Inchiesta, giugno 2013 – Passato è il tempo in cui l’allora presidente della Camera Sandro Pertini disertò il ricevimento in onore del presidente indonesiano Suharto in visita a Roma, “per non dover stringere la mano a un assassino”. Oggi nessuno più si ricorda del massacro di un milione di comunisti indonesiani del 1965, il peggior crimine contro l’umanità del XX° secolo (nella foto, una delle rare foto della carneficina)







Passato è il tempo in cui l’allora presidente della Camera Sandro Pertini disertò il ricevimento in onore del presidente indonesiano Suharto in visita a Roma, “per non dover stringere la mano a un assassino”. Oggi nessuno più si ricorda del massacro di un milione di comunisti indonesiani del 1965, il peggior crimine contro l’umanità del XX° secolo.
Analizzandone però i caratteri, è interessante notare che la strategia imperialista (statunitense e inglese, soprattutto) resta sempre la stessa. Lo stesso scenario si è ripetuto in America Latina, coi sanguinosi golpe argentino e cileno. E si ripete oggi in Libia e in Siria, dove per rovesciare i regimi in carica si è puntato sui fondamentalismi religiosi e gli odi etnici, proprio come in Indonesia cinquant'anni fa (Ossin)



Le Grand Soir, 29 maggio 2013 (trad. ossin)



Il massacro dei comunisti indonesiani del 1965: ritorno su uno

dei più grandi crimini contro l’Umanità del XX° secolo

Solidarité Internationale PCF


L’ideologia dominante non si accontenta di riscrivere la storia, pratica anche la memoria selettiva. Accanto ai crimini che commemora, quelli attribuiti alle forze comuniste e progressiste, ci sono quelli che passa sotto silenzio, che tenta di far dimenticare


L’uscita nelle sale francesi del banalmente sordido “The act of Killing” ci ricorda uno dei più grandi massacri del XX° secolo, assente nei nostri manuali scolastici, dalla scena mediatica, dal dibattito storico: il massacro in massa dei comunisti indonesiani del 1965.


I cadaveri però ritornano a galla, nella stessa Indonesia dove ogni riferimento agli “avvenimenti del 1965” era vietato sotto la dittatura di Suharto e ancora oggi uccide.


Un rapporto della Commissione indonesiana per i diritti dell’uomo (Komnas-Ham) ha riconosciuto, per la prima volta nel 2012, il “crimine contro l’umanità” costituito dalla repressione anticomunista del 1965.


In assenza di inchieste internazionali, di natura giudiziaria o storica, il bilancio esatto resta sconosciuto. Se le stime non scendono mai al di sotto dei 500.000 morti, la più recente valutazione  – ripresa da The Act of Killing – varia da 1 a 3 milioni di vittime.


Il massacro è stato parte integrante del colpo di Stato di Suharto, finalizzato a liquidare il PC indonesiano (PKI), con l’appoggio degli Stati Uniti, determinati ad eliminare una “minaccia rossa” che, dopo la Cina e il Vietnam, rischiava di far cadere uno degli Stati più popolosi del mondo.


Il primo partito comunista del Terzo Mondo e l’alleanza anti-imperialista di Sukarno
 

L’Indonesia del dopoguerra resta associata alla figura di Sukarno (nella foto di lato), la cui opera può riassumersi nei cinque principi (Pancasila) che si pongono come fondamento di un nazionalismo unitario, esso stesso iscritto in una prospettiva internazionalista, tinto di socialismo e di tolleranza religiosa.

In uno Stato dove erano presenti sei grandi religioni, 300 dialetti, 17.000 isole e 100 milioni di abitanti, Sukarno si pose come arbitro tra le forze sociali e politiche antagoniste, il garante “dell’unità nazionale”.


