La geopolitica secondo “Arab Idol”

Ahmed Bensaada




 

Il ruolo proattivo che alcune emittenti satellitari arabe hanno giocato negli avvenimenti che hanno sconvolto i paesi arabi – impropriamente battezzati “primavera” araba – è stato oggetto di molti commenti da parte di numerosi osservatori. E’ oramai diventato di pubblico dominio che canali come la qatariana Al Jazeera o la saudita Al Arabiya sono solo dei potenti strumenti mediatici al servizio di agende politiche fissate dai paesi che le hanno create, finanziate e ideologicamente orientate, e questo ben da prima delle rivolte “primaverili” (1). Come ben riconosce un analista saudita: “Le due emittenti si preoccupano più di veicolare il punto di vista dei loro finanziatori, che di informare in modo professionale e obiettivo” (2). Questo allineamento contrario all’etica giornalistica è stato, non solo flagrante nella “copertura” della primavera araba, ma si è visto anche in altri dossier, come quello del massacro di Gaza (3) o della deposizione di Mohamed Morsi, il presidente egiziano appartenente alla confraternita dei Fratelli Mussulmani (4).

A proposito della Siria, Sultan Al Qassemi afferma che “nel tentativo di appoggiare la causa dei ribelli siriani, questi giganti mediatici hanno violato ogni norma giornalistica, trascurato anche i controlli più rudimentali dei fatti e si sono appoggiati su fonti anonime e video non verificati (…)” (5).

La parzialità politicamente teleguidata di questi media, che pure godevano di una fiducia senza precedenti nel mondo arabo (6), ha distrutto la loro credibilità (7) e provocato il crollo dell’audience dell’emittente qatariana (8).

In realtà, la “primavera” araba e le sue drammatiche conseguenze sono stati solo i rivelatori di agende politiche fissate già al momento in cui questi media erano stati creati.


Al Jazeera e Wadah Khanfar

Al Jazeera è stata fondata nel 1996 dall’emiro del Qatar, sceicco Hamad bin Khalifa Al Thani, che aveva assunto il potere l’anno prima rovesciando niente meno che suo padre. Dotata di un capitale di 150 milioni di dollari al momento della sua creazione, le spese del gruppo sono state stimate sui 650 milioni di dollari nel 2010 (9).

Al Jazeera ha avuto come direttore, per otto anni (dal 2003 al 2011), il palestinese Wadah Khanfar. E l’incarico affidato a questo direttore generale di tendenze notoriamente islamiste (10) non è passato inosservato. Khanfar è stato collocato, nella classifica Forbes 2009, al 54° posto delle personalità più potenti del mondo e, nel 2011, è stato portato alle stelle dal periodico statunitense Fast Company, che lo ha piazzato tra i primi 100 manager più creativi (11).




Wadah Khanfar, l'ex direttore generale di Al Jazeera


 

E non è tutto. Solo sette mesi dopo essere stato forzato a dimettersi da Al Jazeera, Khanfar è entrato nell’International Crisis Group (ICG) (12), un think tank statunitense con sede a Washington, cui appartengono molti uomini politici occidentali di primo piano, in particolare statunitensi o provenienti da paesi membri della NATO. Nel 2013 l’ICG ha avuto la disponibilità di un budget superiore ai 18 milioni di dollari, la metà circa dei quali veniva dalle sole sovvenzioni di governi occidentali (13). Wadah Khanfar siede all’ICG in compagnia di George Soros, presidente dell’Open Society Institute (OSI) e di Nahum Barnea, capocronista del giornale israeliano Yedioth Ahronoth (14). Ricordiamo che Soros è un miliardario statunitense, illustre speculatore finanziario, che è stato fortemente implicato, attraverso le sue fondazioni, nelle rivoluzioni colorate e nella formazione degli attivisti arabi che hanno organizzato le famose “primavere” arabe. Tra le personalità statunitensi più influenti del Consiglio di amministrazione dell’ICG, figura il nome di Morton Isaac Abramowitz, ex segretario di Stato aggiunto, con delega alla intelligence e alla ricerca nell’amministrazione Reagan. E’ anche interessante fare cenno del fatto che Abramowitz è stato un membro influente del Consiglio di amministrazione della National Endowment for Democracy (NED) per nove anni. Nel 2007 lo ha insignito della “Democracy Service Medal”, quale riconoscimento del “suo eccezionale contributo all’avanzamento dei diritti dell’uomo e della democrazia nel mondo” (16). E’ necessario ricordare che la NED è la più grande organizzazione statunitense di “esportazione” della democrazia? Anch’essa, come l’OSI, è stata attiva nelle rivoluzioni colorate, nelle “primavere” arabe (17), ma anche nell’Euromaidan (18) e nella recente “rivoluzione degli ombrelli” a Hong Kong (19).

