Come rinverdisce il Sahel
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Le Monde Diplomatique, agosto 2010
Esperienze inedite di agro foresteria – Come rinverdisce il Sahel
Di Mark Hertsgaard
In Niger, quasi la metà della popolazione è minacciata dalla carestia; in Chad, si è oltrepassata la soglia d’allarme. Aumento dei prezzi, siccità, riduzione degli aiuti internazionali spiegano in parte l’attuale disastro. Tuttavia nuove tecniche agricole hanno trasformato alcune zone semi-desertiche in terre più produttive. Esperienze limitate, ma seguite con attenzione
Burkina Faso, Africa occidentale. Il sole tramonta alla fine di un’altra giornata di calore opprimente. Ma qui, nell’azienda agricola di Yacouba Sawadogo, l’aria è nettamente più fresca. Accetta sulle spalle, questo contadino dalla barba grigia percorre a grandi passi i suoi boschi e i suoi campi con l’agilità di un uomo molto più giovane. Sawadogo, che non sa né leggere né scrivere,è comunque un pioniere in materia agroforestale, con un approccio fondato sull’integrazione degli alberi nel sistema di produzione agricola. Questa tecnica, che ha trasformato in questi ultimi anni il Sahel occidentale, è uno dei più promettenti esempi di come le popolazioni povere possono fronteggiare i cambiamenti climatici.
Vestito con una tunica di cotone bianca e uno zucchetto bianco sul capo, Sawadogo si siede vicino a delle acacie e dei giuggioli che ombreggiano un recinto dove sono custodite una ventina di faraone: La maggior parte della sua azienda di venti ettari, di grandi dimensioni rispetto alla media locale, appartiene da generazioni alla sua famiglia. Che l’aveva abbandonata dopo la terribile siccità del 1972-1984: una riduzione del 20% della media delle precipitazioni annuali aveva allora annientato la produzione agricola nel Sahel, trasformando le vaste estensioni di savana in deserto e provocando centinaia di migliaia di morti per la carestia.
“La gente si è trovata in una situazione così catastrofica che si è vista costretta a cambiare il suo modo di pensare”, racconta Sawadogo. Lui stesso ha allora ripristinato una tecnica che era stata utilizzata per secoli dai contadini locali, lo zai, che consiste nello scavare delle “poquet”, vale a dire dei piccoli fossi capaci di concentrare la poca acqua piovana verso le radici delle culture. Per raccoglierne una maggiore quantità, ha aumentato il volume dei suoi. Ma la più grande innovazione è stata quella di aggiungervi del concime durante la stagione secca, una tecnica che gli altri contadini consideravano uno spreco.
Concentrando l’acque e il fertilizzante nelle “poquet”, è riuscito a migliorare il rendimento delle sue colture. Ma non aveva previsto il risultato più importante: tra le pianticelle di miglio e sorbo del suo campo sono comparsi anche dei germogli di alberi, provenienti dai semi contenuti nel concime. Dopo diverse stagioni, è accaduto che gli alberi, che oramai misuravano diversi piedi (un piede corrisponde a circa trenta centimetri) hanno contribuito a migliorare il rendimento delle colture, fertilizzando il suolo: “Dopo aver applicato questa tecnica di riabilitazione di una terra degradata, la mia famiglia ha risolto il problema dell’insicurezza alimentare, sia nelle buone che nelle cattive annate”.
Non si tratta di “piantare gli alberi”
L’agroforesteria messa a punto da Sawadogo si è già diffusa molto in Burkina Faso, oltre che nei vicini Niger e Mali, e trasformato centinaia di migliaia di ettari semidesertici in terre più produttive. “Si tratta senz’altro del rivolgimento ecologico positivo dalla portata più ampia nel sahel e, forse, nell’intera Africa”, sotiene Chris Raij, un geografo olandese che ha lavorato trenta anni nella regione.
Tecnicamente parlando, questo metodo porta il nome di “rigenerazione naturale assistita” (RNA). Studi scientifici confermano i molti vantaggi dell’introduzione di alberi nelle colture alimentari: proteggono dai venti i germogli e contribuiscono a mantenere l’umidità del suolo, mentre la loro ombra protegge le colture dal calore. Le loro foglie cadute sono come del pacciame che aumenta la fertilità del suolo e fornisce foraggio per il bestiame.
