L'ISIS nel Kosovo e nei Balcani liberati e democratizzati dalla NATO
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Inchiesta, giugno 2015 - Non solo la guerra di Libia (tragico errore dell'Occidente e della futura presidente USA Hillary Clinton) all'origine della crescita dell'ISIS. Anche la vecchia guerra di Jugoslavia (ricordate?) e l'appoggio agli Albanesi del Kosovo possono essere considerati come un sostanzioso contributo offerto dalla NATO alla resistibile acesa di ISIS (nella foto, scritte inneggianti all'ISIS in Kosovo)
L'ISIS nel Kosovo e nei Balcani liberati e democratizzati dalla NATO
Enrico Vigna, 7 giugno 2015
Queste scritte inneggianti agli islamisti dell’Isis e ai terroristi indipendentisti albanesi dell'AKSH, con il messaggio “Il Califfato sta arrivando”, erano apparse lo scorso anno sui muri di cinta del monastero ortodosso di Decani, nel Kosovo. Le scritte sono visibili anche a 300 metri dall’ingresso del monastero, il più importante della chiesa ortodossa serba, che è sotto protezione dell’Unesco, e tuttora protetto da check point, filo spinato e automezzi militari delle forze internazionali.
Il video dell'Isis diffuso il 4 giugno, relativo alle strategie del Califfato verso la regione balcanica, non fa altro che confermare ciò che analisti militari, studiosi, osservatori e giornalisti (quelli ovviamente, che possiedono onestà intellettuale e indipendenza dai media occidentali) da anni segnalano, documentano e denunciano: che, dalla distruzione della Jugoslavia in poi, in quelle regioni si è insediata una realtà legata all'estremismo fondamentalista ed integralista, che ormai è parte ben radicata di quegli Stati e influenza decine di migliaia di persone.
E' curioso che solo ora media, giornalisti e politici gridino al lupo, spaventati dalla possibilità di avere vicino a noi i terribili militanti dello Stato islamico; in questi anni questi signori si occupavano di cucina, di teatro, di poesia o di flora marina?
Dietro questo processo di radicamento integralista vi sono i governi di Stati nostri alleati, quali la Turchia e l’Arabia Saudita, membri della NATO o baluardi delle politiche criminali e devastatrici nel Medio Oriente che sovvenzionano la ricostruzione di scuole e moschee, per potere successivamente diffondere la propria linea ideologica attraverso tali istituzioni. Ad esempio si stima che, solo i fondi sauditi filtrati nei Balcani attraverso organizzazioni caritatevoli dedite al proselitismo, superino i 500 milioni di dollari
Eppure questi stessi soggetti integralisti in Iraq, in Cecenia, in Bosnia, in Serbia, nel Kosovo, in Libia, in Siria sono stati esaltati come combattenti per la libertà; sono stati finanziati, armati, sostenuti dai governi occidentali e dai media ufficiali; sono stati i protagonisti della "liberazione" di quei paesi da "regimi e despoti" che non li tolleravano e li combattevano…ma non erano "democratici".
Ieri eroi, oggi terroristi criminali! Campioni di "salto della quaglia", i nostri.
Dalle loro poltrone mediatiche mettono in guardia contro la possibilità che, sui barconi dei disperati che attraversano il Mediterraneo, possa viaggiare anche qualche terrorista del califfato; ed ora tremano alla visione di questo video che li mette davanti ad una realtà concreta: la concreta possibilità che il pacioso occidente, non solo possa ospitare qualche isolato terrorista pazzo, ma debba confrontarsi addirittura con una strategia di destabilizzazione sanguinaria, pianificata dall’Isis e dal Califfo che lo guida.
Ma questi luminari del giornalismo, della politica, dell'informazione di massa non sono a conoscenza dell’esistenza del Battaglione Dudaev in Ucraina, formato da 550 jihadisti tagliagole, reduci dell'Iraq, della Libia, della Siria, che stanno combattendo per la "democrazia e la libertà" in Ucraina contro le milizie popolari antinazifasciste del Donbass, cui è stato fornito un passaporto ucraino per motivi di "patriottismo", e col quale possono tranquillamente e legalmente prendere un aereo o un treno per raggiungere Roma, Berlino, Parigi, Londra, ecc. Altro che barconi…
Ma c'è un altro aspetto che deve essere posto in risalto, ed è la responsabilità dei politici, dei giornalisti, dei pensatori di destra e di sinistra, di tutti coloro che, in questi ultimi venti anni, chi in malafede, chi in buonafede, chi per condivisione politica delle strategie aggressive e imperialistiche, chi per semplice cecità, si sono resi, di fatto, complici di questa situazione.
