I diritti dell’uomo nelle monarchie del Golfo: un’utopia tollerata dall’occidente
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Le grand soir, 27 aprile 2013 (trad.ossin)
I diritti dell’uomo nelle monarchie del Golfo: un’utopia tollerata dall’occidente
Chems Eddine Chitour
“Mio padre cavalcava un cammello, io giro in Cadillac, mio figlio vola in jet, suo figlio cavalcherà un cammello” – Proverbio saudita
Un problema ricorrente e del tutto pertinente è quello della percezione dei diritti dell’uomo nei paesi arabi e mussulmani. E’ ben noto che negli studi occidentali, per relativizzare la tratta dei Neri, il Codice Nero, la poco invidiabile sorte dei popoli ridotti in schiavitù in conseguenza delle grandi scoperte, si paragona la schiavitù praticata dai paesi occidentali a quella dei paesi arabi. In effetti è noto che, come i mussulmani, anche gli ebrei praticavano questa impresa lucrativa della tratta, che anche la Chiesa faceva la sua parte, aveva le sue galere e i popoli soggiogati erano spesso trattati come animali. Alla fine del XIX secolo gli scienziati inglesi si interrogavano se bisognava classificare i pigmei nell’ordine degli animali o degli esseri umani.
Tutti ricordano infatti la “disputa” di Bartolomé de las Casas, il domenicano spagnolo che fece della difesa degli amerindiani ridotti in schiavitù la sua bibbia. E’ vero che anche in punto di morte abiuravano la loro antica fede, recuperati in tempo dalla Chiesa… In questa storia di schiavitù, nessun popolo che sia stato dominante in una certa epoca può dire di essere pulito. Nei paesi occidentali ci si rifà la verginità omettendo di segnalare en passant che ancora cinquanta anni fa la schiavitù era corrente nello stato dell’Alabama…. Meglio ancora, la rivoluzione francese aveva abolito la schiavitù e una ventina di anni dopo Napoleone la istituì nuovamente, provocando la rivolta che fu segnata dalla lotta di Toussaint Louverture. Si è dovuto attendere il 1848 perché la schiavitù fosse abolita - in Francia – con la lotta di Victor Schoelcher.
La schiavitù ebbe il suo momento di gloria nelle colonie, soprattutto col Codice dell’indigenato, replica del “codice Nero” di Colbert. E’ vero, come non si è stancato di ripetere Jules Ferry, che “i diritti umani non sono validi nelle colonie”.
La schiavitù in terra di islam
Come tutte le altre società umane, quelle mussulmane non sfuggono alla tentazione di dominazione dei deboli. Nell’islam, però, il prigioniero tenuto in schiavitù è considerato come una vittima di una disgrazia passeggera che non può essere definitiva, come proclamano i religiosi cristiani del genere di Bossuet, secondo il quale lo schiavo, il Nero, deve espiare ad vitam aeternam la maledizione di Cam, maledizione molto teorizzata dalla Chiesa. In terra di Islam, per esempio, durante al Reggenza di Algeri (1515-1830), molti prigionieri occidentali ottennero la liberazione e taluni altri preferirono restare da liberi nella Reggenza, senza provare il bisogno di tornare a casa. Il XX° secolo ha visto l’abolizione della schiavitù solo sul piano formale. Nuove forme di schiavitù hanno rimpiazzato quella originaria, soprattutto lo sfruttamento dei popoli per la fabbricazione di beni di consumo in cambio di salari derisori e in condizioni di lavoro deplorevoli.
Bisogna tuttavia segnalare che la schiavitù “in senso classico” è sparita, l’ultimo paese ad averla abolita essendo stata nel 1980 la Mauritania, benché si dica che vi sarebbero quasi 100.000 persone ancora tenute in schiavitù, secondo l’enciclopedia Wikipedia.
