Pirati, corsari e filibustieri del XXI secolo
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Pirati, corsari e filibustieri del XXI secolo
di Thierry Meyssan (Analista politico francese, presidente-fondatore di Réseau Voltaire)
La pirateria al largo della Somalia rende rischioso il tragitto dal mediterraneo all’Oceano indiano. Ufficialmente il fenomeno sfugge a ogni controllo e le Grandi Potenze sono state costrette a inviare le loro marine da guerra nella zona per scortare le navi mercantili. Tuttavia in alcuni porti somali si possono vedere i battelli catturati, accuratamente ormeggiati in fila in attesa del riscatto, senza che i pirati nutrano alcun timore per le navi da guerra che incrociano al largo. In una lunga inchiesta, Thierry Meyssan svela l’identità dei committenti di questo nuovo business
La pirateria marittima si concentra oggi in tre regioni del mondo: lo stretto di Malacca, il golfo di Guinea e il corno d’Africa. Tuttavia si tratta di situazioni molto diverse l’una dall’altra.
Il 30% del traffico marittimo mondiale passa per lo stretto di Malacca dove le popolazioni povere dell’Indonesia e della Malesia si confrontano con l’arrogante opulenza della città-stato di Singapore. I pirati sono dei delinquentelli organizzati in bande, si spostano velocemente e possiedono solo armi bianche. Si accontentano il più delle volte di salire a bordo per derubare gli equipaggi. Dal 2006 i tre stati rivieraschi, su amichevole richiesta del Giappone, oltre che per paura di vedere arrivare l’armata statunitense, si sono coordinati per dispiegare una sorveglianza aerea, che ha portato i suoi frutti (operazione “Occhi nel cielo”). La situazione ormai sembra stabilizzata.
La zona della Guinea non è zona di transito commerciale, ma di sfruttamento di petrolio e di gas. Le piattaforme a mare e i battelli di rifornimento sono diventati il bersaglio delle gang e degli insorgenti del Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger. Si tratta di gruppi estremamente violenti , che si finanziano attraverso rapimenti di ostaggi con esiti spesso mortali. Qualche volta sono sostenuti dagli Ijaw (una popolazione del Delta del Niger), le cui terre furono saccheggiate dalle compagnie petrolifere e la cui rivolta nel 1999 è stata schiacciata nel sangue dalle truppe di Chevron-Texaco. Più spesso queste gang sono temute dalla popolazione che essi terrorizzano. Essi conducono attacchi indifferenziati in mare e sulla terra, sia contro gli stranieri che contro i nativi. La Nigeria non riesce a sradicare questa criminalità che sconfina nel Camerun e nella Guinea Equatoriale. Di fronte al pericolo crescente, alcune multinazionali come Shell hanno deciso di abbandonare la zona. La produzione nigeriana di idrocarburi è scesa di un quarto, con le conseguenza che si possono immaginare sulle finanze dello Stato.
Solo la situazione nel Corno d’Africa è diventata una situazione strategica mondiale. Prima di tutto perché lo Stretto di Bab el-Mandeb (“La porta dei lamenti”), tra lo Yemen e Gibuti, è una tappa obbligata tra il Mediterraneo, il canale di Suez, il mar Rosso al nord, e l’Oceano indiano al sud. 3,5 milioni di barili di petrolio vi transitano ogni giorno. In seguito, giacché la zona interessata al fenomeno si è progressivamente estesa al golfo di Aden e alla costa somala, la questione non ha riguardato più solo una semplice strettoia sulla quale gli stati rivieraschi dovrebbero svolgere attività di polizia marittima, ma coinvolge una zona vastissima, che si estende soprattutto in alto mare, in acque internazionali. Quello che era all’inizio – e resta ancora oggi in molti casi – un’attività occasionale di pescatori affamati, ha dato luogo ad un business molto lucrativo. Sono state catturate delle navi col loro equipaggio, mentre degli intermediari chiedevano pesanti riscatti agli armatori. Questo banditismo di ampia portata si è sviluppato in concomitanza dei nuovi sviluppi politico-militari in Somalia ed è stato il pretesto per l’arrivo di una armada occidentale con pretese neo-coloniali.