Quando si denunciava che Bin Laden aveva il passaporto della "nuova Bosnia", quando si spazzavano via l'Afghanistan l'Iraq, Haiti, Grenada, il Burkina Faso di Sankara, la Jugoslavia, la Serbia, il Kosovo multietnico, la Libia, oggi la Siria e l'Ucraina del Donbass (che però non sono cadute); tutti questi signori profumatamente pagati, professionisti e illuminati politicamente, cosa dicevano, scrivevano, quali analisi proponevano?
A nessuno di questi signori viene in mente che la diffusione del jihad nell’area balcanica rappresenta il prodotto di un’opera occidentale di destabilizzazione che ha creato instabilità, oltre ad un immiserimento generale ed una disgregazione etnico-religiosa generatrice di odi tra i popoli. E quest’opera distruttrice è stata fatta in nome di una cieca logica di interessi immediati.
Tutto parte dalla diffusione, da parte dell'Isis, di un video dove si annuncia di voler "vendicare l'umiliazione subita dai musulmani in Kosovo, Albania e Macedonia"; così proclama nel video in lingua albanese Abu Muqatil Al Kosovi, un miliziano islamico kosovaro che si dichiara rappresentante dello Stato Islamico nella regione.
Il lungo video, diffuso dal Al Hayat media center, l'organo ufficiale dell'organizzazione, annuncia futuri attacchi nella regione balcanica, che saranno affidati a miliziani di origine albanese. "Arriveremo con gli esplosivi", dichiara fra le altre cose Abu Muqatil al Kosovi, originario del Kosovo. Abu Muqatil, preannuncia "giornate nere" per tutti quelli che, "in Kosovo, in Albania, in Macedonia ed in tutti i Balcani, hanno disprezzato i musulmani". Poi aggiunge: "dovrete aver paura di camminare per le strade, di stare nei vostri uffici, di dormire nelle vostre case. Con il permesso di Allah, vi strangoleremo".
Già dalla fine del 2013 il War Long Journal, citando la rivista specializzata SITE, aveva stimato che oltre centocinquanta jihadisti kosovari stavano combattendo nelle fila dell’opposizione armata siriana, oggi alcune fonti ufficiose parlano di quasi 2000 combattenti provenienti dai vari Stati balcanici. Fra questi c’è anche Abu Abdulah el-Kosovi che, nel video dell’ISIS, parla nella sua lingua madre albanese dell’importanza di estendere la guerra nei Balcani e in Europa. Si tratta di un fatto importante, perché evidenzia l’obiettivo da parte del Califfato di rivolgersi direttamente alle popolazioni di etnia albanese, ultimamente sempre più coinvolte nel conflitto siriano. Il fenomeno è in continua crescita sin dal 2011, anno in cui secondo le fonti dei Servizi di sicurezza serbi è cominciato l’afflusso di combattenti dai Balcani. A sostegno di questa tesi vi sono i dati riportati nell’articolo “Albanian Islamists Join Syrian Civil War” di Mohammad al-Arnaout (consultabile sul sito al-monitor.com). Secondo l’autore, infatti, i volontari non provengono dal solo Kosovo, ma più in generale da tutti quei paesi balcanici in cui è presente popolazione albanese di fede islamica, ossia Montenegro, Macedonia, Serbia (valle di Preševo) e, chiaramente, Albania, oltre a quelli provenienti massicciamente alla Bosnia.
Questa campagna di reclutamento, come riportato dall'autorevole pubblicazione Analisi Difesa, ha negli ultimi tempi preoccupato anche le autorità locali, soprattutto dopo che alcuni giornali, come Shekulli (il Secolo) di Tirana e Koha Ditore (Daily Time) di Priština, hanno pubblicato dei pezzi allarmanti sul flusso di combattenti verso la Siria. L’articolo più deciso è stato quello della testata kosovara, che ha puntato il dito contro la politica troppo “distratta” del Premier Thaci, nonchè contro le due moschee del paese, una nella capitale e una a Mitrovica, indicate come veri centri di reclutamento del terrorismo.
In Kosovo un altro fattore inquietante è rappresentato dal partito LISBA (il cui nome inglese è “Islamic Movement to Unite”) accusato, da alcuni osservatori locali, di essere direttamente coinvolto in queste attività. Questa realtà politica è guidata da Arsim Krasniqi e Fuad Ramini (nella foto sotto) che The Weekly Standard ritiene essere il vero leader carismatico, sfruttando due elementi che facilitano l’affermazione dell’integralismo islamico: la grandissima influenza che gli USA hanno sul paese e gli aiuti sauditi in favore della diffusione del wahabismo.
Il 12 novembre 2013 sei uomini furono arrestati in Kosovo con l’accusa di essere i responsabili del reclutamento di combattenti. Tuttavia i problemi del Kosovo non finiscono qui. Secondo varie agenzie di stampa, già l’anno scorso il territorio del Kosovo è stato utilizzato come centro di addestramento da vari gruppi armati siriani, rivoltisi all’UCK per migliorare le proprie preparazioni al combattimento. L'accusa più pesante e dettagliata fu quella di V. Čurkin, Ambasciatore Russo presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU che, già nel maggio 2012, aveva denunciato che “le autorità del Kosovo hanno dei rapporti con rappresentanti dell’opposizione siriana per addestrare insorti siriani sul proprio territorio".