Vogliamo adesso occuparci di una schiavitù molto più insidiosa, quella in vigore nei paesi del Golfo, proprio quelli che impartiscono grandi lezioni sui diritti dell’uomo nonostante da loro le condizioni degli immigrati siano tra le più deplorevoli. Tutti ricordano che, in Kuwait, una buona parte della popolazione non ha diritto ad alcun diritto. Sono i “bidun”, letteralmente “senza” diritto. Più ancora, i diritti dell’uomo sono qualcosa di sconosciuto nei paesi arabi del Golfo, salvo per alcuni individui che hanno la massima difficoltà a farsi ascoltare, addirittura a sopravvivere, dal momento che i governi usano allegramente della pena di morte senza scrupoli, come si è appena visto in Arabia Saudita con l’esecuzione di sette persone.
Firmato dalla giornalista Hayat El-Howayek Attieh del giornale Al-Arab Al Youm, si legge: “Presto o tardi, i lavoratori immigrati asiatici, che rappresentano la schiacciante maggioranza della popolazione nei paesi del Golfo, reclameranno dei diritti politici: questa idea costituisce un’eccellente terreno per le teorie del complotto occidentale contro l’arabità di questa regione”.
Da anni, gli spiriti liberi e indipendenti suonano l’allarme: l’Occidente non permetterà ai paesi del Golfo di conservare le loro specificità arabe. Gli spettatori dell’emittente satellitare Al Jazeera non hanno certamente dimenticato una trasmissione, mandata in onda qualche anno fa, nella quale due eminenti intellettuali del Golfo hanno sollevato la questione della distruzione dello spirito arabo nei paesi del Golfo a causa dei lavoratori immigrati. Uno di essi, lo scrittore qatariano Mohamed Al-Misfir, ha spiegato che verrà fatalmente il giorno in cui si porrà la questione dei diritti dell’uomo e della naturalizzazione di questi lavoratori immigrati, che sono nella loro immensa maggioranza di origine asiatica (…) Così gli abitanti originari si ridurranno ad una minoranza, non superando il 15% dell’insieme della popolazione. Al-Misfir proponeva dunque di sostituire la popolazione immigrata di origine asiatica con dei lavoratori immigrati arabi” (1)
In tale contesto, Human Rights Watch ha messo sotto accusa gli Emirati. L’organizzazione ha chiesto agli Stati Uniti e all’Unione Europea di non firmare l’accordo di libero scambio con questo paese, fino a quando non avrà cessato di maltrattare la mano d’opera straniera”. In Arabia Saudita, ogni lavoratore straniero ha bisogno di un tutore per poter lavorare. Questo sistema favorisce gli abusi, specie quando si tratti dei diritti dei domestici”.
Gli Arabi del Golfo hanno paura di perdere la loro identità? Bisogna ancora ridefinire cosa sia l’arabità in questo XXI° secolo nel quale la mondializzazione sta completando la distruzione delle identità per la maggiore utilità del Capitale. Tuttavia tutti i paesi, in occidente, definiscono delle quote da non superare per continuare, come dice Marine Le Pen o Philippe de Villiers, a ‘vivere a casa propria’, ‘tra galli dalla testa paffuta il cui censimento si è fermato ai tempi di Alesia (città gallica posta sotto assedio da Giulio Cesare, ndt)”.
Tutto questo, però, non assolve gli Arabi del Golfo che hanno inventato dei concetti presi a prestito dall’islam come quello della “kafala”, una sorta di tutela per esseri inferiori. Essa vale per la donna e per l’immigrato tenuto al guinzaglio dal suo padrone. “All’origine, si legge in un intervento su Agoravox, l’espressione ‘kafala’ richiama una tutela o una delega di autorità parentale che si applica ai figli minorenni abbandonati. E’ una tutela che si esaurisce con il raggiungimento della maggiore età del bambino. Nei paesi del Golfo questa nozione si applica agli immigrati. Migliaia di lavoratori migranti, per lo più originari del sub continente indiano, partono verso i paesi del Golfo con un permesso di lavoro, ottenuto nel loro paese di origine attraverso agenzie di impiego. Ma in virtù della ‘kafala’, questi lavoratori hanno bisogno di essere patrocinati da un datore di lavoro per potere entrare nei paesi facenti parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Questa procedura, che mira a prevenire l’ingresso nel loro territorio di migranti senza documenti alla ricerca di un lavoro, finisce in realtà per ritorcersi contro molti lavoratori stranieri, una volta arrivati. Infatti il lavoratore si trova alla mercé del “kafil”. Questo tutore gli ritira il passaporto e gli rilascia una carta di lavoro che funge da carta di identità. Non ha diritto ad alcuna attività di carattere sindacale o comunque diretta a difendere i suoi diritti. Il kafil ha ogni potere sul suo salariato e le due parti non sono collocate sullo stesso piano di fronte alla legge del paese di accoglienza” (2).