Il caos somalo
Il lettore si ricorderà della lunghissima guerra civile che ha devastato il Corno d’Africa a partire dal 1974. In definitiva, se l’Etiopia e l’Eritrea si sono stabilizzate, la Somalia è ancora in preda al disordine. Il paese è diviso tra i clan. L’ex colonia inglese di Somaliland e il Punt formano due quasi-stati, dalle frontiere fluttuanti, che si fanno di tanto in tanto la guerra, benché siano entrambi appoggiati dall’Etiopia (The political development of Somaliland and its conflict with Puntland, di Beruk Mesfin, Institute for Security Studies (Africa del Sud), settembre 2009).
La loro formazione è stata incoraggiata dalle Nazioni Unite che pensavano in tal modo di ricostruire la Somalia procedendo pezzo a pezzo. L’AMISOM, la forza di pace dispiegata dall’Unione Africana grazie a contingenti ugandesi e burundesi, difende il governo provvisorio, la sola autorità riconosciuta dalla comunità internazionale. Ma il presidente Sharif Ahmed è riuscito al massimo a stabilire la sua autorità in qualche quartiere di Mogadiscio. Nella capitale continuano gli scontri. I miliziani di Ahlu Sunna wal Jama’a proteggono le confraternite sufite (Siti internet ufficiali di Ahlu Sunna wal Jama’s: Shaaficiyah.com – in inglese – e Ahlusunna.org), mentre quelli di Al-Shabaab (braccio armato dei Tribunali islamici) vogliono imporre una interpretazione rigorista della charia (Sito internet ufficiale di Al-Shabaab: Alqimmahnet). Centinaia, forse migliaia,di gruppuscoli armati si creano, si alleano e si sciolgono a seconda degli avvenimenti. L’ONU ha disposto un embargo sulle armi che nessuno rispetta, e tenta di soccorrere la popolazione, nonostante le numerose malversazioni degli aiuti alimentari mondiali.
In questo contesto infernale, nel 2000 è riapparsa la pirateria. All’epoca le tensioni regionali costrinsero gli Etiopi a concentrare il loro commercio marittimo a Gibuti. Le loro navi furono le prime a essere prese di mira. Gli attacchi avvenivano solo nello Stretto di Bab el-Mandeb. Ma gli attaccanti – che si consideravano come dei belligeranti e non come dei pirati – furono respinti dalle forze statunitensi, israeliane e francesi che stazionavano a Gibuti.
Per fronteggiare il deterioramento della situazione nel Punt, altri pirati attaccarono le navi che incrociavano al largo delle loro coste per approvvigionarsi. Il fenomeno si ridimensionò considerevolmente nel 2005-2006. Da un lato perché lo tsunami del 26 dicembre 2004 ha devastato le coste e distrutto i porti nell’indifferenza della comunità internazionale che non aveva occhi se non per le spiagge turistiche della Thailandia. E dall’altro, perché i Tribunali islamici, per poco tempo al potere a Mogadiscio, hanno dichiarato la pirateria illegale secondo la charia.
Solo a partire dal 2007 le cose hanno assunto una dimensione particolarmente grave. Sostenendo una coalizione eterogenea di signori della guerra contri i Tribunali islamici, la CIA e l’Etiopia hanno riattivato i conflitti tra clan che stavano per spegnersi. Aiutati dal disordine nel quale il paese precipitava, due gruppi, presto strutturatisi in organizzazioni criminali, si sono specializzati nella pirateria. Il primo ha cominciato a imperversare nel Golfo di Aden, e il secondo nelle acque internazionali, molto al largo di Mogadiscio (vedi Piracy: the motivation and tactics, di Nicole Stracke e Marie Bos, Gulf Research Center, 2009).
E’ chiaro che questi due gruppi non hanno niente a che vedere coi pirati di prima. Mentre agli inizi degli anni 2000 e in certi casi ancora, gli abbordaggi erano o il prolungamento in mare del conflitto a terra, o razzie perpetrate da pescatori affamati, adesso siamo di fronte ad un crimine organizzato con ramificazioni internazionali.
