Una introvabile svolta nella guerra in Yemen
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Orient XXI, 8 gennaio 2018 (trad. ossin)
Una introvabile svolta nella guerra in Yemen
Laurent Bonnefoy
Ad un mese dall’assassinio di Ali Abdallah Saleh da parte dei miliziani huthisti il 4 dicembre 2017, non si sono realizzate le attese riconfigurazioni nel conflitto yemenita. La rottura dell’alleanza tra gli Huthisti e il clan Saleh non ha portato ad un indebolimento dei primi, né modificato gli equilibri militari in favore della coalizione guidata dall’Arabia Saudita. Questo fatto getta una luce cruda sul fallimento dell’operazione decisa da quest’ultima, ma anche sul regno di Saleh e sul potere oramai esercitato senza condivisioni dagli Huthisti negli altopiani intorno a Sanaa
La fine brutale della carriera di Saleh, attorno al quale lo Yemen politico si è strutturato lungo quattro decenni, ha indubbiamente scosso gli abitanti di questo paese, addirittura anche scioccato perfino i suoi più risoluti oppositori. Il video del suo corpo gettato nel cassone di un pick-up, il volto insanguinato e il cranio fracassato, ha mostrato l’umiliazione e la decadenza di un personaggio che aveva fino ad allora schivato tanti complotti, era sopravvissuto di fatto alla sollevazione rivoluzionaria del 2011, e aveva dato prova di una impressionante baraka (stato di grazia, ndt). La sua ultima scommessa, quella di tradire gli huthisti, si è rivelata dunque perdente.
La diffusione, curata dagli Huthisti, di immagini della sua residenza disseminata di bottiglie di vodka, e le voci di un immenso tesoro di guerra che avrebbe accumulato in trentatré anni di regno, sono funzionali ad una propaganda che intendeva screditare e delegittimare la sua decisione di tradirli. Di fronte alla narrazione di un ex presidente ucciso mentre fuggiva dalla capitale per andarsi a gettare nelle braccia del suo ex nemico saudita, i partigiano di Saleh hanno preferito opporre l’ipotesi di una esecuzione a freddo nel suo palazzo, seguita da una messa in scena scabrosa finalizzata a dipingere il loro eroe come un codardo venduto agli interessi stranieri.
Un rivolgimento dalle limitate conseguenze militari
Se l’avvenimento è indubbiamente storico per lo Yemen, non configura però quella svolta nel conflitto che qualcuno aveva previsto nelle prime ore dopo la conferma della morte di Saleh, o quando quest’ultimo, il 2 dicembre, aveva annunciato l’intenzione di « aprire una nuova pagina con i Sauditi » unendosi alla lotta armata contro gli Huthisti dopo averli appoggiati. Furono molti all’epoca, compresi i belligeranti, a prevedere un indebolimento dei ribelli, vedendo in questo un’occasione per porre fine allo stallo militare che dura dal marzo 2015. E’ per questo che sia l’Arabia saudita, che gli Emirati arabi uniti, avevano da tempo tentato di provocare la dissoluzione dell’alleanza tra Saleh e gli Huthisti, fino a quel momento senza successo.
Nel breve intervallo tra l’annuncio di Saleh e il suo assassinio, i dirigenti della coalizione delle monarchie del Golfo hanno in un primo momento potuto illudersi che una sollevazione interna – reale per qualche ora a Sanaa quando i partigiani di Saleh hanno preso le armi contro gli Huthisti prima di essere sconfitti — avrebbe loro opportunamente consentito di ridurre la presenza militare. Sarebbe stata per loro un’occasione di disimpegnarsi dal delicato dossier yemenita nel momento in cui crescevano le pressioni internazionali, che accusava la coalizione di indifferenza per la questione umanitaria. Tutti i nemici degli Huthisti — militanti sudisti, Fratelli Mussulmani, combattenti locali, miliziani salafiti e naturalmente soldati della coalizione e partigiani di Saleh — hanno allora immaginato che la ribellione avrebbe militarmente collassato. Ebbene non è stato così, fino ad oggi.