Tra i più importanti consiglieri dell’ICG, si può citare Zbigniew Brzezinski, ex consigliere presidenziale per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Shimon Peres, ex presidente e primo ministro di Israele, o Shlomo BenAmi, ex ministro degli affari esteri di Israele (20).

Con tutto questo bel mondo, non è difficile capire quali interessi serva questa organizzazione che si dichiara “impegnata a prevenire e risolvere i conflitti sanguinari” (21).

Tutte queste manifestazioni di stima da parte di organizzazioni statunitensi che sembrano circondare Wadah Khanfar hanno forse una spiegazione assai semplice, stando ad alcuni cablo Wikileaks firmati dall’ambasciatore USA in Qatar dell’epoca, Chase Untermeyer. Secondo questi documenti, infatti, Khanfar sarebbe stato in “contatto permanente” con l’US Defense Intelligence Agency (Agenzia statunitense di informazioni e di difesa) e avrebbe provveduto ad addomesticare la copertura di talune notizie a richiesta degli USA (22). Secondo il New York Times, avrebbe anche invitato i responsabili statunitensi a mantenere nascosta la loro collaborazione (23).

Wadah Khanfar è stato sostituito dallo sceicco Ahmed Ben Jassem Al Thani, un membro della famiglia regnante qatariana. Quest’ultimo è stato nominato, nel 2013, ministro dell’economia e del commercio (24).


Al Arabiya, “Voice of America”

Il sunto del cablo Wikileaks 09RIYADH651, redatto nel 2009 dall’ambasciata USA in Arabia Saudita, chiarisce le questioni della proprietà e dell’orientamento ideologico dei media sauditi (25). Vi si può leggere: “Il sistema normativo saudita offre al regime degli Al Saud un mezzo per manipolare la stampa nazionale scritta promuovendo la propria agenda, senza dover ricorrere ad una sorveglianza quotidiana sui giornalisti, e i giornalisti sono liberi di scrivere quel che vogliono, a condizione che non critichino la famiglia reale e non parlino della corruzione del governo. Inoltre la maggior parte dei media in Arabia saudita – scritti o elettronici – sono di proprietà di membri della famiglia reale, e di conseguenza l’autocensura è all’ordine del giorno”.

E Al Arabiya non fa eccezione.

Lanciata nel 2003, in piena guerra d’Iraq, serviva a fare concorrenza e, soprattutto, a contrastare Al Jazeera che, negli anni 1990, non esitava a criticare la famiglia reale saudita (26). E’ stata dotata di un capitale iniziale di 300 milioni di dollari e, secondo qualche esperto, il budget operativo sarebbe di centinaia di milioni di dollari (27).

El Arabyia appartiene in maggioranza al gruppo MBC (Middle East Broadcasting Centre), co-fondato e presieduto da un certo Walid Al Ibrahim.



Walid Al Ibrahim, co-fondatore e DG del gruppo MBC



Walid Al Ibrahim è fratello di Al Jawhara Al Ibrahim, una delle tante mogli, nondimeno favorita, del defunto re Fahd. Al Jawhara aveva lasciato il suo primo marito per unirsi al più alto rappresentante dei Al Saud. Secondo qualche osservatore, è stato proprio grazie a questa unione che la famiglia degli Al Ibrahim è “uscita dall’oscurità”, offrendo ai fratelli di Al Jawhara l’opportunità di diventare influenti businessmen, non senza attirarsi le critiche e i pettegolezzi del cerchio reale (28). Oltre a Al Jawhara, Walid ha altre due sorelle e dieci sorellastre, diverse delle quali hanno sposato degli Al Saud. Le sue due sorelle, Maha e Mohdi, sono rispettivamente sposate al principe Abderrahmane Al Saud (ex viceministro saudita della difesa e dell’aviazione) e Khaled Al Angari (Ministro saudita dell’insegnamento superiore) (29).