In marzo, scrive Laurent Stephan di Le Monde, il Kuwait, dove risiedono quasi due milioni di stranieri, ha annunciato di voler ridurre il loro numero di un milione in dieci anni. E, dopo qualche giorno, l’Arabia Saudita si è impegnata anch’essa a limitare la presenza di immigrati nel regno. Decisa a respingere i lavoratori che si trovino in situazione illegale, Riyadh ha appena varato una nuova regolamentazione in materia di impiego. Da oggi in poi il lavoratore potrà lavorare solo per il suo kafil (datore di lavoro e garante) e gli sarà vietato di svolgere un’attività commerciale in proprio. Il sistema del kafalato, che è in vigore nella maggior parte dei paesi arabi in materia di immigrazione, può essere aggirato da accordi tra il garante e il suo sottoposto, per consentire a quest’ultimo di lavorare per un altro. Ma simili accomodamenti sono oramai vietati dalle autorità saudite, che hanno avviato una campagna di espulsioni” (3).
La “kafala” nei paesi del Golfo e la schiavitù dei tempi moderni
E’ un fatto, la schiavitù esiste ancora –ipocrisia a parte – nei paesi del Golfo.
“Quando nell’ agosto 2010 – scrive Abeer Allam – una domestica originaria dello Sri Lanka, L.T.Ariyawathi, ha accusato il suo datore di lavoro di averle conficcato dei chiodi e degli spilli nel corpo, molti Sauditi e responsabili governativi hanno messo in dubbio il suo racconto (…) Che siano banchieri, avvocati, autisti o domestici, i nove milioni di espatriati che lavorano in questo paese sono sottoposti all’autorità di un kafeel o padrino. “E’ il sistema che favorisce gli abusi – afferma Christoph Wilcke di Human Rights Watch – In generale l’impunità non fa che aumentare la violenza, qualsiasi sia la cultura. E’ già successo che alcuni occidentali che abitano nel Golfo trovino normale di sottopagare e tenere sotto chiave i loro domestici, cosa che non avrebbero mai potuto fare nel loro paese di origine” (…) “C’è un mercato nero dei visti controllato da persone influenti. Nessuno può contrastarlo”, spiega Waleed Abu Al-Khair, avvocato specialista dei diritti dell’uomo. “Abbiamo a che fare con una codificazione della schiavitù. Molte persone vivono senza lavorare grazie ai proventi che vengono loro dal padrinato e al danaro che dei lavoratori poveri versano loro ogni mese “ (4).
“Ogni lavoratore straniero, ma anche ogni impresa straniera, è sotto tutela, come un bambino. La “kafala” consente ai cittadini nazionali di ricavare profitti dalle imprese aperte sul suolo nazionale (possedendo la maggioranza del capitale) o di esercitare un potere sui lavoratori immigrati”. Questo sistema di governance medioevale contiene in sé ogni genere di possibile deriva, ivi compreso una sorta di schiavitù dei tempi moderni per i lavoratori stranieri che vivono in questi paesi. Che questo sistema possa esistere è una aberrazione in sé, ma il silenzio che lo circonda, soprattutto da parte degli organismi competenti, come la commissione dei diritti dell’uomo dell’ONU, è scandaloso” (4)
Richard Morin ci racconta, a titolo di esempio, della lotta per ottenere un impiego. Ascoltiamolo: “Nel 2012, Theresa M. Dantes ha firmato un contratto con un’agenzia di collocamento filippina per venire a lavorare in Qatar come domestica. Le si garantiva vitto, alloggio e un salario di 400 dollari (305 euro) al mese. Ciononostante, al suo arrivo, il suo datore di lavoro l’ha informata che le avrebbe versato solo 250 dollari (195 euro). Ella ha accettato in quanto la sua famiglia, rimasta a Quezon City, contava su questo salario (…) Circa 1,2 milioni di lavoratori stranieri – che sono per lo più delle persone povere originarie dell’India, del Pakistan, del Bangladesh, del Nepal, dell’Indonesia e