Stranieri non graditi
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Jeune Afrique, 28 ottobre 2010
Stranieri non graditi
di Abeer Allam
Sommandosi al diffuso sciovinismo, il contesto economico caratterizzato alla crescita della disoccupazione ha esacerbato i sentimenti xenofobi nei confronti dei quadri stranieri
Quando un sondaggio realizzato dalla banca HSBC ha rivelato che gli stranieri che lavorano in Arabia Saudita erano tra i più ricchi del mondo, molti abitanti del regno si sono molto arrabbiati. Editorialisti, lettori e internauti hanno cominciato a lamentarsi di questi stranieri che, secondo loro, estorcono il danaro dei sauditi. E a dipingere gli stranieri come dei fannulloni che vivono nel lusso mentre il paese è afflitto dalla disoccupazione.
“Non siamo sorpresi. Gli stranieri controllano tutto il commercio al dettaglio, le drogherie… Dovunque hanno la precedenza e beneficiano di facilitazioni. Improvvisamente i Sauditi non hanno alcuna speranza di trovare un lavoro”, scrive Rachid al-Fawazan, del giornale Riyad. “Nove milioni di stranieri dissanguano il paese. Non abbiamo nemmeno delle vere industrie, che almeno obbligherebbero gli investitori a formare i nostri giovani”. Anche se risulta difficile credere che un operaio asiatico che guadagna 150 dollari al mese possa pavoneggiarsi al comando di uno yacht, la frustrazione dei Sauditi è parzialmente giustificata.
Basso livello di istruzione
Il Regno è la prima potenza economica del mondo arabo, con un PIL di 375 miliardi di dollari, ma è anche il primo esportatore mondiale di oro nero. Tuttavia, nonostante la manna petrolifera, il tasso di disoccupazione ha toccato il 10,5% l’anno scorso. Il numero di sauditi senza lavoro è passato dai 416.000 del 2008 ai 449.000 del 2009, vale a dire una crescita dell’8%. Nello stesso tempo sono stati rilasciati 1,54 milioni di permessi di lavoro a stranieri che lavorano nel settore privato, vale a dire due volte di più che nel 2004. In un paese dove più dei 2/3 dei 18 milioni di abitanti ha meno di 30 anni, la creazione di posti di lavoro è funzionale alla tutela della sicurezza nazionale, giacché i giovani Sauditi sfaccendati e senza occupazione sono facili prede per i gruppi islamisti radicali.
Molti giovani non possono né sposarsi né comprasi una casa, cosa che accresce le tensioni sociali e la criminalità. La disoccupazione esacerba i sentimenti xenofobi, un numero crescente di stranieri sono vittime di borseggio o di aggressioni all’arma bianca. Cosa rara in un Regno dove sono proibiti gli assembramenti pubblici, duecento giovani diplomati disoccupati hanno manifestato nei pressi del ministero dell’Educazione, lo scorso agosto, per chiedere lavoro.
Privilegiata l’educazione religiosa
Se il ministro dell’Interno, il principe Nayef, ha detto chiaramente, agli inizi di settembre, che il governo non era in grado di dare lavoro a tutti, ha anche dato segni di impazienza di fronte alla propensione di c erte imprese ad assumere solo stranieri e chiesto al settore privato di dare la precedenza ai Sauditi. Ma non è così semplice. Il governo stesso trova difficoltà a creare dei lavori ben remunerati per dei giovani che hanno esigenze elevate, un livello di istruzione modesto e un’etica professionale spesso limitata. Bisogna dire che da molti decenni l’insegnamento ha privilegiato l’educazione religiosa a spese delle scienze e della matematica. Il clero ha frustrato gli sforzi del re per riformare l’educazione e modificare i programmi.
Ma il mercato del lavoro saudita è complesso. La legislazione del lavoro scoraggia l’assunzione di un cittadino, perché, a differenza degli stranieri, è molto difficile licenziare un Saudita. “Come è possibile creare dei posti di lavoro per i Sauditi nel privato se gli imprenditori non li vogliono?” si chiede John Sfakianakis, economista capo della Banca Saudi Fransi. Molti giovani appena diplomati pensano di aver diritto ad un posto direttivo in virtù della loro sola nazionalità e si lamentano che dei “padroni stranieri” diano loro gli ordini. Secondo Jarmo Kotilaine, economista capo della Banca d’investimento saudita NCB Capital, “il governo deve impegnarsi a modificare certi comportamenti “nazionalisti”, largamente incoraggiati durante il primo shock petrolifero, negli anni 1970”.