La sua politica del fronte nazionale, il “Nasakom”, si traduceva nella direzione, da parte del Partito Nazionale Indonesiano (NAS), di un movimento unitario con, da un lato, i raggruppamenti religiosi conservatori (Agama) e, dall’altro, i comunisti indonesiani (Kom).


La linea del PKI era di costituire un “fronte popolare nazionale” per consolidare una nazione indipendente dall’imperialismo, una democrazia avanzata dal punto di vista sociale, che sarebbe stata una tappa verso il socialismo. Quello che per Sukarno era l’obiettivo, per il PKI costituiva un periodo transitorio.


In questa politica di alleanze, i comunisti ebbero un irresistibile successo: il PKI aveva avuto il 16% dei voti alle elezioni del 1955, ma nel 1965 contava 3,5 milioni di aderenti.

Le sue organizzazioni di massa raccoglievano più di 20 milioni di simpatizzanti, vale a dire un quinto della popolazione indonesiana del 1965.


Il sindacato di classe SOBSI contribuiva alla lotta di classe. Esterna, contro le vestigia dell’imperialismo olandese e inglese; interna, contro gli elementi piccolo-borghesi dell’alleanza nazionale e la vecchia classe dominante “nazionale”, quella dei proprietari terrieri mussulmani.


Potente tra i lavoratori del petrolio, del caucciù, oltre che tra i piccoli contadini di Giava e Sumatra, il PKI e le sue organizzazioni di massa davano una prospettiva alle lotte: riforma agraria per i contadini, nazionalizzazione delle risorse nazionali.


Il massacro ricollocato nel contesto internazionale: la mano dell’imperialismo

Dopo la caduta della Cina e il pantano vietnamita, il successo dei comunisti indonesiani inquietava l’imperialismo statunitense, che temeva tanto una radicalizzazione del nazionalismo anti-imperialista di Sukarno, quanto una rivoluzione comunista.


In un primo tempo, gli Stati Uniti cominciarono a fornire aiuti a tutti gli oppositori della “rivoluzione nazionale”, finanziando soprattutto il Partito Socialista (PSI), ferocemente anticomunista, e il partito islamista Masyumi.


Nel 1958, la CIA offrì le basi logistiche e militari per una ribellione armata a Sumatra, ricca di petrolio. Il “governo rivoluzionario” indonesiano, senza base popolare, sostenuto dagli Stati uniti e dai Partiti socialisti e islamisti, venne però sconfitto in pochi mesi dall’esercito indonesiano.


Gli Stati uniti cambiarono strategia. Considerando che l’esercito costituiva l’unico bastione contro il comunismo, gli fornirono un aiuto di 65 milioni di dollari tra il 1959 e il 1965. Consapevole di questa manovra, Sukarno si rivolse all’ambasciatore USA, dicendogli: “Vada all’inferno con il suo aiuto!”


Per i servizi segreti statunitensi e inglesi, si trattava di favorire le fazioni “di destra” anti-Sukarno e filo-imperialiste, guidate in un primo tempo da Nasrution, poi da Suwarto, che aveva studiato negli Stati uniti, contro la fazione dominante “centrista”, guidata da Yani, che era filo-Sukarno.



Il generale Yani
 

Il pretesto per l’ondata sanguinaria contro rivoluzionaria si ebbe il 30 settembre 1965: un colpo di forza di un pugno di colonnelli che proclamò un “governo rivoluzionario”, dopo avere giustiziato sei membri dello Stato Maggiore, appartenenti alla fazione “centrista” dell’esercito, tra cui il generale Yani.

Suharto, al comando delle truppe della Riserva Nazionale (Kostrad), assunse il controllo di Giacarta, con la scusa di difendere il regime di Sukarno. Attribuendo falsamente il putsch ai comunisti, scatenò “il più grande massacro del XX° secolo”, secondo l’espressione usata dalla stessa CIA in un rapporto del 1968.