Nell’agosto 2014 ci sono stati oltre 40 arresti di militanti e seguaci della rete del Califfato in Kosovo, mentre altri 17 erano sfuggite alla retata.
Nella foto sotto l'Imam della moschea El-Kudus a Gnjilane, Zekerija Cazim, uno dei principali istigatori e reclutatori della jihad in Kosovo, mentre viene portato in carcere
Nel settembre 2014, a Pristina, durante una seconda retata delle forze internazionali contro la rete locale dell'Isis, tra i 15 fermati (di cui 9 sono iman di moschee locali), vi era anche Shefqet Krasniqi (foto sotto), capo religioso della Grande Moschea di Pristina, che reclutava e indirizzava verso le zone di guerra in Siria e Iraq; si valuta che solo attraverso lui siano partiti da Pristina oltre 200 volontari, di cui 20 sono morti in combattimento.
Fuad Rakimi, il maggior leader estremista del Kosovo
Ecco uno dei "liberatori" del Kosovo alleati della NATO e dell'occidente, poi al lavoro in Siria e Iraq, con in mano la testa di un ragazzino siriano.
Bujar Abdia, un albanese che da molti mesi combatteva nelle file dello Stato Islamico, si è fatto esplodere in un attacco suicida nella provincia di Salahuddin, nel nord dell'Iraq, uccidendo 36 soldati curdi.
I Wahhabiti di Glogovac in Kosovo hanno minacciato di decapitare il deputato dell'Alleanza per il Futuro del Kosovo, e membro dell'Assemblea del Kosovo, Palu Lekaj. Oltre a Palu Lekaj, Abdia, capo della comunità di Glogovac, ha minacciato altri politici del Kosovo definendoli "infedeli".
In Siria invece è stato ucciso un altro albanese combattente nelle file dell'Isis: si tratta di Ekrem Hasan da Kline, fratello di Abu Hassani, che a sua volta sta combattendo in Siria.
Dalla sola area di Raska in Kosovo sono andati a combattere in Siria, nelle fila dello Stato Islamico, circa 40 wahhabiti; la comunità islamista radicale di Raska è formata da circa 120 persone che organizzano scuole wahhabite nei locali di case private.
Ma la situazione è gravissima anche in Bosnia-Erzegovina, dove esiste una presenza massiccia dell'integralismo e dello jihadismo, in particolare wahabita e salafita, che sono sul posto già dal conflitto degli anni ’90, quando migliaia di mujaheddin accorsero nel paese per combattere le forze serbe.
Sono pubbliche le denunce di attività di reclutamento per la Siria e, addirittura, dell’esistenza di uffici a ciò preposti, presenti nella Repubblica bosniaca; i dati ufficiali suggeriscono la presenza di bosniaci musulmani nella guerra contro Damasco. Alcuni giornali serbi, tra cui il Vecernje Novosti, hanno rivelato che sono quasi 600 i volontari attivi in Siria provenienti da Sarajevo e altri centri.
Quanti rammentano che l’attentatore di Francoforte del 2011, che uccise due soldati americani e ne ferì altri, era il kosovaro albanese Arid Uka, ed era stato addestrato nell’enclave salafita bosniaca di Zenica?
Sempre nel 2011 Mevlid Jasarevic, albanese nativo di Novi Pazar in Serbia, noto per i contatti con le cellule jihadiste di Gornja Maoca, era uno degli attentatori contro l’ambasciata USA a Sarajevo; insieme a lui c'era il ventitreenne Emrah Fojnica, morto poi in un attentato suicida in Iraq nel 2014.
Come riporta Veronica Castellano in Osservatorio Terrorismo, alcune delle zone che attualmente ospitano comunità di orientamento salafita in Bosnia sono i villaggi di Bihac (al confine settentrionale con la Croazia), Teslic, Zepce, Zenicae (nella zona centrale del Paese), Gornja Maoca e la città nord-orientale di Tuzla. Tali comunità rifiutano di collaborare e riconoscersi nella principale organizzazione islamica bosniaca, la Islamiska Zaidenica, e vivono secondo una interpretazione ultra-conservatrice della Sharia, senza telefoni o televisori, mandando i bambini in scuole coraniche (piuttosto che in scuole pubbliche) e seguendo i sermoni di imam estremisti come Nusret Imamovic, Jusuf Abu Muhammad al-Maqdisi, o Bilal Bosnic, quest’ultimo uno dei leader del movimento salafita bosniaco, che recentemente ha predicato anche nel nord Italia. Tra i più noti epicentri del reclutamento jihadista bosniaci, vi sono la Moschea Bianca e quella del Re Fahd, entrambe a Sarajevo