Walid è anche lo zio materno del principe Abdul Aziz, l’unico figlio di sua sorella Al Jawahra e il più piccolo (e preferito) del re Fahd (30). Fin da giovane (in una monarchia gerontocratica), Abdul Aziz ha occupato posti importanti nel governo saudita. Dapprima ministro senza portafoglio, è stato poi nominato capo di gabinetto del Consiglio dei Ministri quando aveva solo 27 anni (31). Silurato nell’aprile 2014 (32), il principe vive attualmente come un playboy miliardario, ma è anche un attento uomo d’affari. Per la cronaca, è stata l’autocolonna che lo accompagnava ad essere stata spettacolarmente svaligiata su un’autostrada parigina nell’agosto 2014 (33).



Il principe Abdul Aziz ai funerali del padre, il re Fahd d'Arabia Saudita (2 agosto 2005)

 

Quando era vivo, re Fahd considerava MBC come il suo progetto personale. D’altronde si dice che all’epoca il re raccontasse che l’acronimo MBC voleva dire “My Broadcasting Company” e che telefonava alla stazione per chiedere la messa in onda di questo o quel programma, secondo il suo umore (34). In effetti, mentre il sostegno finanziario di re Fahd a MBC nei primi anni resterà una questione di pura congettura, era invece di pubblica notorietà l’ampiezza del sostegno logistico reale (35). E adesso è il figlio ad incassarne i dividendi: secondo il cablo Wikileaks 09RIYADH651 già citato, il principe Abdul Aziz incasserebbe “il 50% di tutti i profitti dell’impero MBC”.

Al Arabyia, la trasmissione di notizie del gruppo MBC, è stata diretta dal giornalista saudita Abdul Rahman Al Rached, dal 2004 al 2014. A differenza di Wadah Khanfar, egli è conosciuto per la sua opposizione all’islam politico e ai Fratelli Mussulmani, cosa che gli ha attirato i fulmini degli islamisti e spiega il ruolo giocato da questa emittente in Egitto (36).




Abdul Rahman Al Rached, ex direttore generale di Al Arabiya

 

Secondo il politologo Mohamed El Oifi, “Al Arabiya è prigioniera dell’immagine di una emittente che ‘riflette il punto di vista statunitense’, addirittura israeliano, tanto coscienziosamente che i suoi detrattori la chiamano Al-lbriya (l’ebraica)” (37).

Abdul Rahman Al Rached è dovuto lui stesso correre ai ripari (senza essere convincente) per smentire queste accuse durante il massacro di Gaza del 2009 (38). A proposito di questa tragedia, l’universitario saudita Mohsen Al Awaji ha dichiarato in un’intervista rilasciata alla stessa emittente che “Al Arabiya (…) ha preso le parti del nemico sionista” e che “alcune emittenti sioniste erano più imparziali di Al Arabiya nel trattare la vicenda di Gaza” (39).

Questa vicinanza tra la linea editoriale di Al Arabiya e gli interessi USA è stata manifesta fin dalla sua creazione. Infatti, nel maggio 2004, il presidente Bush scelse Al Arabiya, e non Al Jazeera, per rilasciare un’intervista sulla vicenda della prigione di Abou Graib. E’ questo che ha fatto dire a qualcuno che Washington aveva chiaro chi stesse dalla sua parte e chi no (40). E a conferma di ciò, Al Arabiya ha anche realizzato, nel febbraio 2009, la prima intervista del presidente Obama ad una televisione araba (41).

Al Arabiya è accusata di predicare la “normalizzazione” con lo Stato ebraico. Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah, “ha pubblicamente denunciato quello che considera come propaganda di Al Arabiya a favore dello Stato di Israele nel mondo arabo” (42).

Il 26 luglio 2014, in piena aggressione israeliana contro Gaza, Al Arabiya ha pubblicato sul suo sito un editoriale del saudita Mohammed Al Sheikh intitolato “La pace con Israele è la soluzione” (43). Questa dichiarazione, che ha suscitato un ampio dibattito, è stata definita dal commentatore israeliano Yaron Friedman come sorprendente. “Perché questo articolo è stato pubblicato in Arabia Saudita e perché adesso?” si è chiesto. “La famiglia del redattore è molto influente in Arabia Saudita e le sue origini risalgono alla famiglia wahhabita fondatrice del regno. I componenti della sia famiglia, che è originaria del deserto del Naid e della captale di Riyadh, comprende eminenti dignitari religiosi, degli imam, dei muftì, e Ministri dell’Educazione e della Giustizia” (44).