Il rinforzo militare offerto dai partigiani di Saleh al fronte anti-huthista resta, di fatto, limitato. Un’offensiva sulla pianura costiera della Tihama ha consentito all’inizio di dicembre di riprendere qualche località in direzione del porto di Hodeïda (quarta città del paese) senza peraltro consentire reali progressi, né mostrarsi decisiva. Il fronte settentrionale nello Jawf è stato ripristinato. Questi modesti successi sembrano avere galvanizzato i leader della coalizione del Golfo, spingendoli a intensificare i bombardamenti senza curarsi del disastro umanitario, delle numerose vittime civili degli attacchi e le impasse militari.
Questa strategia della coalizione ha parallelamente accresciuto le pressioni internazionali. Donald Trump ha perfino lanciato, il 6 dicembre, un pubblico appello a levare il blocco, manifestamente colpito dalle immagini delle vittime. Tre settimane dopo, Emmanuel Macron ha anche lui parlato dei suoi colloqui con i Sauditi e manifestato l’auspicio che questi ultimi si facciano maggiore carico dei problemi umanitari. La copertura mediatica del conflitto è crescente, aumentando il costo per i leader di una coalizione che sembra cercare una via di uscita onorevole.
Un fronte huthista bene armato
Un mese dopo il tradimento di Saleh e la sua morte, la situazione militare resta ancora sostanzialmente bloccata. La capacità balistica degli Huthisti, che i Sauditi e gli Statunitensi descrivono come direttamente alimentata dall’Iran, resta significativa e consente frequenti lanci verso le città saudite, intercettati dai sistemi di difesa del regno. Il coinvolgimento dell’Iran resta l’oggetto di vive controversie ed è negato dagli Huthisti, che pure sono allineati senza ambiguità sulle posizioni della Repubblica Islamica, tanto in Siria che, più recentemente, nei confronti della contestazione interna contro il governo di Teheran. I frammenti di missili consegnati a fine novembre 2017 dai Sauditi agli esperti dell’ONU hanno segnalato il possibile impiego di materiale iraniano, senza che la data del loro arrivo sul suolo yemenita (e dunque una potenziale violazione del diritto internazionale e delle risoluzioni dell’ONU) possa essere dimostrata.
Qualche successo della coalizione a guida saudita è prevedibile localmente nelle prossime settimane, nella Tihama per esempio, perfino anche con la caduta del porto di Hodeïda, definito strategico per gli Huthisti, o ancora a Taez, seconda città del paese. Ma niente lascia al momento prevedere la perdita da parte dei ribelli dei centri urbani o degli sbarramenti che proteggono Sanaa, Dhamar, Amran o Saada. Queste città sono saldamente controllate da loro che le governano e reprimono ogni opposizione, spesso con brutalità.
La dimensione asimmetrica dello scontro con la coalizione (che consente di presentare un conflitto tra la ribellione di un paese povero e gli aerei dei paesi ricchi armati dagli Occidentali) appare d’altronde assai costosa per quest’ultima. Gli Huthisti sono infatti capaci di informare puntualmente, tanto la popolazione yemenita che l’estero, dei crimini provocati dai bombardamenti o del disastro umanitario, imputati soprattutto all’Arabia Saudita. Le loro violazioni del diritto di guerra, attraverso il probabile uso di scudi umani negli edifici presi di mira dai bombardamenti, il ricorso a bambini soldato, il bombardamento indiscriminato di Taez oltre al lancio di missili Burqan contro istallazioni civili in territorio saudita, passano quindi quasi sotto silenzio (1).
Vicino alle città, l’alleanza degli Huthisti con le tribù non sembra essere stata toccata in modo sensibile dalla morte di Saleh, il cui potere e influenza erano di fatto logorati. Senza di lui (e qualche altro quadro pure eliminato, come Arif Al-Zouka), il suo partito, il Congresso Popolare Generale (CPG) è come una scatola vuota [Marine Poirier, « Imagining Collective Identities. The “Nationalist” Claim within Yemen’s Former Ruling Party », Arabian Humanities, gennaio 2013.] e la personalizzazione del potere patrocinata da Saleh e dal suo clan dal decennio 2000 si sono alla fine rivelati dannosi. Diversi cacicchi del partito, come Yassir Al-Awadi, in un primo momento dato per morto insieme a Saleh e numero 3 del CPG, hanno deciso di assumere una posizione neutrale e attendista – segno di una certa debolezza.