Il coinvolgimento della CIA, dell’ambasciata USA, ma anche sei servizi inglesi è assolutamente certo. In assenza di archivi completi statunitensi e indonesiani, resta da precisare solo l’ampiezza della collaborazione


Tra i fatti certi, c’è l’addestramento da parte degli Stati Uniti degli ufficiali indonesiani, nella Scuola degli ufficiali dell’esercito indonesiano a Bandoeng (SESKOAD), alla “guerra contro insurrezionale” (territorial warfare).


Dal 1958 al 1965, il SESKOAD ha formato ufficiali dell’esercito di tutti i gradi alla lotta contro ogni possibile “insurrezione” comunista, formando così gli embrioni delle milizie locali nei quartieri dei villaggi. Furono queste le protagoniste del terrore del 1965.


La CIA ha svolto poi un ruolo importantissimo elaborando la propaganda anti comunista dei putschisti: non solo diffondere informazioni su false atrocità commesse dai comunisti, ma soprattutto attizzare gli odi razziali (contro i Cinesi) e religiosi (contro gli atei).


L’ambasciata e i servizi segreti avrebbero anche procurato una lista di 5000 quadri, a tutti i livelli, del PKI all’esercito indonesiano, facilitando la loro ricerca e la decapitazione del partito.


Mentre la repressione infuriava e i giornali occidentali erano costretti, pur minimizzandola, a dare conto della carneficina, le ambasciate e le cancellerie occidentali mantenevano un silenzio ufficiale, lodando tuttavia di sottecchi l’efficacia della liquidazione del PKI.



Il frutto del delitto: 35 anni di dittatura oscurantista al servizio delle multinazionali statunitensi
Il bilancio contabile della repressione non riesce a dare conto della barbarie degli atti: esecuzioni sommarie con fucilazioni o decapitazione, fiumi pieni di cadaveri, campi di concentramento, stupri e poi prostituzione forzata, di tutto ciò dà atto il rapporto del 2012 della Commissione indonesiana per i diritti dell’uomo.


Per i servizi segreti statunitensi, il successo della liquidazione del movimento rivoluzionario in Indonesia fu una fonte di ispirazione per le ulteriori operazioni: dall’operazione Phoenix in Vietnam fino ai colpi di Stato e alle dittature latino-americane, Pinochet in testa.


Il modo in cui si è sviluppata la repressione è rivelatore:

Da una parte, il ruolo di impulso dell’esercito, finanziato e addestrato dagli Stati Uniti, così come è poi accaduto in America Latina: è l’esercito che ha avviato il “Terrore”, identificando e mettendo in lista i nemici, dando la parola d’ordine della “Sikat” (liquidazione, pulizia) e soprattutto armando, addestrando e inquadrando le milizie.


Perché la maggior parte dei massacri è stata opera delle milizie civili formate dai partiti religiosi: NU (Nahdaltul Ulama) – con il suo ramo di giovani fanatizzati, l’ANSOIR – e MUHAMMADIYAH, due organizzazioni islamiste di massa, radicate nelle comunità rurali, che guidarono una jihad anti comunista.


Questo ruolo di braccio armato giocato dagli islamisti non deve occultare il coinvolgimento massiccio delle altre forze religiose: gli indù a Bali, per la difesa del sistema di casta e contro le influenze cinesi; i cristiani a Giava dove le forze cattoliche hanno partecipato soprattutto alla formazione del KAMI (Forum di azione studentesca), movimento studentesco che ha contribuito all’epurazione dei comunisti.


E non deve occultare il conflitto sociale che ne è all’origine. Per nulla atei in maggioranza, i simpatizzanti comunisti erano spesso essi stessi mussulmani, soprattutto nelle regioni rurali di Giava.


Il conflitto durante la crisi del 1965 si è impostato tra “santri”, mussulmani fondamentalisti, che difendevano gli interessi dei proprietari terrieri, colonna portante delle milizie islamiste; e “abangan”, espressione religiosa sincretista, tollerante, radicata tra le masse rurali simpatizzanti del PKI.