Massiccia presenza militare
All’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, gli Stati uniti mobilitarono tutti i loro alleati, indipendentemente dalla NATO, per impadronirsi dell’Afghanistan. L’operazione “Giustizia Infinita”, ribattezzata “Libertà durevole” comprendeva – oltre all’occupazione dell’Afghanistan – una presenza nelle Filippine, un’altra al largo del Corno d’Africa ed una terza in Sahara.
Per quanto riguarda la regione che ci interessa, la Forza unita di intervento (Combined Task Force) 150 ha messo insieme una quindicina di contingenti stranieri di appoggio alla 5° flotta USA. Col pretesto della lotta al terrorismo, l’obiettivo reale era quello di rendere sicura la rotta del petrolio: golfo persico/Stretto di Ormuz/Golfo di Aden/Stretto di Bal el-Mandeb/ Mar Rosso/ Canale di Suez.
Muovendosi in queste acque, la Force 150 si è occasionalmente scontrata con dei pirati, ma non aveva alcuna missione di combatterli.
Nel 2007 la Francia ha fornito una scorta alle navi del Programma alimentare mondiale e a quelle dell’AMISOM. Beninteso Parigi dava comunicazioni sulla protezione dei carichi umanitari e passava sotto silenzio quella dei carichi militari dell’Unione Africana.
Nel 2008 questa missione è stata proseguita dall’Unione Europea con quella che ha costituito la sua prima azione navale: l’operazione “Atalanta”. Questa volta le regole di ingaggio sono state estese alla difesa degli interessi europei – in senso largo – nei confronti dei pirati (Combating Somali Piracy: the EU’S Naval Operation Atalanta, Camera dei Lord del Regno unito – ref. HL 103, 14 aprile 2010).
Reso inquieto dal fatto che gli Europei si andavano organizzando militarmente, il Pentagono ha ripreso la faccenda in mano proponendo un’azione della NATO, che ha per vocazione di assorbire in sé la difesa europea. Si tratta dell’operazione “Allied Provider”, ribattezzata “Allied Protector”. In documenti interni, gli analisti dell’Alleanza notano che la lotta contro la pirateria non è assolutamente una necessità militare, ma che è un’eccellente occasione per dare all’opinione pubblica un’immagine positiva della NATO (Piracy: torea or nuisance? Di Alessandro Scheffler, NATO Defense College, Roma – ref. Research Paper 56, febbraio 2010).
Tutta questa affluenza di forze USA, europee e atlantiche ha spinto la Russia (settembre 2008), l’India (ottobre 2008), la Cina (ottobre 2009) e il Giappone (gennaio 2009) a inviare proprie navi da guerra nella regione. Una simile concentrazione comporta rischi gravi. Così è stato istituito a New York un Gruppo di contatto sulla pirateria al largo delle coste della Somalia (CGPCS), sotto gli auspici delle Nazioni Unite. Ha per compito di chiarire le regole giuridiche della lotta contro la pirateria. Inoltre sono state organizzate a Bahrein delle riunioni dette “di presa di coscienza condivisa e di prevenzione dei conflitti”, a iniziativa del Pentagono, tra gli ufficiali di collegamento delle diverse marine coinvolte, onde evitare che la cattiva comprensione delle reciproche intenzioni possa provocare scontri.
En passant il lettore noterà che la presenza della marina militare cinese così lontano dai suoi porti è una novità. Essa è stata incoraggiata da Washington che credeva, all’inizio della crisi finanziaria mondiale, di poter creare un G2 e dividersi il mondo con Pechino. Ma essa potrà nel futuro giocare un ruolo nella rivalità cino-statunitense in Africa (China’s Participation in Anti-Piracy Operations off the horn of Africa: drivers and implications, edito da Alison A. Kaufman, Center for Naval Analysis, USA – ref. MISC D0020834.A1/, juillet 2009 – vedi anche: China and Maritime Cooperation: Piracy in the Gulf of Aden di Gaye Christoffersen, Institut fur Strategie-Politik-Sicherheits-und Wirtschaftsberatung, 2010).