Ha concluso la sua analisi affermando: “Oggi l’Arabia Saudita e Israele hanno in comune più interessi che mai, ivi compreso quello di fermare il programma nucleare iraniano, la guerra contro il movimento dei Fratelli Mussulmani e le sue filiali (Hamas), l’appoggio la regime Al Sissi in Egitto, il mantenimento della stabilità nel regno di Giordania, la contrapposizione al regime di Bachar al Assad in Siria e agli Hezbollah in Libano, la guerra contro Al Qaeda e, più precisamente, lo Stato islamico in Iraq e in Siria, e la lista è ancora lunga…”

“L’interesse dell’Arabia saudita sarebbe, molto semplicemente, di porre termine al “piccolo conflitto” tra Israele e i Palestinesi, in modo che Israele possa schierarsi al suo fianco nel “grande conflitto” contro gli Sciiti e la minaccia terrorista sunnita crescente”.


Arab Idol e l’intrattenimento politicizzato

Non vi è dunque alcun dubbio che le due emittenti più famose del mondo arabo abbiano delle linee editoriali che riflettono fedelmente le visioni politiche dei governi dei paesi che le hanno fondate e che le finanziano.

Nel caso della rete MBC, le agende politiche non sono veicolate solo attraverso il canale di notizie Al Arabiya. Una trasmissione di intrattenimento molto apprezzata dal pubblico panarabo come “Arab Idol”, viene anch’essa utilizzata a questi fini. Trasmessa dal canale MBC1, è alla sua terza edizione. Ispirata allo show televisivo inglese “Pop Idol”, lo schema del programma è semplicissimo. Vengono selezionati dei giovani cantanti nel mondo arabo. Ogni settimana essi interpretano, in rappresentanza del loro paese, una canzone. I telespettatori vengono invitati a votare con sms e il (o i) candidato (i) che ha ottenuto meno voti viene eliminato. Per dare un’idea della popolarità della trasmissione, la finale della seconda edizione (2013) di Arab Idol è stata seguita da non meno di 100 milioni di telespettatori (45).

La terza edizione, iniziata a dicembre 2014, ha dimostrato in modo chiaro questa miscela di generi tra l’intrattenimento e la politica.

Prima di tutto, in una delle prime trasmissioni è stata presentata una carta dei paesi arabi di provenienza dei candidati. Il problema è che questa carta menzionava Israele al posto della Palestina, per indicare la provenienza di due candidati di origine palestinese: Manal Mousa e Haitham Khalaily. Dopo il coro generale di proteste sollevato da questo sproposito, il gruppo MCB si è giustificato dicendo che si era trattato di un errore tecnico (46).



 


Ma la storia non è così semplice, giacché i candidati di origine palestinese sono in effetti Arabi israeliani e, dunque, possessori di un passaporto dello Stato ebraico. D’altronde i media israeliani s’erano divertiti alla grande. Per esempio Haaretz aveva titolato “Il prossimo Arab Idol potrebbe essere israeliano” (47), l’emittente 124News aveva annunciato “Due Israeliani realizzano il sogno ‘Arab Idol’ in Libano” (48), e il Times of Israel dichiarava: “Israeliani cantano ad Arab Idol per la Palestina” (49). La vicenda ha assunto tali proporzioni che il portavoce dell’esercito israeliano in persona, Avichay Adraee, ha formulato i suoi auguri ai due candidati (50).




Avichay Adraee, il portavoce dell'esercito israeliano

  

Molti internauti e cittadini arabi hanno, ancora una volta, accusato MBC di voler “normalizzare” le relazioni con Israele, e che l’indicazione sulla Cartina di Israele era premeditata, cosa che il gruppo ha negato attraverso il portavoce ufficiale, Mazen Hayek (51).

Un’altra decisione assunta dall’emittente in tema di associazione dei candidati ai loro paesi di origine mostra un chiaro orientamento politico. Uno dei candidati, Ammar Al koufi, è un iracheno di origine curda. Invece di indicare il suo paese ufficiale, vale a dire l’Iraq, è stato invece associato al “Kurdistan iracheno”, come si trattasse di un paese riconosciuto. Sarebbe come se, invece di scrivere “Algeria” per un concorrente algerino, si usasse una denominazione etnico regionale come “Cabila”, o Chaoui” o “Mozabiti”. Ed esempi di tal genere sono numerosi nei paesi arabi.