delle Filippine – rappresentano il 94% della mano d’opera in Qatar, una monarchia assoluta grande più o meno come l’Ile de France. Un gran numero di queste persone lavorerebbero in condizioni degne del Medio Evo, che l’ONG Human Rights Watch ha già paragonato al “lavoro forzato” (…) Un dipendente non può cambiare lavoro, lasciare il paese, ottenere la patente, affittare un appartamento o aprire un conto in banca senza l’autorizzazione del suo sponsor, detto kafil, che può per contro a quasi totale discrezione porre fine al padrinato e rispedire la persona nel suo paese di origine” (5)
E le vittime non sono solo domestiche o operai non qualificati: Nasser Beydoun, un uomo d’affari arabo-statunitense, afferma di essere stato “ostaggio economico” a Doha per 685 giorni prima di essere liberato nell’ottobre 2011. Dopo essersi licenziato dal posto di gestore di una catena locale di ristoranti, il suo ex datore di lavoro ha rifiutato di accordargli il permesso di lasciare il Qatar. “I lavoratori stranieri sono gli schiavi moderni dei loro padroni qatariani, spiega Nasser Beydoun, che vive oramai a Detroit, negli Stati Uniti. Sono loro proprietà” (5).
Oltre a tutti questi soprusi, gli immigrati servono da variabile di aggiustamento, da valvola di sfogo sapientemente alimentata dal governo ma anche da una piaga che ha origini antichissime: il razzismo, del quale bisogna ritenere che gli Arabi non si siano ancora liberati nonostante l’apporto trascendentale dell’islam. Infatti, nella stampa saudita, le espressioni razziste contro gli immigrati abbondano. I Neri rubano e saccheggiano. Ritroviamo in scorrimento la stessa immagine che si ha degli Arabi in Europa e negli Stati Uniti. E’ soprattutto la tesi del complotto straniero e la paura dello sciismo che spiegano in grande misura la repressione in Bahrein, in maggioranza sciita e dunque alleato naturale del nemico Iran”.
Tuttavia la presa di coscienza che comincia a esserci, soprattutto attraverso internet e i social network, inquieta seriamente i governi. Dopo la teoria del complotto, si sono moltiplicate le provvidenze per tenere buone le classi pericolose. Inoltre è oramai chiara la nocività del Qatar. Da Londra a Parigi, passando per le isole greche di cui ha acquistato una ventina per i suoi ventiquattro figli, l’emiro è dovunque.
Parallelamente l’emiro finanzia anche gli islamisti in Maghreb, i jihadisti in Siria, senza dimenticare i Fratelli Mussulmani egiziani. Il minuscolo Qatar conserverà a lungo la sua enorme influenza o crollerà come un castello di carte? Gli Arabi, soprattutto del Golfo, sono lontani anni luce dai principi dei diritti dell’uomo. Per il momento essi interessano l’occidente fin tanto che possiedono ancora petrolio e gas. Tuttavia, per merito della pressione delle organizzazioni umanitarie, si comincia a prendere coscienza delle loro malefatte in materia di condizioni umane. Dovranno anche renderne conto ai loro sudditi, che con l’aiuto dell’emancipazione, diventeranno, speriamo, dei cittadini a tutti gli effetti?
Speriamo che non si debba attendere l’esaurimento del gas e del petrolio per vedere la fine della capacità di nuocere di questi reucci che si sono istallati nei tempi morti per la sventura dei loro popoli condannati per questo a dover tornare alla tenda e al cammello…
1. Hayat El-Howayek Attieh Al-Arab Al-Yawm 2 agosto 2012
2.http://www.agoravox.fr/actualites/international/article/pays-du-golfe-la-kafala-ou-l-112565
3. Laure Stephan : Vent de panique chez les étrangers du Golfe Le Monde 6.04.2013
4. Abeer Allam Arabie Saoudite.Le code de l’esclavage Financial Times 28 giugno 2012
5. Richard Morin : Qatar : Au royaume de l’esclavage The New York Times 19 04 2013