L’evocazione della motivazione religiosa fu prima di tutto un potente fattore di mobilitazione per i proprietari terrieri, resi inquieti dalla diffusione delle idee comuniste, oltre che per un esercito ansioso di poter fare man bassa delle rendite petrolifere.


L’ipocrisia statunitense: discorso ambiguo sulla lotta contro l’islamismo e per la democrazia
L’ipocrisia statunitense del discorso di lotta contro l’islamismo non deve illudere. In Indonesia, come in Afghanistan e nello Yemen ieri, come in Libia e Siria oggi: islamismo, élite economiche conservatrici e imperialismo occidentale si trovano bene insieme.

Ipocrisia statunitense del discorso sulla “democrazia” capitalista contro la “dittatura” comunista. Per più di 30 anni, l’”Ordine Nuovo” di Suharto ha affidato tutto il potere all’esercito nella sua “doppia funzione” di stabilizzazione politica ed economica.

Le organizzazioni islamiste, coordinate dallo Stato nell’ambito del Consiglio degli Ulema (MUI), controllavano le masse rurali.


Ancora oggi, NU e MUHAMMADIYAH sono due tra le organizzazioni islamiste più potenti del mondo. Con una rete di madrase (scuole coraniche) e di associazioni di carità, contano più di 600 milioni di aderenti.


In questo schema, comparabile all’Egitto di Mubarak (compreso il rapporto coi Fratelli Mussulmani), Suharto ha organizzato la “spoliticizzazione delle masse”, diametralmente opposta alla “mobilitazione popolare” su cui si fondava l’azione di Sukarno e del PKI.



Suharto, l'assassino


Per Suharto, le “masse ondeggianti” dovevano essere inquadrate in organizzazioni di massa, come il sindacato unico FBSI, espressione della politica di “collaborazione di classe” in un sistema corporativo simile a quello fascista.


Nei suoi 32 anni di regno, le repressioni sanguinose furono il marchio di fabbrica di Suharto. Per non citare che i casi di peggiore barbarie, la repressione del movimento di liberazione di Timor est e quello della Papuasia occidentale, provocò almeno 300.000 morti.


L’entusiasmo degli osservatori occidentali per il miracolo del “drago indonesiano” non ha avuto limiti.

Suharto, come Pinochet in Cile con la “Scuola di Chicago”, fu pronto a mettere in atto le ricette liberali della “mafia di Berkeley”: austerità di bilancio, soppressione degli aiuti sociali (sostituiti dalla carità islamica), privatizzazioni  e fiscalità di comodo per le imprese.


Gonfiato dalla rendita petrolifera dopo il 1973, dai sussidi del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Mondiale, il “miracolo indonesiano” ha avvantaggiato le multinazionali, come Shell o BP nel settore petrolifero, Nike e Adidas nel settore tessile, oltre ad una ristretta oligarchia corrotta.


Nonostante tre decenni di crescita economica, l’Indonesia ha ancora 120 milioni di poveri, e la metà della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno, secondo i dati diffusi dalla Banca Mondiale, mentre 200 milioni vivono con meno di 4 dollari al giorno.


Lo spettacolare arricchimento di una minoranza contrasta con l’impoverimento della maggioranza. L’Indonesia è oggi il paese dove il numero dei milionari cresce più in fretta: saranno 100.000 nel 2015, concentrando nelle loro mani 500 miliardi di dollari, i due terzi della ricchezza del paese.

Attualmente i 40 individui più ricchi di Indonesia concentrano nella loro mani tanta ricchezza quanto 60 milioni di Indonesiani.


L’esempio indonesiano non solo rivela l’ipocrisia dei difensori dell’ordine capitalista, ma anche a cosa conduce questa forma estrema di liquidazione di un Partito comunista di massa: dipendenza nazionale e impoverimento generale. 
 
 
 

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