Marocco - La meno conosciuta delle due frontiere terrestri tra l’Africa e l’Europa si trova a Melilla. Dodici chilometri quadrati contornati dal mare e una rete metallica, teatro di incidenti e drammi tutti i giorni. Un reportage di Tel Quel, tradotto in italiano a cura di ossin







Tel Quel - 29 novembre/5 dicembre 2008


Melilla-Nador. La frontiera della vergogna


di Zoé Deback
(inviato speciale a Melilla)



Ai quattro posti di frontiera posti tra Nador e Melilla gli incidenti si susseguono, qualche volta degenerano in dramma. Il 22 novembre, al posto di frontiera principale di Beni Enzar, è scoppiato un violento alterco tra un doganiere marocchino e un poliziotto spagnolo. Secondo quanto risulta da numerose testimonianze raccolte sul posto, tutto è cominciato quando un doganiere marocchino ha tentato di inseguire una signora che non voleva farsi confiscare le sue cose e stava tornando verso Melilla. Quando il doganiere è penetrato per diversi metri in territorio spagnolo, una “guardia civil” gli ha intimato di tornare ad occuparsi delle sue incombenze nel versante marocchino. “E’ stata la risposta del doganiere che ha dato fuoco alle polveri”, ci hanno spiegato sul posto. “Io vado dove mi pare, perché Melilla è marocchina!” avrebbe detto, secondo quanto riporta il quotidiano Melilla Hoy.

A questo punto il Marocchino ha ricevuto un colpo di manganello dallo Spagnolo, un gesto che ha trasformato di colpo un gruppo di sfaccendati marocchini in patrioti sfegatati: si sono precipitati a colpi di pietre e di bottiglie in difesa del compatriota. I poliziotti spagnoli sono andati nel panico e hanno fatto ricorso alla dotazione antisommossa destinata agli assalti dei sans papiers, sparando diverse pallottole di caucciù, una delle quali è stata tirata quasi a bruciapelo sul petto del doganiere, che ha dovuto essere ricoverato in rianimazione all’ospedale di Nador. Bilancio del tafferuglio: una decina di feriti. Niente di veramente eclatante a paragone di quanto era accaduto il lunedì precedente (17 novembre), quando una Marocchina di 32 anni è morta calpestata dalla folla al posto di frontiera di Barrio Chino. Per capire come possa essere accaduto, bisognerebbe vedere la conformazione di questo posto dove hanno trasferito nel maggio scorso il passaggio di tutti i grossi carichi di merce da Melilla verso il Marocco (oramai vietato a Beni Enzar), e che raggiunge i 17.000 passaggi transfrontalieri al giorno.


Frontiera o mattatoio?
Ogni mattina una folla di facchini invade, sul versante marocchino, un grande cortile in discesa. In un angolo in fondo si apre un’unica piccola porta che permette di accedere ad una grande struttura di metallo che sembra un mattatoio con i suoi tornelli successivi – all’uscita dei quali ci si ritrova in Spagna. L’insieme forma un imbuto assai pericoloso, nel quale ci si ferisce di frequente. La ragazza, diplomata in letteratura araba e venuta dalla regione di Fes per lavorare in questo commercio transfrontaliero, ha avuto la sfortuna di cadere a terra davanti alla piccola porta, proprio nel momento in cui la folla irrompeva. E’ morta sul colpo.
Il dramma ha suscitato grande emozione nelle due sponde della frontiera. Le associazioni di Nador si sono mobilitate per permettere alla modesta famiglia della vittima di poterla interrare nel suo villaggio natale. Abdelhamid Aakid, della Coordination de la Società civile du nord du Maroc, spiega: “Siccome il governatore di Nador non prendeva alcuna iniziativa, abbiamo deciso di procurare noi un’autoambulanza fino a Fes, mentre il presidente di Melilla si era impegnato a pagare i 30.000 dirhams (poco meno di 3.000 euro, ndt) di spese dall’obitorio fino a Nador. Finalmente, arrivati alla vigilia, il governatore deve aver provato vergogna, così è stata Nador a farsi carico delle spese del trasporto (ambulanza), circa 1.000 dirhims (poco meno di 100 euro, ndt)”.
La Coordination ha organizzato una manifestazione a Barrio Chino il 24 novembre, settimo giorno dopo il decesso. Uno dei membri dell’associazione, Lahcen Mejjati, ci spiega che “i facchini hanno già perso diversi giorni di lavoro quando il posto è stato chiuso dopo l’incidente, e si avvicina l’ Aid (la festa del montone, sorta di Pasqua araba, ndt). Dunque non possiamo permetterci di bloccarli anche noi”. L’adunata si è trasformata dunque in “missione ispettiva” da parte dei media locali e dei rappresentanti delle associazioni, che non sono riusciti però a trattenere le risa quando si sono trovati di fronte, alle 6 del mattino, un Barrio Chino completamente trasformato per l’occasione. E a ben ragione. Eccezionalmente erano state autorizzate le foto e l’abituale caos si era strutturato in due file ordinate (le donne a sinistra, gli uomini a destra), organizzate da poliziotti gentili. Di solito invece questo è territorio delle forze ausiliarie, dove gli agenti posso arrotondare lo stipendio pretendendo un diritto di pedaggio assolutamente illegale di 5 dirhams.