Gli Huthisti incarnano, da parte loro, una nuova generazione politica. Né il clan Saleh (compresa la cerchia di Ahmed Ali, figlio dell’ex presidente, nascosto ad Abu Dhabi dall’inizio della guerra e che il governo degli Emirati tenta di usare come successore del padre) né le forze leali al presidente Hadi sembrano in grado di soppiantarli negli altopiani. Giocano fortemente alcune dinamiche, sia quelle confessionali legate al progetto di rinnovamento zaydita incarnato da Abdelmalik Al-Huthi, dirigente carismatico della ribellione, sia quelle nazionaliste, discendenti dall’ostilità verso l’ingerenza militare dell’Arabia Saudita. Gli Huthisti non sono solo una forza militare, ma anche un movimento politico e religioso che gode di un radicamento istituzionale e popolare che si avrebbe torto a sottovalutare, anche da parte di chi non lo apprezza.
Al-Islam rompe coi Fratelli Mussulmani
Dall’altro lato, gli anti-huthisti soffrono di profonde lacerazioni. La fine dell’alleanza tra i ribelli e Saleh accentua questa caratteristica. L’ingresso nella coalizione a guida saudita dei partigiani di Saleh all’inizio di dicembre non è avvenuto senza problemi giacché, soprattutto con la promozione della figura di Ahmed Ali, crea nuovi concorrenti al presidente Hadi, ma anche al vice presidente Ali Mohsen, vicino agli islamisti e che intrattiene da tempo relazioni difficili col figlio di Saleh. L’alleanza di queste componenti, le divergenze insorte col movimento sudista, non facilitano niente, né sul piano militare né in termini politici. I quadri del CPG, ma soprattutto i nipoti di Saleh — come Tarik Mohamed Saleh che è riuscito a scappare da Sanna e si unito alle forze della coalizione a Mareb — si aspettano vari premi o posti in un panorama già zeppo di concorrenti. Un compromesso politico appare sempre meno facile da immaginare.
Il 13 dicembre 2017, per tentare di rinsaldare il fronte anti-huthista, Mohamed Bin Salman e Mohamed Ben Zayed, rispettivamente dirigenti di fatto dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, hanno ricevuto a Riyadh i capi del partito Al-Islah, ramo yemenita dei Fratelli Mussulmani. L’uno e l’altro hanno così segnalato una messa tra parentesi della loro manifesta ostilità verso questo ramo dell’islam politico e anche la fine dell’ostracismo verso Al-Islah. Per consentire a tutti di salvare la faccia, i capi del partito hanno dovuto annunciare di « rompere le relazioni con l’organizzazione dei Fratelli Mussulmani terroristi » (come dovette fare in analoghe circostanze nel passato il partito tunisino Ennahda). Attraverso questa evoluzione tattica, la diplomazia degli Emirati, particolarmente virulenta contro i Fratelli, si è anche allineata alla strategia saudita, più conciliante. Ma il ritorno in grazia di Al-Islah resta problematica. Da un lato, esso non può non essere incompleto, nella misura in cui i suoi quadri si sono, nel corso dei mesi, spesso avvicinati al Qatar e hanno sviluppato, come Tawakkol Karman, premio Nobel per la pace 2011, una virulenta critica verso la strategia della coalizione a guida saudita. Dall’altro lato, provoca una ulteriore frammentazione del fronte anti-huthista aggiungendovi un nuovo attore che, per di più, è già indebolito sul terreno.
In questo quadro, la morte di Saleh sembra assai lontana dall’aver prodotto la svolta attesa o sperata, generando al contrario una fase di attendismo. Certo ci saranno senz’altro delle ricomposizioni nella lotta tra le élite politiche. Ma esse verranno progressivamente e si realizzeranno a spese dei civili yemeniti, come avviene da più di tre anni.
Note:
1. Louis Imbert, « Au Yémen, la famine instrumentalisée », Le Monde, 18 dicembre 2017 (riservato agli abbonati).