In ogni caso, e nonostante un tentativo cinese durante l’azione di pirateria nei confronti della De Xin Hai (ottobre 2009), Pechino e Mosca non aspirano ad integrare le loro flotte in una eventuale forza multinazionale di lotta contro la pirateria. E’ che, storicamente, Regno unito e Stati Uniti perseguono un progetto di Impero marittimo universale, verso il quale hanno fatto i primi passi firmando la “Carta dell’Atlantico” (1941). Inoltre recentemente il Pentagono, con la sua “Iniziativa di sicurezza contro la proliferazione” (PSI, 2003), poi con il “Partenariato marittimo globale” (GMP, 2006), ha proposto di associare tutti gli Stati che lo desiderino a un vasto piano di securizzazione delle rotte marittime, del quale sarà ben inteso la guida.
Secondo l’attuale dispositivo, le navi dei piccoli paesi non hanno molte possibilità di essere protette dalle grandi marine. Gli armatori più previdenti hanno istallato a bordo il sistema di rilevamento ottico Sea on line, molto più efficace dei radar. Camere a raggi infrarossi sorvegliano la zona attraversata dalla nave per 4 o 5 chilometri e sono in grado di avvisare l’equipaggio dell’avvicinarsi anche di piccole imbarcazioni basse (Sito internet di Sea Vision).
Altri armatori ricorrono a guardie private che collocano sulle navi per difenderle. Questa pratica preoccupa i grandi sindacati degli armatori perché suscita una escalation di violenza coi pirati.
Altri ancora ingaggiano eserciti privati. Così la società Blackwater, ormai denominata Xe, ha acquistato nel 2007 l’ex nave dei guardiacosta USA MV McArthur. E’ equipaggiata con due elicotteri Boeing MH6 Little Bird, con tre imbarcazioni ultra rapide e imbarca 35 mercenari. Fa da scorta, a richiesta, a navi civili “sensibili”.
Da parte sua, la società francese Secopex ha acquistato 11 navi di scorta di 24, 36 e 50 metri di lunghezza. Ciascuna imbarca un commando di 9 persone: due tiratori scelti e sette uomini equipaggiati con mitragliatrici automatiche (“La piraterie profite aux societés privées de sécurité” di Marie-France Joubert, France 24, 26 novembre 2008).
Crimini senza castigo
Tutto sommato, per quanto il governo fantoccio somalo abbia “chiesto l’aiuto della comunità internazionale”, e per quanto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite abbia adottato quattro risoluzioni (1816, 1831, 1846 e 1851) per legittimare l’opzione militare contro i pirati e autorizzare le marine straniere a perseguirli nelle acque internazionali e fino al territorio somalo, le regole giuridiche restano vaghe.
Cosa fare dei pirati, una volta arrestati? Stando alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (detta Convenzione di Montego Bay), entrata in vigore nel 1994, fare ispezione su una nave di pirati è un atto di polizia, anche se viene effettuata da mezzi militari. L’arresto deve essere effettuato da ufficiali di Polizia giudiziaria e i prevenuti devono essere deferiti innanzi la giurisdizione competente per esservi giudicati in modo equo.
Solo che nessuno sa quale sia la giurisdizione competente. La maggior parte delle legislazioni nazionali escludono che si possano giudicare degli stranieri quando non abbiano commesso dei delitti sul territorio nazionale. Nella pratica bisogna dunque spesso rilasciarli, o trasferirli verso uno Stato col quale sia stato concluso un accordo ad hoc. Così gli occidentali spesso trasferiscono i pirati fatti prigionieri verso il Kenya, che condanna gli esecutori e si astiene dal cercare i mandanti.
E’ per questo che il Cremlino ha proposto di creare una giurisdizione internazionale per i crimini commessi in alto mare. Questa volta sono gli Anglo_Sassoni che non accettano, sempre in ragione del loro progetto imperiale marittimo.
I corsari del presidente degli USA
Nel 1860, Simon Bolivar, tentò di pacificare le relazioni tra i paesi latino-americani, proibendo la “guerra a pagamento”, vale a dire la capacità degli Stati di ricorrere ad armatori privati per difendere i loro interessi in mare, perfino per fare la guerra. Il Libertador non fu compreso.