Muli umani
Dopo un’attesa di più di un’ora ed un passaggio dai grossisti del versante spagnolo, i “muli” ritornano, attraverso dei tornelli più larghi, nello stesso cortile. Alcune donne anziane ondeggiano sotto un carico due volte più grande di loro. Dei giovani fanno rotolare enormi pacchi di un centinaio di chili. Sono numerati, perché i proprietari possano riconoscerli. Perché la maggior parte dei facchini non lavora in proprio, ma alle dipendenze di grossi commercianti. Con un guadagno di 60 dirhams per ogni trasporto, cercano di farne il maggior numero possibile. “Se questo lavoro estenuante non li rende ricchi, giova per contro ai pezzi grossi – spiega Chakib El Khayari, presidente dell’Associazione del Rif per i diritti dell’uomo – quasi sempre notabili della regione. Le Autorità reclutano spesso mano d’opera in regioni lontane, dicendo loro che alla frontiera potranno avere migliori occasioni di lavoro e fornendoli a Nador dei documenti necessari per effettuare i passaggi”.
E’ soprattutto la città di Melilla che si avvantaggia di questo commercio: secondo il quotidiano El Faro, il fatturato annuo ammonta a 440 milioni. José Alonso, avvocato e presidente dell’Associazione (spagnola) per i diritti dell’uomo, denuncia “l’ipocrisia degli spagnoli, che dovrebbero garantire ai lavoratori di questi lucrosi commerci condizioni di lavoro dignitose”. Il trattamento è invece tutt’altro che dignitoso, a giudicare dalla fila di entrata dei pedoni marocchini, osservata un lunedì mattina al posto di frontiera di Beni Enzar. Mentre i “passaporti rossi” (i titolari di passaporto dell’Unione Europea, ndt) passano senza attese, la fila dei marocchini è ammassata in una specie di gabbia. Da dietro, i poliziotti marocchini non esitano a sedare le inevitabili turbolenze della folla a colpi di frusta. Quanto agli Spagnoli, racconta Mejjati, “rifiutano l’ingresso ad alcuni, e giungono perfino ad apporre un timbro di annullamento o a distruggere il loro passaporto, nella più assoluta illegalità”. E ancora, la maggior parte dei Marocchini è obbligata, senza alcuna giustificazione, a scendere dalle auto che entrano in Spagna ed a mettersi in fila coi pedoni. Nell’altro senso di marcia, guai a quelli che tornano da Melilla con sacchi troppo grossi: sono soggetti alla corruzione ed all’arbitrio di certi doganieri.

Insomma, se le due città, Nador e Melilla, traggono vantaggi da questa marea umana transfrontaliera, nessuna delle due offre strutture adeguate. Quale dei due Stati è responsabile della pessima situazione in cui versano i lavoratori transfrontalieri? Secondo Abdelmonaim Chaouki, che dirige la Coordination de la société civil, oltre al mensile l’Echo del Rif, la risposta è semplice: ciascuno dei due paesi ha la sua parte di responsabilità, soprattutto per l’incapacità di trovare delle soluzioni concordate. E tuttavia, “dopo il blocco della frontiera che abbiamo attuato nello scorso giugno, le autorità spagnole hanno sostituito il capo della polizia ed i maltrattamenti sono diminuiti. Per contro il governatore di Nador non ha dato alcuna risposta ai nostri allarmi sull’elevato rischio di incidenti”.

All’assalto della frontiera
La frontiera non è solo al centro della vita economica locale, ma anche delle speranze di chi sogna una vita migliore in Europa. A Nador si concentrano da anni centinaia di candidati all’emigrazione, che vengono soprattutto dal continente africano. Vivono di carità e si sono installati nella foresta del monte Gourougou che sovrasta la città. Un’escursione notturna ci consente di incrociare qualche giovane Algerino spaventato dalla luce dei nostri fari. Ma in una radura avvistiamo un grande accampamento di Forze ausiliarie, che tutti sanno essere al comando di ufficiali spagnoli. “Da due mesi la repressione contro i sans papier è aumentata – spiega Aakid – e quindi si nascondono, soprattutto durante il giorno”. Per sapere come riescono ad attraversare la frontiera, conviene interrogare quelli che già sono a Melilla, come Shahbaz, venuto dal Cachemire pachistano, che racconta come, dopo un interminabile viaggio via Dubai, il Mar Rosso e poi il continente africano, sia riuscito ad entrare a Melilla grazie a dei falsi documenti marocchini utilizzati in un momento in cui il posto di frontiera era sovraffollato. E’ il metodo preferito da quelli che possono farsi passare per Marocchini. Quanto ai Subsahariani, se hanno de denaro, possono trovare un “passatore” che li nasconda nella sua auto.