Questa differenziazione territoriale tra l’Iraq e il Kurdistan iracheno da parte di MBC non è stata certamente fortuita. Essa corrisponde alla dottrina del “Grande Medio Oriente” che propugna il rimodellamento delle frontiere, superando quelle ereditate dagli accordi di Sykes-Picot.

Benché lanciata sotto la guida del presidente G.W.Bush e dei suoi falchi neoconservatori (52), questo progetto si ispira ad un’idea del 1982 di Oded Yinon, un alto funzionario del ministero degli affari esteri israeliano. Il “Piano Yinon”, come viene conosciuto, si proponeva di “smembrare tutti gli stati arabi esistenti e di riorganizzare la regione in piccole entità fragili, più malleabili e incapaci di far fronte agli Israeliani” (53).

A titolo di esempio, questo piano raccomandava la divisione dell’Iraq in tre stati distinti: sunnita, curdo e sciita (54).

Nel 2006, Ralph Peters, luogotenente colonnello dell’esercito USA, pubblicò un articolo sul “Grande Medio Oriente” nel quale propose che le nuove frontiere dei paesi ivi compresi avrebbero dovuto seguire le “affinità etniche” e il “comunitarismo religioso” (55). Su questa base, propose una mappa che presenta molte somiglianze con quella di Yinon (56).






Il Grande Medio Oriente, secondo Ralph Peters


Da parte sua, Jeffrey Goldberg ha proposto nel 2008 un’altra carta di suddivisione del Grande Medio oriente, nella quale prevedeva lo smembramento della Siria e dell’Iraq, ma anche quella del Sudan in due stati, battezzando la nuova entità come “Nuovo Sudan” (57). Ricordiamo che il Sudan del sud si è separato dal Sudan del nord nel 2011, vale a dire tre anni dopo la pubblicazione della cartina di Goldberg.

Suggerita da Robin Wright, la più recente cartina dello smembramento del Grande Medio Oriente è datata settembre 2013 (58). Oltre alla spartizione della Siria e dell’Iraq, vi si propone anche la divisione della Libia in tre entità: la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan. Questa cartina prevede anche la separazione dello Yemen in due parti (Nord e Sud), situazione esistente prima del 1990, anno della riunificazione del paese.


Il Grande Medio Oriente, secondo Robin Wright

 

L’Arabia Saudita sarebbe in procinto di promuovere una divisione condivisa con Israele e interpretata dai giovani candidati arabi? Lavorerebbe per lo smembramento dell’Iraq in maggioranza sciita per indebolirlo e, come insinua Yaron Friedman (59), impedire all’asse sciita (Iran, Iraq, Hezbollah, Houtis dello Yemen) di dominare la scena politica del Medio oriente a detrimento dei sunniti?

Così, per quanto i media qatariani e sauditi siano stati capaci di attirare un grandissimo numero di telespettatori arabi grazie alla loro padronanza delle tecniche televisive moderne, essi restano potenti strumenti efficacemente utilizzati sul piano politico dai loro rispettivi paesi. Laddove il loro ruolo parziale e privo di etica professionale è stato evidenziato nella copertura che i loro canali di informazione continua hanno dato della “primavera” araba o della causa palestinese, risulta oggi che il gruppo MBC utilizzi anche le trasmissioni di intrattenimento per veicolare gli obiettivi politici della monarchia saudita.


Riferimenti:

1.    Mohammed El Oifi, « Le face-à-face Al-Arabiya/Al-Jazeera : un duel diplomatico-médiatique », Magazine Moyen-Orient, giugno 2010,http://www.moyenorient-presse.com/?p=705

2.    AFP, « Egypte : la crédibilité entamée d'Al-Jazeera et d'Al-Arabiya », L’expansion, 21 luglio 2013,http://lexpansion.lexpress.fr/actualites/1/actualite-economique/egypte-la-credibilite-entamee-d-al-jazeera-et-d-al-arabiya_1268006.html

3.    Amin Hamadé, « Comment Al-Jazira et sa rivale Al-Arabiya couvrent-elles la guerre à Gaza ? », Le Courrier International, 22 novembre 2012, http://www.courrierinternational.com/article/2012/11/22/comment-al-jazira-et-sa-rivale-al-arabiya-couvrent-elles-la-guerre-a-gaza

