presidenti, chiudono l’anno chiedendo la liberazione del golpista venezuelano di ultra destra, Leopoldo López. Senza accorgersi delle 43 vittime provocate dalla sua ribellione violenta in Venezuela durante il 2014, che aveva battezzato “La Salida”. Usando franchi tiratori prezzolati, capaci di creare il caos, già sperimentato nel 2002 a Puente Laguno, Caracas. Morti che gli sono costati una condanna a 13 anni.
 
Ma indubbiamente quello che ha inchiodato nuovamente il mondo davanti agli schermi, sono stati gli attentati di Parigi. Dopo l’attacco di falsa bandiera nella rivista Charlie Ebdó, che era stata acquistata dal gruppo Rothschild giorno prima. Il mondo è tornato a sentire i reclami del terrore a un volume adeguato in modo che le onde sonore ricordino ai sistemi nervosi che bisogna mettere in relazione l’islam con gli attentati. Degli incappucciati ostinatamente decisi a dimenticare lucenti passaporti siriani, ne hanno fatti fuori a centinaia, e tutti “furono la Francia”. Cittadini impauriti, docili alla perdita dei diritti e delle garanzie individuali e a un’ affrettata dichiarazione di guerra di Hollande contro la Siria.
 
Poche ore dopo, un nuovo attacco con due esplosioni a sud di Beirut, si è preso nuovamente la vita di 43. Ma nessuno “fu Libano”. Infatti non è lo stesso se Daesh rivendica un attentato nella capitale francese o in un bastione della resistenza anti sionista, dove opera Hezbollah. O, per lo meno, non ha lo stesso impatto per la stampa, ostinata a montare una battaglia mediatica medioevale, dove mori e cristiani danno le loro vite per la mezza luna o per la croce.
 
Un altro caso è quello dei 43 mussulmani sciiti morti, in maggio, nel primo attentato del Daesh in Pakistan, quando degli uomini armati in motocicletta hanno aperto il fuoco contro famiglie che andavano in autobus verso una Moschea, fra cui 16 donne. Simile al caso dell’attentato del gruppo Boko Haram, a Gubio, nel nordest della Nigeria, dove uomini armati con armi di grosso calibro hanno aperto il fuoco contro la popolazione sciita dello Stato di Borno, causando, ancora una volta, 43 morti.
 
Quattro decine e tre unità di uomini e donne senza vita, ignorati in molte latitudini, morti per pallottole o per esplosioni, che non sono utili alla campagna di disinformazione e di islamofobia che i carri armati del pensiero occidentale hanno deciso di affrontare negli ultimi anni.
 
Non gli sono utili nemmeno i 43 gendarmi morti in Argentina, nella prima settimana di presidenza del conservatore Mauricio Macri, quando il loro furgone è caduto da un ponte a causa di un apparente guasto meccanico. Corpi che evidenziano il loro essere diretti a Jujuy, alla frontiera con la Bolivia, dove c’è un movimento politico di forte presenza sociale. L’esecutivo federale pianificava una possibile repressione prima delle misure del Governo statale in pregiudizio delle classi popolari.
 
Dall’altra parte, ci sono altri 43 morti che occupano migliaia di titoli in tutto il mondo. Sono le vittime di un presunto bombardamento di aerei russi in Siria, nella sua lotta contro Daesh. La fonte di questa notizia, ripresa da tutte le agenzie di stampa occidentali, è l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani. Quando abbiamo indagato su come lavora questa organizzazione non governativa che è la fonte della maggioranza delle notizie che provengono dall’invasione mercenaria che arriva fino a Damasco, che alcuni chiamano guerra e che da tutti i suoi punti di vista definisce il Presidente Bashar Al Assad come un dittatore, scopriamo che quel tale Osservatorio non esiste. C’è solo un esiliato di nome Abdel Rahman nella città di Coventry, Inghilterra, che dalla sua piccola casa di due stanze, pubblica informazioni false in modo che le agenzie possano rifornirsi a questa fonte.
 
Tutti gli altri gruppi di 43 vittime, che sono reali, non occupano oggi lo spazio che 43 possibili, false vittime di un presunto bombardamento russo occupa nella stampa occidentale.
 
 
(*) La notte tra il 26 – 27 settembre di un anno fa nella città di Iguala, stato del Guerrero Messico, scomparivano nel nulla 43 studenti e 3 ragazzi venivano uccisi. La folle notte di rapimento e morte fu condotta dalla polizia municipale di Iguala coadiuvata dai gruppi del narcotraffico locale e con l’esercito federale che osservava a distanza senza intervenire. I 43 studenti colpiti, attaccati e repressi erano studenti della Scuola Normale Rurale di Ayotzinapa.
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