Bisognerà attendere che gli occidentali e gli Ottomani battino le truppe dello zar Nicola I in Crimea, perché la “Dichiarazione di Parigi” (1856) fissasse il diritto del mare. Le “lettres de marque” (lettere del sovrano che autorizzavano un armatore privato ad attaccare le navi nemiche, ndt) furono abolite, vale a dire che gli Stati rinunciarono a servirsi di gruppi armati privati; un sistema del quale i protettorati ottomani dell’Africa del Nord avevano fatto grande uso e contro il quale i presidenti Thomas Jefferson e James Madison avevano condotto vittoriosamente le due guerre contro i barbareschi (1801- 05, 1815).
Tuttavia gli Stati Uniti, la Spagna e il Messico non vollero firmare questa dichiarazione, perché la dottrina capitalista liberale consente che anche la guerra possa essere privatizzata. D’altronde in quell’epoca i giovani Stati Uniti non si immaginavano ancora di poter mettere su una marina militare in grado di competere con le grandi potenze.
Riprendendo questa vecchia idea, il deputato Ron Paul tentò tre volte di far adottare dal Congresso la “September-11 Marque and Reprisal Act of 2001” La cosa non sarebbe stata necessaria, dal momento che il Congresso aveva già votato la Guerra contro il terrorismo e, facendo leva sull’articolo 1 comma 8 della Costituzione degli Stati uniti, il Dipartimento di Stato ha rilasciato delle “lettre de marques” a società militari private per cacciare i terroristi dall’Oceano Indiano. E, come si sa, dal punto di vista di Washington, ogni pirata è un potenzialmente un terrorista (Per esempio: “The Maritime Dimensiono f International Security. Terrorism, Piracy and Challemges for the United States” di Peter Chalk, Rand Corporation, 2008).
Stando ad una pubblicazione del ministero francese della Difesa, la prima di queste “lettre de marques” è stata rilasciata nel 2007 alla società Pistris Inc. “Questa società è stata autorizzata ad armare due bastimenti di 65 metri di lunghezza, collegati ai satelliti militari di osservazione. Ciascuno di essi è dotato di un elicottero armato, imbarcazioni ultra rapide capaci di raggiungere la velocità di 50 nodi, imbarcando un equipaggio di 50 uomini e commandos. La società Pistris possiede un proprio campo di addestramento militare, soprattutto per le operazioni di commandos, nel Massachusset” (“Le retour de la guerre de course” di jean-Paul Pancracio, Bulletin d’etudes de la marine n. 43, dicembre 2008, Centre d’einsegnement supérieur de la Marine, Ministère de la Défense, Parigi. L’autore cita “Washington lache des corsare daks l’océan Indien”, di Philippe Chapleau, Ouest France del 3-4 novembre 2007). Sono state istallate delle chiatte su di un lago artificiale dove sono simulati dei combattimenti, mentre un’enorme macchina agita le acque per ricreare le condizioni delle onde marine.
I pirati della costa
Prima di descrivere le organizzazioni corsare, bisogna sgombrare il campo da un equivoco. Quando lo stato somalo si è dissolto, alcuni pescatori francesi,spagnoli e giapponesi ne hanno approfittato per saccheggiare i banchi di tonni e gamberetti nelle acque territoriali somale. Talvolta hanno acquistato una specie di “autorizzazione” dai signori della guerra e poi dal sedicente governo provvisorio. Consapevoli del fatto che una pesca senza limiti distrugge le risorse marine, alcuni pescatori somali hanno abbordato le barche intruse e le hanno svaligiate a titolo di risarcimento danni. Nel contesto del caos politico del paese, e in assenza di un servizio nazionale di guardiacoste, tali comportamenti sono da considerarsi come forme di autodifesa. Non sono considerati in diritto come atti di pirateria, visto che si sono compiute nelle acque territoriali somale.
Quello che qui ci interessa è l’attività criminale portata avanti in alto mare. Un’attività che richiede delle navi capaci di allontanarsi dalle coste. All’inizio i pirati abbordavano un grosso battello che incrociava vicino, poi lo utilizzavano per guadagnare l’alto mare ed attaccare una preda più grande. Oggi dispongono di una loro propria flotta.
La scelta dei bersagli dipende soprattutto dalle loro dimensioni e dalla loro velocità. Più la nave è bassa, lenta e grande, più è vulnerabile. I portacontainer sono indifendibili, tanto più che è impossibile da parte dell’equipaggio controllare tutti gli accessi. Anche le tonnare perché hanno una rampa d’acceso posteriore e perché non possono muoversi durante le operazioni di pesca.
