Il 2020 si annuncia difficile per l'Arabia Saudita di Mohammed bin Salman
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Middle East Eye, 7 gennaio 2020 (trad.ossin)
Il 2020 si annuncia difficile per l'Arabia Saudita di Mohammed bin Salman
Madawi al-Rasheed
Solo un cambio di direzione politica potrebbe dare un futuro migliore all’Arabia saudita e migliorare la sua immagine oltre i confini del Regno
Se il successo si misura dai risultati, l’Arabia Saudita governata dal principe ereditario Mohammed bin Salman si è totalmente impantanata nei suoi problemi nel corso dell’ultimo anno, e su molti fronti.
La scena nazionale è punteggiata da una contraddittoria mescolanza di riforme e repressione. Sul piano regionale, i campi di petrolio sauditi hanno subito due attacchi che hanno paralizzato la produzione del Regno, e una riconciliazione abortita col vicino Qatar si è interrotta ancor prima di cominciare.
Sulla scena internazionale, Mohammed bin Salman non è ancora riuscito a ricostruirsi una reputazione, dopo la disavventura militare in Yemen e l’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi alla fine del 2018, che hanno entrambi raffreddato l’entusiasmo verso i suoi progetti per attrarre i capitali internazionali e di lancio della compagnia petrolifera nazionale Aramco sui mercati mondiali.
Su questi tre fronti, l’unico risultato ottenuto dal principe ereditario è stato di minare la credibilità del Regno e rovinare irrimediabilmente la propria reputazione.
Attivisti arrestati
Malgrado il battage mediatico che ha accompagnato i piani detti di liberalizzazione sociale ed economica di bin Salman, che hanno migliorato la condizione delle donne e dei giovani, le successive ondate di detenzioni arbitrarie sono rimaste un problema spinoso. Un numero sempre maggiore di intellettuali e professionisti è stato arrestato e, per la maggior parte, è ancora in attesa di processo.
Famosi eruditi religiosi, come Salman al-Ouda e Awad al-Qarni, militanti femministe come Loujain al-Hathloul, oltre a capi di tribù, si sono ritrovati dietro le sbarre per lunghi periodi. Senza una pressione efficace da parte della società saudita o della comunità internazionale, i militanti imprigionati rischiano di essere dimenticati, salvo che negli hashtag di Twitter – quasi tutti generati dall’emergente diaspora saudita.
Il principe ereditario saudita è responsabile della emigrazione forzata di centinaia di Sauditi in cerca di rifugio all’estero. La sua politica di tolleranza zero nei confronti delle voci dissidenti e il suo accentramento decisionale implacabile hanno fatto del Regno una gigantesca prigione per tutti quelli che la pensano diversamente.
Le sue riforme sociali ed economiche non sono riuscite a creare consenso, lasciando molti Sauditi senza altra alternativa che di abbandonare il paese e continuare, da lontano, la loro lotta per la libertà di espressione. Il loro numero crescente li ha spinti a cercare una base istituzionale all’estero sotto cui raggrupparsi ed a creare un’unica voce contro la propaganda del regime. Gli esiliati – uniti nonostante le differenze ideologiche, di genere e di credo – organizzano ogni anno delle conferenze, l’ultima a dicembre.
Mentre l’industria dell’intrattenimento e del turismo è cresciuta in Arabia saudita nel 2019, il regime non ha ancora manifestato reali segni di apertura, al di là della propaganda dei concerti, dei festival e degli spettacoli di circo. E’ però poco probabile che questi due settori producano sufficienti posti di lavoro per i giovani sauditi; sono industrie più centrate sul consumo che sulla produzione.
Riconciliazioni fallite
Mentre le due crisi regionali dello Yemen e del Qatar sembrano non avere consegnato alcuna vittoria al principe ereditario quest’anno, una rattoppata riconciliazione nello Yemen non si è ancora tradotta in una soluzione durevole che pacifichi davvero le fazioni in guerra e consenta al Regno di voltare la pagina del suo intervento militare, che dura da più di cinque anni.
