Le vie inesplorate del “socialismo con caratteristiche cinesi”
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E’ bene chiarire, a questo punto, un aspetto importante e di grande rilevanza politica e culturale per non ingenerare equivoci o fraintendimenti: i cinesi, pur avendo saputo modificare in profondità la struttura economica di un enorme paese senza abbandonare i riferimenti strategici e politici al socialismo e pur trovandosi ad agire in una realtà nazionale e internazionale – la globalizzazione e la violenta offensiva del capitalismo e dell’imperialismo dopo la disgregazione dell’URSS – assai complessa, non ambiscono ad emergere come “modello” per tutti. Questo è un aspetto importante anche per il futuro, soprattutto se letto alla luce di quelle che sono state le dinamiche interne al movimento operaio e comunista dello scorso secolo, a partire dal fallimento della rivoluzione nell’Occidente capitalistico e dal conseguente isolamento della rivoluzione d’Ottobre: la Cina potrebbe costituire – e in effetti costituisce – un esempio attrattivo per tanti paesi in via di sviluppo con governi che abbiano a cuore la crescita autonoma del proprio paese e il miglioramento delle condizioni di vita della propria gente, ma non per i paesi a capitalismo avanzato. Così come, d’altro canto, sarebbe ingiusto, abominevole e fuorviante continuare a interpretare e valutare l’esperienza cinese con la lente deformante della supposta superiorità dei sistemi democratici occidentali, in profonda crisi di identità, sempre più escludenti, autoritari e decadenti, non di rado ormai imposti al resto del mondo attraverso guerre di conquista e distruzioni. In Occidente i sistemi a democrazia liberale sono ormai ridotti a puro esercizio formale, essendo sganciati da ogni visione di riscatto sociale e politico delle masse popolari e rimanendo un fattore escludente rispetto ai nuovi cittadini stranieri, mentre in Cina potrebbero determinarsi le condizioni per coniugare democrazia e socialismo, esercizio delle libertà personali, diritti individuali e grande progetto collettivo e nazionale. Le riforme sono, su questo terreno, assai più lente e difficili rispetto alla sfera economica, ma il loro dispiegarsi inevitabile di fronte ad una società sempre più complessa e istruita e fattore determinante per la sopravvivenza della transizione. Se i cinesi non possono (e non intendono) essere un modello per noi, noi, altrettanto, non possiamo pretendere di essere il metro di paragone non solo per la Cina ma per il mondo intero.
La lotta alla corruzione all’interno del partito si inserisce precisamente all’interno di questo contesto: come potrebbe, il PCC, sopravvivere a lungo di fronte all’accelerazione delle riforme se dovessero prevalere al proprio interno – dal governo nazionale all’ultima e più sperduta delle municipalità - gli interessi individuali dei singoli funzionari o di gruppi di potere? L’esempio mostruoso del PCUS aleggia ancora nella memoria di tanti e sarebbe assolutamente sbagliato e inutile rimuoverlo. Il PCC si sta muovendo con molta più determinazione su questo terreno, dando un segnale incoraggiante di vitalità, soprattutto se consideriamo, di nuovo, quanto accaduto in URSS: l’istituzione che ha perseguito con più coerenza e autonomia la lotta contro la dilagante corruzione, arrivando ad inquisire la figlia di Breznev, - vale a dire il KGB allora diretto da Andropov – è stata la sola ad avere credito tra la gente e la sola sopravvissuta alle macerie.
Crescita economica, complessità sociale e partito unico
I numeri, le cifre della prepotente crescita economica cinese sono semplicemente da capogiro, tanto che il governo di Pechino è il solo a porsi il problema di come rallentare, o razionalizzare tale vorticoso sviluppo. Su questo terreno, la distanza dall’Unione Sovietica è abissale tanto sul piano quantitativo, quanto su quello qualitativo: nonostante un interessante e serrato dibattito sulle relazioni tra piano e mercato e sull’introduzione di elementi “capitalistici” all’interno dell’economia pianificata – dibattito iniziato all’epoca della NEP leniniana e ripreso con forza a partire dagli anni ’60 del secolo scorso - e nonostante l’introduzione di qualche più o meno timido tentativo di riforma, il sistema economico sovietico è rimasto di fatto impostato su quello che era il modello staliniano, fondamentale per un’intera fase storica (collettivizzazione dei rapporti agrari, mobilitazione delle forze produttive, sviluppo dell’industria pesante, rigido centralismo) ma non in grado di fornire risposte adeguate ai bisogni di una società che si faceva sempre più complessa in tempo di pace o relativa pace e stabilità. La lunga stagnazione degli anni ’70 – economica ma anche politica, sociale e culturale – ha colpito in profondità la credibilità dell’intero sistema agli occhi delle masse popolari e, soprattutto, delle giovani generazioni che sono cresciute – schematizzo brutalmente – cedendo al fascino di quelli che un’abile e articolata campagna di informazione presentava come i grandi “valori culturali” e le “libertà” del capitalismo occidentale. Falsi miti che sarebbero stati duramente pagati da un paese intero nel corso del decennio eltsiniano, quando la controrivoluzione ha mostrato il proprio vero volto. La stagione di profonde – pur se graduali – riforme inaugurata da Andropov è stata troppo breve per lasciare segni tangibili in un sistema ormai funzionante all’ombra di sé stesso e destinato, semplicemente, ad esaurirsi.