“Quando viene catturato un battello, il committente indica al capo dei pirati dove portarlo; un interprete sale allora a bordo per condurre il negoziato. La durata media del sequestro è di una sessantina di giorni. L’atmosfera a bordo è più o meno tesa ma non vi sono mai stati dei morti, salvo forse una volta. I pirati sanno benissimo che se cominciano a eliminare degli ostaggi la situazione cambia e rischiano di avere contro la popolazione e le autorità religiose.
E quindi si sa che i pirati applicano una specie di codice d’onore: i ruoli sono chiaramente ripartiti e il capo dei pirati annota tutte le spese impegnate. La pratica del credito è corrente e i debiti sono rispettati. Quando il riscatto viene versato, a ciascuno viene dato il dovuto. C’è perfino un sistema di ammende per fare rispettare l’organizzazione della vita scoiale a bordo dei battelli.
I pirati fissano dei campi temporanei in prossimità delle zone dove sono custoditi i battelli sequestrati. Raramente si sistemano nei villaggi, la qual cosa può voler dire che non sono del tutto accettati dalle popolazioni, soprattutto quando il contesto clanico non è favorevole. Dopo il sequestro, una delle difficoltà è di trattenere e nutrire gli ostaggi. Da questa necessità è nata una mini-economia alimentata dall’ammontare crescente dei riscatti. La pirateria crea posti di lavoro: le popolazioni della costa fanno venire i loro parenti ed amici dal centro del paese per aiutarli nelle attività di attacco e di custodia degli ostaggi.
Il riscatto è generalmente versato in contanti, contato a bordo e poi diviso tra tutti gli aventi diritto e tutti i partecipanti all’operazione. La divisione del riscatto si pratica un po’ come per la pesca: 50% per la “mano d’opera”, vale a dire gli uomini che hanno realizzato l’azione (essi possono arrivare fino al numero di 80 persone), 30% per il committente, 15% per l’interprete, i commercianti e più generalmente gli intermediari e il 5% è riservato alle famiglie dei pirati morti” (“La Piraterie maritime”, rapporto di informazione della Commissione delal difesa nazionale e delle forze armate, Assemblée nationale France -ref. 1670, 13 maggio 2009 – Rapporteur: Christian Ménard).
Il Punt, la nuove isola della Tortuga
Nel XVII secolo i Caraibi furono teatro di un conflitto tra gli imperi cristiani che favorì il sorgere della pirateria. Questa si organizzò attraverso una società segreta, allo stesso tempo violenta e egalitaria, i “Fratelli della costa” e si impossessò dei territori, i loro “13 paradisi”. La loro capitale era l’isola della Tortuga, dove prosperarono sotto la discreta protezione del Re di Francia. Oggi in Somalia esiste una struttura analoga. Il gruppo di esperti dell’ONU fa riferimento a nove organizzazioni criminali concorrenti, tra cui tre principali (“Troisième rapport du Groupe de control sur la Somalie établi en application de la résolution 1853 – 2008 – du Conseil de sécurité – ref. S/2010/91, 10 marzo 2010).
La più celebre è diretta da Abshir Abdillahi, detto “Boyah”, un parente del presidente del Punt, Abdirahman Mohamed, detto “Faroole”. 44 anni di età, è originario di Port d’Eyl, dove ha la sua principale base. Vanta una milizia di più di 500 uomini e da 25 a 60 navi catturate in alto mare. Tra i suoi ostaggi, la nave cisterna giapponese Golden Nori (28 ottobre 2007, riscatto: 1,5 milioni di dollari) e lo yatch di lusso francese Le Ponant (4 aprile 2008, riscatto: 2 milioni di dollari). I riscatti ottenuti ammontano a cifre astronomiche se rapportate al reddito medio dei Somali, tra il più bassi del mondo: 282 dollari per anno.