4.    Vedi rif. 2

5.    Sultan Al Qassemi, « Egypt made al Jazeera -- and Syria's destroying it », Foreign Policy, 2 agosto 2012,http://www.foreignpolicy.com/articles/2012/08/02/breaking_the_arab_news

6.    Johnson, T. et Fahmy, S. (2010). « Who is winning the hearts and minds of the Arab public? », International Communication Research Journal, 45(1-2), 24–48 (2010), https://www.academia.edu/1984609/The_credibility_of_Al-Jazeera_Al-Arabiya_Al-Hurra_and_local_Arab_stations

7.    Elie Chalala, « Al Jazeera and Al Arabiya Face Criticism... But of Network Ownership or Syrian Coverage », Al Jadid, 24 aprile 2013,http://www.aljadid.com/content/al-jazeera-and-al-arabiya-face-criticism-network-ownership-or-syrian-coverage-0

8.    Yassine Khiri, « Al Jazeera, la chaîne phare du monde arabe ne brille plus », Le Vif, 25 luglio 2013,http://www.levif.be/actualite/international/al-jazeera-la-chaine-phare-du-monde-arabe-ne-brille-plus/article-normal-96957.html

9.    Heather Brown, Emily Guskin and Amy Mitchell, « Arab Satellite News », Pew Research Journalism Project, 28 novembre 2012,http://www.journalism.org/2012/11/28/arab-satellite-news/

10.    Fred Halliday, « Political Journeys: The Open Democracy Essays », Yale University Press, USA (2012), p. 118,http://books.google.ca/books?id=QjWCHaInTAsC&pg=PA118&lpg=PA118&dq=wadah+khanfar+islamist&source=bl&ots=iRQWu6sF3a&sig=L-yP1dNZtO6DvDwevYAFE-eWZlQ&hl=fr&sa=X&ei=eRSBVMPzDYieyATW8YH4BA&ved=0CFEQ6AEwCzgK#v=onepage&q=wadah%20khanfar%20islamist&f=false

11.    Benjamin Barthe, « Docteur Wadah et Mister Khanfar : l'insaisissable patron d'Al-Jazira annonce sa démission », Le Monde, 21 settembre 2011, http://www.lemonde.fr/actualite-medias/article/2011/09/21/demission-du-directeur-general-d-al-jazira_1575153_3236.html

12.    International Crisis Group, « Crisis Group Announces New Board Members », 2 luglio 2012,http://www.crisisgroup.org/en/publication-type/media-releases/2012/general/crisis-group-announces-new-board-members.aspx

13.    International Crisis Group, « Who supports Crisis Group? », http://www.crisisgroup.org/en/support/who-supports-crisisgroup.aspx

14.    International Crisis Group, « Crisis Group's Board of Trustees», http://www.crisisgroup.org/en/about/board.aspx

15.    Ahmed Bensaada, « Arabesque américaine : Le rôle des États-Unis dans les révoltes de la rue arabe », Éditions Michel Brûlé, Montréal (2011), Éditions Synergie, Alger (2012)

16.    National Endowment for Democracy, «2007 Democracy Service Medal », 18 giugno 2007, http://www.ned.org/events/democracy-service-medal/2007

17.    Ahmed Bensaada, « Arabesque américaine : Le rôle des États-Unis dans les révoltes de la rue arabe », Éditions Michel Brûlé, Montréal (2011), Éditions Synergie, Alger (2012)

18.    Ahmed Bensaada, « Ucraina : autopsia di un colpo di Stato », www.ossin.org, marzo 2014,
http://www.ossin.org/ucraina/ucraina-autopsia-di-un-colpo-di-stato.html
http://www.ossin.org/ucraina/ucraina-autopsia-colpo-stato-parte-seconda.html

19.    Ahmed Bensaada, « Hong Kong : un virus sotto gli ombrelli», www.ossin.org, ottobre 2014, http://www.ossin.org/cina/hong-kong-un-virus-sotto-l-ombrello.html

20.     International Crisis Group, « Crisis Group Senior Advisers », http://www.crisisgroup.org/en/about/~/link.aspx?_id=AFAAD992BC154C93B71B1E76D6151F3F&_z=z