La Cina, oggi, sembra non correre il rischio di una deriva “sovietica”, anche se alcune delle contraddizioni determinate dal grande sviluppo quali e quantitativo dei fattori produttivi si impongono con un carattere sempre più “strutturale” – caratterizzante cioè una più o meno lunga fase - e non semplicemente congiunturale o facilmente reversibile. Non sono, cioè, solamente il rovescio della medaglia, un semplice prezzo da pagare, una subordinata o un corollario rispetto al processo di riforma, ma sono parte del processo stesso e, di conseguenza, dovrebbero rimanere al centro della riflessone del gruppo dirigente di Pechino.
Gli aspetti importanti e positivi della transizione cinese sono stati più volte ricordati ai tanti e prevenuti detrattori e oggetto di analisi e discussione anche all’interno della sinistra comunista non solo in Italia: tassi di crescita che consentono un’espansione sempre maggiore del mercato interno e il miglioramento complessivo delle condizioni di vita di milioni di esseri umani; la ricerca di investimenti stranieri non solamente finalizzata ad attirare capitali e valuta pregiata garantendo tassi di interesse vantaggiosi o facili guadagni (processo, questo, funzionale ai grandi centri del capitalismo finanziario internazionale a guida USA), ma volta a determinare un miglioramento qualitativo dei prodotti destinati non solamente all’export come anche a soddisfare le sempre maggiori esigenze del mercato interno; direzione collettiva del sistema economico e prevalenza del settore pubblico nella produzione della ricchezza, elemento che consente la possibilità di investire nuovamente gli utili nelle infrastrutture, nella ricerca, nella scuola o nell’università e nella formazione; utilizzo autonomo della valuta pregiata incamerata (la Cina è, nel bene e nel male, il primo finanziatore del debito USA e uno dei pochi paesi che non si lascia dettare da Washington la politica valutaria). Non sono stati, insomma, i cinesi a dettare le regole di funzionamento del capitalismo globale, ma dentro questo processo sono riusciti con intelligenza e pazienza a far valere i propri punti di forza, suscitando reazioni scomposte da parte dei paesi avanzati, che mai come ora vedono in bilico la propria superiorità e i propri privilegi.
Esistono anche, però, i costi della crescita e quelle che emergono come contraddizioni “strutturali”, i nodi che si troveranno ad affrontare i dirigenti cinesi già a partire dai prossimi anni: l’agricoltura cresce molto più lentamente dell’industria, elemento che allarga il divario tra città e campagna e finisce per innescare un colossale processo di migrazione interna dalle aree rurali alle periferie urbane, processo tipico di un paese in crescita ma assai difficile da governare sul piano della risposta sociale e culturale; cresce il divario tra le zone costiere e industriali – dove cioè si concentra la crescita – e il resto del paese; diritti del lavoro e forme di autorganizzazione dei lavoratori (nelle aziende pubbliche come anche in quelle private o straniere che sfruttano lavoratori cinesi); il sistema di protezione sociale (a partire dalla sanità: è bene ricordare che la Cina si interessa, ad esempio, all’esperienza di alcune regioni italiane in materia di costruzione di un sistema socio-sanitario pubblico) non è all’altezza e fatica a tenere il passo con le nuove esigenze poste dai bisogni di una società sempre più complessa; tale società, soprattutto nelle grandi città, comincia a porsi il problema non solo dei bisogni primari, ma anche della rappresentanza politica come della qualità della vita collettiva (l’aria che si respira, l’acqua che si beve o l’ambiente nel quale si vive) e individuale (tempo di vita e tempo libero, tecnologie ed elettrodomestici, mezzi di trasporto e molto altro ancora). Sbaglia, e di grosso, chi ritiene marginali questi ultimi aspetti: lo sviluppo economico è senza dubbio indispensabile, ma non sufficiente. Un recente sondaggio, ad esempio, rivela che i cittadini di Pechino sarebbero disposti anche a pagare una tassa per poter vivere in un ambiente migliore, meno inquinato e più confacente ai propri desideri. La soluzione non può essere certamente questa, ma l’episodio è sintomatico di una coscienza che cresce, di un bisogno – anche se non materiale – che si afferma come fenomeno di massa, collettivo. Come coniugare la crescita economica con la salvaguardia dell’ambiente nel senso più ampio del termine? Come garantire gli approvvigionamenti energetici, sempre più indispensabili, con le nuove energie rinnovabili, terreno sul quale la Cina potrebbe essere all’avanguardia anche rispetto all’Occidente, ridimensionando fortemente anche i disegni di aggressione USA e la “geopolitica del petrolio”? E’ possibile, su questo terreno, ipotizzare modelli di sviluppo differenti, che tengano conto del pessimo stato dell’ambiente nel suo complesso e del fatto che le risorse del pianeta sono finite, ma sarebbe curioso (e disonesto) chiederlo sempre agli altri, e soprattutto ai paesi in via di sviluppo. Come dire: i paesi a capitalismo avanzato hanno saccheggiato l’intero pianeta, mettendolo a ferro e fuoco per i profitti di pochi e il benessere di non molti milioni di esseri umani, mentre i restanti miliardi di individui, che per secoli hanno patito schiavitù e povertà, devono crescere con garbo e moderazione e rispettare i vincoli ambientali. Sarebbe questo un atteggiamento aristocratico, che si tradurrebbe inevitabilmente nella difesa dei privilegi dell’Occidente. Anche i cinesi, gli indiani, i brasiliani, i sudafricani hanno diritto ad utilizzare lavatrici, lavastoviglie, robot da cucina, automobili e telefonini. In questo contesto, il nodo ambientale si presenta in tutta la sua drammaticità di fronte a tutti: paradossalmente, i segnali più positivi vengono non a caso dai paesi in via di sviluppo, mentre i peggiori dagli Stati Uniti.