Lo stato autonomo del Punt è la versione moderna dell’isola della Tortuga. Il governo di Bossaso (è il nome della capitale del Punt) si vanta di intrattenere relazioni con la Germania, Gibuti, gli Emirati, la Spagna, gli Stati Uniti, l’Etiopia, il Kenya e la Banca Mondiale (vedere il sito ufficiale dello Stato autonomo del Punt). Pubblica un bilancio annuale di 30 milioni di dollari, piuttosto modesto a paragone dei proventi delle organizzazioni piratesche. Non meraviglia che “Boyah” abbia ricevuto la protezione del governo di Punt, soprattutto del presidente “Faroole”, del ministro dell’interno, il generale Abdullahi Ahmed Jama detto “Ilkajiir”, e del Ministro della sicurezza interna, il generale Abdillah Sa’lid Samatar. Stando alle sue dichiarazioni a Garowe Online (agosto2008), è ad essi che versa il 30% dei riscatti dovuto ai committenti…
“Boyah” ha annunciato, nel maggio 2009, di volersi ritirare dagli affari con 180 dei suoi uomini. Sembra che uno dei suoi parenti, Mohamed Abdi Garaad, ne abbia preso la successione. La sua milizia comprende oggi 800 uomini divisi in 13 gruppi. E’ soprattutto il responsabile della cattura della nave da carico giapponese Stella Maris (20 luglio 2008, riscatto: 2 milioni di dollari), e delle navi mercantili: malese Bunga Melati Dua (18 agosto, riscatto. 2 milioni di dollari), tedesca BBC Trinidad (riscatto: 1 milione di dollari – 21 agosto 2008) e iraniana Iran Deyeneat (21 agosto 2008). Ha anche commesso un’azione maldestra, attaccando la porta container USA Maersk Alabama , provocando l’intervento duro della V Flotta US.
Un’altra gang opera nella provincia disputata di Sanaag. E’ comandata da Fu’aad Warsame Seed, detto “Hanaano”. E’ una piccola milizia di una sessantina di uomini, che dispone di un’importante equipaggiamento militare. Ha catturato, soprattutto, lo yatch tedesco Rockall (23 giugno 2008, riscatto. 1 milione di dollari), la nave cisterna turca Karagol (12 novembre 2008), due navi da pesca egiziane Mumtaz 1 e Samara Ahmed (10 aprile 2009) e il rimorchiatore italiano Buccaneer (11 aprile 2009).
“Hanaano” è protetto dal ministro dell’interno “Ikaljiir”, del quale finanzia le attività politiche. Per sua sfortuna è stato arrestato dagli Yemeniti mentre tentava una nuova operazione nelle loro acque territoriali, il 15 ottobre 2009,. Il governo del Punt ha negoziato la sua liberazione.
Il paradiso di Xaradheere e di Hobyo
Al centro della Somalia un’altra organizzazione è stata creata da Mohamed Hassan Abdi, detto “Afweyne” e sarebbe oggi diretta da suo figlio Abdiqaadir. Essa ha la sua base nei porti di Xaradheere e di Hobyo, e, per darsi una legittimità, si autoproclama “Guardiacoste della regione centrale”.
Il bilancio conosciuto della sua attività è impressionante: il Semlow (26 giugno 2005), la nave cinese Feisty Gas (10 aprile 2005, riscatto: 315000 dollari), il Rosen (25 febbraio 2007), il cargo danese Sanica White (2 giugno 2007, riscatto: 1,5 milioni di dollari), la tonnara spagnola Palya de Baskio (20 aprile 2008, riscatto: 770.000 euro), la nave cisterna malese Bunga Melati (18 agosto 2008, riscatto: 2 milioni di dollari), la nave greca Centauri (17 settembre 2008), il cargo greco Capitain Stefanos (21 settembre 2008), il cargo ucraino Faina (25 settembre 2008, riscatto. 3 milioni di dollari), la nave cisterna filippina Stolt Strength (18 novembre 2008), la tonnara cinese Tian Yo n. 8 (15 novembre 2008), la nave saudita Sirius Star (15 novembre 2008, riscatto 15 milioni di dollari!), la nave passeggeri Indian Ocean Explorer (2 aprile 2009), il portacontainer tedesco Hansa Stavanger (4 aprile 2009, riscatto: 2 milioni di dollari), il dragamine belga Pompei (18 aprile 2009, riscatto: 2,8 milioni di euro), la nave greca Ariana (2 maggio 2009, riscatto. 3 milioni di dollari), la nave da pesca spagnola Alakrana (2 ottobre 2009, riscatto: 2,3 milioni di euro), il portacontainer di Singapore Kota Wajar (15 ottobre 2009, riscatto: 4 milioni di dollari) e ultimamente… il tank russo Moscow University (5 aprile 2010, ancora nessun riscatto).