21.    International Crisis Group, « About Crisis Group », http://www.crisisgroup.org/en/about.aspx

22.    Rebecca Shapiro, « Wadah Khanfar, Former Al Jazeera Director: I Was 'Under Pressure' From Middle Eastern Governments », The Huffington Post, 29 novembre 2011, http://www.huffingtonpost.com/2011/11/29/wadah-khanfar-former-al-j_n_1118477.html

23.    David D. Kirkpatrick, « After Disclosures by WikiLeaks, Al Jazeera Replaces Its Top News Director », The New York Times, 20 settembre 2011, http://www.nytimes.com/2011/09/21/world/middleeast/after-disclosures-by-wikileaks-al-jazeera-replaces-its-top-news-director.html?_r=0

24.    AFP, « Qatar : le nouvel émir forme son cabinet », Le Nouvel Observateur, 25 giugno 2013,http://tempsreel.nouvelobs.com/monde/20130625.AFP7427/qatar-l-emir-abdique-au-profit-de-son-fils.html

25.    WikiLeaks, « Ideological And Ownership Trends In The Saudi Media », Câble 09RIYADH651,https://cablegatesearch.wikileaks.org/cable.php?id=09RIYADH651

26.    Marwan M. Kraidy, « Hypermedia and Governance in Saudi Arabia », First Monday. Special Issue No. 7, Departmental Papers (ASC). University of Pennsylvania, 2006, http://repository.upenn.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1193&context=asc_papers

27.    Sultan Al Qassemi, « Al-Jazeera : une objectivité mise en cause », Slate Afrique, 16 agosto 2012,http://www.slateafrique.com/92763/l%E2%80%99egypte-al-jazeera-syrie-al-arabiyya-propagande-qatar-arabie-saoudite

28.    Steve Coll, « An intimate look at the Bin Laden family », Today, 5 aprile 2008,http://www.today.com/id/23955877/site/todayshow/ns/today-books/t/intimate-look-bin-laden-family/#.VIRpvjGG98F

29.    Centre Princesse Jawhara Al Ibrahim, « La princesse Jawhara », http://al-jawhara-center.kau.edu.sa/Content.aspx?Site_ID=287&lng=AR&cid=40127

30.    AP, « First Wife of King Fahd Dies », 9 marzo 1999, http://www.apnewsarchive.com/1999/First-Wife-of-King-Fahd-Dies/id-0113dc8399a0764765e1092ffc311451

31.    Christophe Cornevin, « Abdul Aziz Ben Fahd, le prince braqué à Paris est un amateur des "plaisirs de la vie" », Le figaro, 20 agosto 2014, http://www.lefigaro.fr/actualite-france/2014/08/19/01016-20140819ARTFIG00327-abdul-aziz-ben-fahd-prince-braque-a-paris.php

32.    Arab News, « New minister of state appointed », 26 aprile 2014, http://www.arabnews.com/news/561076

33.    Vedi rif. 31

34.    Jon B. Alterman, « New Media, New Politics? », Policy Paper No. 48 (1998), p.21,https://www.washingtoninstitute.org/uploads/Documents/pubs/PolicyPaper48.pdf

35.    Naomi Sakr, « Whys and Wherefores of Satellite Channel Ownership », Satellite Realms: Transnational Television, Globalization and the Middle East, 2001, http://acc.teachmideast.org/texts.php?module_id=13&reading_id=1029&print=1

36.    Mallouk Al Cheikh, « Abdul Rahman Al Rached : les Frères d’Égypte louent la Turquie et imitent l’Iran », Al Majalla, 8 febbraio 2013,http://www.majalla.com/arb/2013/02/article55242362

37.    Vedi rif. 1

38.    Al Arabiya Net, « Al Rached : Al Arabiya ne reflète pas l’opinion des États-Unis », 20 novembre 2010,http://www.alarabiya.net/articles/2009/01/15/64254.html

39.    Youtube, « Le Cheikh Mohsen Al Awaji clashe la chaîne Al Arabiya », video postato il 2 febbraio 2010,https://www.youtube.com/watch?v=nICSV8tWb1Y

40.    Andrew Hammond, « Saudi Arabia's Media Empire: keeping the masses at home », Arab Media and Society, No 3, Autunno 2007,http://www.arabmediasociety.com/?article=420

41.    Sam Stein, « Obama On Al-Arabiya: First Formal Interview As President With Arab TV Network (VIDEO) », The Huffington Post, 27 febbraio 2009, http://www.huffingtonpost.com/2009/01/26/al-arabiya-obama-does-fir_n_161087.html