Nel frattempo, l’invito rivolto all’emiro del Qatar per assistere al summit del Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG) a Riyadh in dicembre è stato boicottato e il blocco imposto al Qatar deve essere ancora ufficialmente dichiarato una mossa sbagliata. Al momento, il Qatar non sembra avere fretta di accettare una riconciliazione col Regno o col suo alleato, gli Emirati Arabi Uniti.
Bin Salman ha diviso il Golfo in modo irreparabile. Nessun leader saudita prima di lui era mai stato tanto aggressivo nei confronti di un vicino. Laddove l’obiettivo era quello di isolare il Qatar, è stato piuttosto il principe saudita a ritrovarsi isolato a causa della sua politica intransigente, che mirava ad umiliare altri Stati piuttosto che cooperare e risolvere i conflitti per via diplomatica.
L’approccio aggressivo del principe ereditario alle questioni di politica regionale ha avuto effetti controproducenti e molti osservatori accusano l’Arabia Saudita di approfondire le divisioni che esistono tra gli Stati del Golfo. Con bin Salman, il CCG è diventato insignificante come forum regionale.
Di fronte a questo fallimento regionale, il principe ereditario punta sulle proteste di pazza in Libano e in Iran per indebolire i suoi rivali iraniani. Riyadh vede queste manifestazioni come una nuova spinta per ridurre l’influenza di Teheran nei due paesi.
Tuttavia, per quanto questa possa essere una delle cause, ci sono diversi altri fattori che hanno spinto i manifestanti a scendere in piazza per esprimere il loro malcontento. Non chiedono solo l’espulsione dell’Iran: queste frange di popolazione emarginata detestano tutti i governi corrotti e inefficienti.
Calcolo sbagliato
Puntare sulle manifestazioni per espellere l’Iran e sostituirlo con l’egemonia saudita è un calcolo sbagliato. Né i manifestanti iracheni, né i loro omologhi libanesi sembrano interessati a sostituire un cattivo signore con un altro altrettanto cattivo. Bin Salman non capisce i sentimenti che ispirano le persone che si ribellano; è più avvezzo alla repressione che alla liberazione.
I suoi vicini regionali non arabi, l’Iran e la Turchia, condividono una comune repulsione per il principe. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e il presidente iraniano Hassan Rohani sembrano intransigenti quando trattano con lui. Entrambi non lo prendono sul serio ed esitano ad accordargli fiducia, perfino adesso che ha intrattenuto dei colloqui segreti con Teheran.
Il regime iraniano è ancora sufficientemente forte per venire a capo delle manifestazioni locali, nonostante mesi di gravi difficoltà economiche provocate dalla sanzioni internazionali. Bin Salman non vedrà presto la disintegrazione del regime iraniano. Deve imparare a trovare dei compromessi con la Turchia e l’Iran.
E finché l’Arabia Saudita non farà giustizia per l’uccisione di Khashoggi, un crimine commesso sul suolo turco, Ankara non migliorerà le sue relazioni col principe ereditario. L’annuncio della condanna a morte di cinque sospetti decisa al più alto livello, accompagnata dalla liberazione senza imputazioni dei tre individui che si ritiene abbiano diretto l’operazione, ivi compreso l’assistente di bin Salman, Saud al-Qahtani, non migliorerà la situazione.
La comunità internazionale continua inoltre a mostrarsi fredda verso le riforme economiche del principe. La vendita del solo 1,5 % del gigante petrolifero Aramco è stata alla fine avviata quest’anno, ma pochi investitori internazionali sembrano essersi precipitati a trarre profitti dall’affare del secolo.
Finché l’Arabia saudita non sarà uno Stato fondato sulla trasparenza, la buona governance e lo stato di diritto, le sarà difficile avere successi finanziari su scala internazionale. La quotazione in Borsa di Aramco è sembrata più una rapina a mano armata che un esordio nei mercati mondiali.
Il nuovo anno non si annuncia brillante, perché repressione e disavventure regionali sembrano destinate proseguire. Il principe ereditario ha deluso il suo popolo, le potenze regionali e la comunità internazionale.
Solo un cambio di direzione politica potrebbe dare un futuro migliore all’Arabia saudita e migliorare la sua immagine oltre i confini del Regno
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