Pirati o filibustieri?
Se risaliamo al precedente storico dei Fratelli della costa nei Caraibi del XVII secolo, i pirati avevano potuto fare base nei loro “13 paradisi” perché rendevano discreti servizi agli Stati. Erano infatti dei filibustieri , vale a dire che erano occasionalmente incaricati dalle autorità politiche di missioni inconfessabili. E non può essere evidentemente altrimenti anche oggi.
Lo Stato maggiore russo ha preso in considerazione un’operazione multinazionale per ripulire il Punt e i porti di Xaradheere e di Hobyo. Gli Anglo-Sassoni hanno vivamente respinto questa brutale proposta. E a ben ragione. I dirigenti politici di questi territori sono alleati della CIA, del M16 e del Mossad contro gli islamisti di Al-Shabaab. Per potergli attribuire un colore africano, il sostegno massiccio degli Anglo-Sassoni passa per Addis Abeba (Etiopia), dove il Dipartimento di Stato sta per costruire la sua più grande ambasciata del mondo, dopo quella di Bagdad (Iraq).
Secondo il settimanale inglese The Spectator, i capi dei pirati del Punt sono stati ricevuti come amici a bordo delle navi da guerra USA per prendere un caffè (Inchiesta di Aidan Hartley, The Spectator del 6 dicembre 2008).
Per “trattare” quelli di Xaradheere e di Hobyo, che non hanno accesso ai servizi di un quasi-Stato come il Punt, gli Anglo-Sassoni hanno scelto una copertura colorita.
I diplomatici che ascoltavano l’interminabile discorso di Mouamar Gheddafi all’Assemblea Generale dell’ONU (23 settembre2009) in molti se ne sono andati a discutere alla buvette, aspettando che terminasse. Hanno avuto torto perché, durante la sua arringa contro il funzionamento dell’ONU, il capo di Stato libico ha fatto molte digressioni. Una delle quali è stata quella di prendere le difese dei pirati somali, paragonando le attuali organizzazioni criminali a pescatori rovinati – cosa falsa, come abbiamo visto (Discorso di Mouammar Khadafi alla 64° Assemblea Generale dell’ONU, Reseau Voltaire, 23 settembre 2009). Il colonnello Gheddafi ha ricordato l’accoglienza solenne da lui riservata a “Afweyne” e ai suoi luogotenenti, a Tripoli, dal 1 al 4 settembre 2009.
La Libia intende giocare un ruolo in Africa, ma gli è diventato difficile dopo essersi pubblicamente riconciliata con gli Stati Uniti (che avevano portato il colonnello Gheddafi al potere). Dopo tutto l’Africa è diventato un campo chiuso dove gli Stati Uniti si scontrano con la Cina, i primi subappaltando le operazioni segrete a Israele, i secondi chiedendo aiuto ai servizi iraniani.
Secondo l’inamovibile presidente yemenita Ali Abdullah Saleh, i capi pirati del Punt arrestati nelle sue acque territoriali ricevevano gli ordini per telefono satellitare dall’ufficio del Primo Ministro israeliano Ehud Olmert, dichiarazioni largamente riprese dalla stampa araba ma ignorate dalla “comunità internazionale”.
Da bravi filibustieri, i pirati somali sanno rendere dei servizi alla bisogna, nel resto del tempo rubano per conto loro. Improvvisamente non ci si meraviglia più che essi continuino a fare atti di brigantaggio come se non vi fosse stato un intervento di diverse marine da guerra. E’ legittimo perfino chiedersi se le informazioni raccolte nel corso delle riunione di “Presa di coscienza condivisa e di prevenzione dei conflitti” (SHADE), organizzate a Bahrein dal Pentagono, siano trasmesse ai pirati per evitare loro degli incontri fatali
Thierry Meyssan