42.    Vedi rif. 1

43.    Mohammed Al Sheikh, « La paix avec Israël est la solution  », Al Arabiya Net, 26 luglio 2014,http://www.alarabiya.net/ar/politics/2014/07/26/%D8%A7%D9%84%D8%B3%D9%84%D8%A7%D9%85-%D9%85%D8%B9-%D8%A5%D8%B3%D8%B1%D8%A7%D8%A6%D9%8A%D9%84-%D9%87%D9%88-%D8%A7%D9%84%D8%AD%D9%84-.html

44.    Yaron Friedman, « L’Arabie Saoudite aimerait "enrôler" Tsahal dans les combats à venir », JForum, 4 agosto 2014,http://www.jforum.fr/forum/international/article/l-arabie-saoudite-aimerait-enroler

45.    France 24, « Deux chanteurs Arabes israéliens à la conquête d’Arab Idol au Liban », 21 ottobre 2014,http://www.france24.com/fr/20141021-arab-idol-arabes-israeliens-liban-manal-mousa-haitham-khalaily-mohammad-assaf/

46.    Al Ahram, « MBC : l’apparition de nom "Israël" dans Arab Idol est une erreur technique », 9 ottobre 2014,http://gate.ahram.org.eg/News/535356.aspx

47.    Areej Hazboun, « Next 'Arab Idol' may be Israeli», Haaretz, 18 ottobre 2014, http://www.haaretz.com/news/national/1.621368

48.    I24News, « Deux Israéliens accomplissent le rêve "Arab Idol" au Liban », 18 ottobre 2014,http://www.i24news.tv/fr/actu/international/moyen-orient/47794-141018-deux-israeliens-accomplissent-le-reve-arab-idol-au-liban

49.    Times of Israel, « Israelis sing on Arab Idol, for Palestine », 23 settembre 2014, http://www.timesofisrael.com/israelis-sing-for-palestine-in-arab-idol/

50.    Watan, « Le porte-parole de l’armée israélienne cause un crise à Arab Idol et MBC », 20 ottobre 2014,https://www.watan.com/%D9%86%D9%83%D8%B4%D8%A7%D8%AA/item/2264-%D8%A7%D9%84%D9%85%D8%AA%D8%AD%D8%AF%D8%AB-%25D%E2%80%A6

51.    El Youm 7, « MBC nie la normalisation après l’apparition du nom "Israël" dans Arab Idol », 10 settembre 2014,http://www.youm7.com/story/2014/9/10/%D8%A5%D9%85-%D8%A8%D9%89-%D8%B3%D9%89-%D8%AA%D9%86%D9%81%D9%89-%D8%A7%D9%84%D8%AA%D8%B7%D8%A8%D9%8A%D8%B9-%D8%A8%D8%B9%D8%AF-%D8%B8%D9%87%D9%88%D8%B1-%D8%A7%D8%B3%D9%85-%D8%A5%D8%B3%D8%B1%D8%A7%D8%A6%D9%8A%D9%84-%D9%81%D9%89-%D8%A2%D8%B1%D8%A7%D8%A8-%D8%A2%D9%8A%D8%AF%D9%88%D9%84/1857882#.VIaYlDGG98E

52.    Charles Saint-Prot, « La nouvelle carte américaine du Proche-Orient », Observatoire d’Études Géopolitiques, ottobre 2006,http://www.etudes-geopolitiques.com/la-nouvelle-carte-americaine-du-proche-orient

53.    Habib Tawa, « Le Proche-Orient en miettes », Afrique Asie, Settembre 2014, p. 33.

54.    Vedi rif. 52

55.    Ralph Peters, « Blood borders », Armed Force Journal, 1° giugno 2006, http://www.armedforcesjournal.com/blood-borders/

56.    Questa carta può essere consultata al seguente indirizzo: http://afj.wpengine.com/wp-content/uploads/2013/10/peters-map-after.jpg

57.    Jeffrey Goldberg, « After Iraq », The Atlantic, 1° gennaio 2008, http://www.theatlantic.com/magazine/archive/2008/01/after-iraq/306577/?single_page=true

58.    Robin Wright, « Imagining a Remapped Middle East », The New York Times, 28 settembre 2013,http://www.nytimes.com/2013/09/29/opinion/sunday/imagining-a-remapped-middle-east.html?pagewanted=all

59.    Vedi rif. 44

 

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