Così il 14 novembre la Guardia civil ha scoperto una ragazza ugandese di 16 anni, mezzo asfissiata, nel doppio fondo di un serbatoio di benzina. Altri tentano di scavalcare il triplo reticolato alto otto metri nelle notti in cui la pioggia impedisce il buon funzionamento delle videocamere di sorveglianza. “Molti nel tentativo periscono, talvolta anche sotto il fuoco dell’esercito marocchino. Ma nessuno ha mai fornito informazioni su queste morti”, denuncia José Alonso.
José Palazon, presidente dell’Associazione (spagnola) per la protezione dell’infanzia, ci confida di aver raccolto testimonianze sulla morte di due Subsahariani durante i recenti assalti di gruppo da parte dei clandestini. Informazione confermata da altre ottenute all’ospedale di Nador. In effetti, tra il 27 ottobre e il 10 novembre, approfittando della disorganizzazione provocata dal cattivo tempo, ci sono stati non meno di sette assalti. Sono cominciati nei posti dove le inondazioni avevano divelto la recinzione. Altri sono stati fatti al posto di frontiera di Beni Enzar, ma sono stati respinti, soprattutto per merito dei rinforzi marocchini inviati da Oujda. “Questo non è stato il primo tentativo di passare a Beni Enzar, ma è stata la prima volta che l’assalto è stato fatto in modo così violento, con l’uso di pietre e machete”, precisa Said Chramti, di una associazione di quartiere a Nador. In buona sostanza la strategia, risultata vincente in due occasioni, consisteva nel passare attraverso le paratoie del fiume Mezquita, aperte o sfondate a causa delle piene. Alain, un Nigerino che faceva parte della prima spedizione, testimonia: “Io sono arrivato da Oujda a Gourougou tre settimane fa e mi sono inserito in un gruppo che aveva elaborato un piano per passare la frontiera. Tre giorni dopo, all’alba del 27 ottobre (eravamo in un periodo di grandi inondazioni a Nador e nella regione, ndr), siamo entrati nelle condotte di scarico del fiume. Ho visto che c’erano delle guardie, ma ho cominciato a correre senza fermarmi. Insieme ad altri che sono riusciti a passare, mi sono poi recato al Commissariato. Dopo due giorni di detenzione, siamo entrati nel CETI (Centro di soggiorno temporaneo degli immigrati)”.

La speranza, malgrado tutto
In questo centro, costruito nel 1998 alla periferia di Melilla e finanziato dall’Unione Europea, 600 sans papier alloggiati in dormitori ricevono una attenzione umanitaria. Una volta registrati al CETI, le Autorità tollerano che essi facciano dei lavoretti, essenzialmente lavare le auto degli abitanti di Melilla. Tutti vivono nella speranza di ottenere i documenti per partire verso la penisola spagnola. Questa vita tra parentesi, gli occhi rivolti verso un’Europa vicina ma inaccessibile, i Melilliani la chiamano “limbo”. “Alcuni vivono nel CETI da quattro anni, sempre nell’angoscia di essere espulsi, cosa che può succedere in qualsiasi momento, se solo si riesca ad identificarli con l’aiuto di funzionari consolari che ogni tanto si recano nel Centro per identificare i loro compatrioti”, ci spiega José Alonso. Con grande tenacia e grande fortuna, in assenza di convenzioni con il paese di origine, alcuni finiscono per essere autorizzati a sistemarsi nel continente dei loro sogni…




Testimonianza. Dall’altro lato, la miseria…

Tra gli esclusi di Melilla, alcuni sono ancora più esclusi di altri. A solo poche centinaia di metri dal Centro degli immigrati (CETI), c’è un piccolo accampamento di fortuna nascosto tra i cespugli, fatto di case di cartone ricoperte di plastica. Vi dormono degli Algerini, alcuni di loro da mesi. Dicono di essere diverse decine a vivere nella natura. Tra loro Jalal, di Mascara, è entrato sei mesi fa grazie a falsi documenti marocchini, come i suoi compagni. E’ convinto che una tale discriminazione sia riservata agli Algerini: “Al Commissariato abbiamo ricevuto una carta, ma senza il numero di registrazione necessario per fare ingresso al CETI. Eppure si vedono degli Africani che vi fanno ingresso senza problemi. Noi dobbiamo dormire all’addiaccio e siamo obbligati a frugare nella spazzatura per trovare qualcosa da mangiare…”

 

 

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