In caso di carestia, la gente si può addirittura nutrire con le foglie di taluni alberi. “Nel passato i contadini dovevano qualche volta seminare i campi quattro o cinque volte, perché il vento disperdeva i semi – spiega Reij, che raccomanda la RNA con lo zelo di un missionario – Gli alberi proteggono e alimentano il terreno; oramai basta seminare una sola volta”.
Lo zai ed altre tecniche di raccolta delle acque piovane hanno in questo modo contribuito a riapprovvigionare le falde sotterranee. “Negli anni 1980, il livello delle acque freatiche si abbassava di circa un metro all’anno – fa notare Reij – Dopo che si sono impiantate il RNA e le altre tecniche di raccolta delle acque, e nonostante la crescita demografica, sono aumentate di cinque metri”. In talune zone si sono misurati fino a diciassette metri di incremento. E alcuni studi dimostrano effetti similari di riapprovvigiona mento in Niger.
Col, passare del tempo, Sawadogo si è fatto prendere da una vera passione per gli alberi. La sua azienda sembra ora più simile ad una foresta che ad un campo coltivato. “All’inizio mischiavo gli alberi e le colture – racconta – Ma alla fine ho preferito gli alberi, perché offrono maggiori vantaggi”. Possono essere sfruttati, i loro rami possono essere tagliati e venduti ogni anno, senza contare che il loro effetti benefici sul suolo facilitano la produzione di nuovi alberi: “Più alberi avete, più guadagnate”.
Aumentando il suo parco forestale, Sawadogo ha potuto vendere della legna da ardere, per costruzione e per altri usi. Gli alberi peraltro rientrano nella farmacopea tradizionale, cosa non da poco in una regione dove le medicine sono rare e costose.
Questi contadini- precisiamolo – non piantano alberi, come il premio Nobel Wangari Maathai e il suo movimento Cintura verde hanno stimolato a fare in Kenya: sarebbe per loro una impresa troppo onerosa e rischiosa. Essi non fanno altro che proteggere e coltivare quelli che nascono spontaneamente. Degli studi sul Sahel occidentale hanno rivelato che l’80% degli alberi piantati muoiono nel giro di uno o due anni. Per contro, gli alberi che nascono spontaneamente costituiscono specie endemiche, dunque più resistenti. E, ben inteso, non costano niente.
Anche in Mali spuntano alberi dovunque ai bordi dei campi coltivati. Nel poverissimo villaggio di Sokoura, le case sono fatte di rami ricoperti di fango: non c’è né acqua né elettricità; i bambini portano abiti sporchi e strappati, e molti hanno il ventre gonfio a causa della malnutrizione. Tuttavia, stando a quanto dicono gli abitanti, le condizioni di vita migliorano, in gran parte grazie agli alberi.
Oumar Guindo possiede sei ettari coltivati a miglio e sorgo. Da dieci anni ha cominciato a seguire i consigli di Sahel Eco – un’organizzazione anglo-maliana che promuove l’agroforesteria -. La sua terra è oggi disseminata di alberi, uno ogni cinque metri o quasi, e la produttività è aumentata. Tornando al villaggio, mostra i granai rettangolari che, come le case, sono fatti di rami di alberi ricoperti di fango. Pieni di grandi provviste di miglio: la sicurezza alimentare è assicurata fino alla prossima raccolta e anche oltre. “Prima – dice un contadino – la maggior parte delle famiglie non possedeva che un granaio. Ora ne hanno tre o quattro, e le loro terre sono rimaste le stesse. Abbiamo anche più bestiame”.
Per raggiungere un simile risultato, anche i governi hanno fatto scelte importanti. Salif Guindo (che non ha legami di parentela con Oumar), un agricoltore del villaggio maliano di Endé, racconta come gli abitanti del villaggio hanno risuscitato una antica associazione di contadini, chiamata Barahogon, che aveva incoraggiato per anni la produzione di alberi, fino a quando era stata abbandonata, dopo che era diventato illegale il loro taglio. Il governo coloniale francese dichiarò in un primo tempo che tutti gli alberi erano proprietà dello Stato, cosa che gli permise di vendere i diritti di sfruttamento a dei taglialegna. Una situazione che continuò dopo l’indipendenza. I contadini sorpresi a sfrondare o tagliare alberi erano puniti. Così smisero di produrli per evitare ulteriori problemi. E questo fatto ha provocato nel tempo l’eliminazione degli alberi e il disseccamento del suolo.
All’inizio degli anni 1990, il governo del Mali, sensibile forse al fatto che i contadini in collera per i maltrattamenti subiti avevano ucciso degli agenti forestali, varò una legge che restituiva agli agricoltori la proprietà degli alberi che si trovavano sulla loro terra. Gli interessati vennero a saperlo solo quando Sahel Eco organizzò una campagna di informazione. Da allora la RNA si è rapidamente diffusa. In Niger – spiega Toni Rinaudo, un agronomo e missionario australiano – essa ha cominciato ad essere praticata solo quando le autorità hanno sospeso i regolamenti che vietavano l’abbattimento degli alberi: per fare in modo che producano alberi, occorre che gli agricoltori abbiano il diritto di tagliarli…
“Villaggio del millennio” costosissimo
La situazione è simile in tutto il Sahel occidentale: la RNA si è diffusa essenzialmente per contagio, da coltivatore a coltivatore, da villaggio a villaggio, a misura che la gente vedeva i risultati coi propri occhi. Grazie all’agroforesteria, è oramai possibile distinguere, sulle foto satellitari analizzate dall’Istituto geologico americano (US Geological Survey), la frontiera tra Niger e Nigeria. Dalla parte del Niger, vi è un’abbondante presenza di alberi; dalla parte della Nigeria, dove i vasti progetti di piantare alberi sono spettacolarmente falliti, il suolo e quasi nudo.
Quando hanno osservato queste immagini, nel 2008, i promotori della RNA, come Reij e Rinaudo, sono rimasti scioccati: non immaginavano che tanti contadini avevano fatto crescere tanti alberi. Analizzando quello che risulta dalle immagini satellitari e il risultato delle inchieste sul campo, Reij stima che, nel solo Niger, i contadini hanno fatto crescere duecento milioni di alberi e riabilitato circa 3125 km quadrati di terre degradate.
Gli ultimi dati indicano che le regioni che, nel sud del paese, praticano l’agroforesteria sono quelle che resistono meglio alla siccità attuale. Reij sottolinea che gli alberi forniscono anche un’arma economica per fronteggiarvi: nel 2005, durante una precedente siccità, il legno tagliato e venduto ha permesso ai contadini di procurarsi il denaro per acquistare i cereali.
La RNA che riposa su u sapere gratuito, non comporta alcuna dipendenza dagli aiuti esterni. Perciò – fa notare Reij – essa è diversissima dal modello di sviluppo dei “villaggi del millennio”, promossi da Jeffrey Sachs, l’assai influente direttore dell’Istituto della terra dell’università Columbia. Questo progetto fornisce ai villaggi ciò che si considera essere il pacchetto dei servizi integrati necessari allo sviluppo: semi e concimi moderni, pozzi, cliniche. “Questa visione per la soluzione del problema della fame in Africa è seducente – dice Reij – Il problema è che non funziona. Il progetto dei Villaggi del Millennio richiede un investimento importante per ciascun villaggio, oltre ad un aiuto esterno nel corso di diversi anni, cosa che non lo rende una soluzione durevole. E’ difficile pensare che il mondo esterno sia disposto a fornire miliardi di dollari per creare decine di Villaggi del millennio in Africa”. L’aiuto straniero si è effettivamente ridotto dopo la crisi finanziaria del 2008. Ma resta la possibilità di svolgere ancora un ruolo: l’aiuto straniero può finanziare, ad un costo bassissimo, la divulgazione delle informazioni che all’inizio hanno consentito che la RNA si diffondesse così efficacemente nel Sahel occidentale. Se i contadini sono stati quelli che in prima persona hanno divulgato le nuove tecniche tra i loro compaesani, hanno tuttavia ricevuto un aiuto essenziale da un pugno di militanti e di ONG, come Rinaudo e Reij, o Sahel Eco. Questi ultimi sperano di diffondere la RNA in altri paesi africani grazie alle “iniziative per il rinverdimento dell’Africa”, assicura Reij, che ha illustrato la sua idea al presidente etiope.
Ma occorre comunque assumere delle misure contro il riscaldamento climatico, che rende il Sahel un luogo assai inospitale. Perché ogni forma di adattamento ha i suoi limiti: se non si riduce la quantità di gas ad effetto serra emessa nell’atmosfera, l’aumento della temperatura finirà per avere ragione anche dei rimedi più ingegnosi.