Una prima, importante risposta dei comunisti cinesi è stata l’introduzione del principio dello “sviluppo armonico”, concetto recuperato dal sistema filosofico confuciano che può trovare grandi riscontri anche nella nostra epoca. Molto dipenderà, ovviamente, da quali azioni concrete intraprenderà nei prossimi anni il governo cinese, ma l’introduzione di questo principio non può essere considerata né banale, né scontata. Forse, anzi probabilmente, non sarà sufficiente, ma a giudicarla tale non può essere chi fa ancora meno in questo senso.
La Cina nel mondo
Ovvero, la Cina e il contesto nel quale si trova e si troverà ad agire. Di fronte a un rapido deterioramento del quadro internazionale, il governo cinese ha scelto non senza ragione la via della prudenza, pur senza rinunciare a far sentire il proprio peso in determinate circostanze e senza rinunciare al disegno di costruire relazioni multipolari anche attraverso vaste alleanze regionali, impostando i propri rapporti economici – con riferimento particolare all’Africa e all’America Latina – sulla base dei principi di Bandung (non ingerenza e reciproco beneficio) e capovolgendo così letteralmente la logica brutale e militarista degli Stati Uniti e dei propri alleati. L’obiettivo, sacrosanto, di Pechino è quello di salvaguardare per quanto possibile la pace (pur se precaria e relativa), in modo da poter sviluppare la propria economia e le proprie relazioni sociali in un contesto di “distensione” e “convivenza pacifica”, per usare – non a caso – due termini di riferimento importanti per la politica estera sovietica a partire dagli anni ’60 del secolo scorso.
Il quesito è bruciante: fino a quando gli Stati Uniti consentiranno alla Cina di crescere e svilupparsi in un contesto più o meno pacifico e non decideranno di far valere (o minacciare pesantemente di far valere) la propria supremazia militare prima che sia troppo tardi? L’egemonia del PCC rimarrà salda anche di fronte a eventuali piani di disgregazione più o meno violenta del paese sponsorizzati da Washington e, con ogni probabilità, da Tokyo e Bruxelles? Più volte abbiamo ragionato di questo, ma la sensazione è che i tempi stringano e la minaccia di Bush di scatenare un terzo conflitto mondiale si colloca precisamente in questa direzione. Quando gli Stati Uniti si sono resi conto che la politica di “coesistenza pacifica” e “distensione” avrebbe finito per favorire l’URSS, o comunque dinamiche che avrebbero indebolito la propria supremazia sul piano globale, non hanno esitato a giocare la carta della corsa agli armamenti e della militarizzazione unilaterale dell’Europa e dello spazio, costringendo Mosca ad una frenetica rincorsa che ha finito per complicare ulteriormente la già difficile condizione economica sovietica. Ancora prima, al termine del secondo conflitto mondiale, gli USA non hanno esitato a sganciare la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki per sancire la propria superiorità sul piano internazionale, come primo atto di quel processo che sarebbe terminato con la Dottrina Truman e la Guerra Fredda.
Senza entrare nel merito dei singoli scenari (da Taiwan al Giappone, alla difficile situazione indiana, alla presenza delle forze Usa e Nato a ridosso dei propri confini, al braccio di ferro con gli USA in Africa), la Cina, insieme a diversi altri paesi (BRIC ma non solo), sta insidiando il primato economico e, di conseguenza, politico degli Stati Uniti e degli altri paesi a capitalismo avanzato. Questo processo potrebbe non affermarsi pacificamente e, di conseguenza, potrebbe avere pesanti ripercussioni sulla transizione al socialismo alla cinese.
Se i comunisti cinesi riusciranno a portare pace, sviluppo e prosperità al proprio popolo, potranno dire di aver vinto una scommessa con la storia lunga sicuramente più di un secolo. A dimostrazione che socialismo e diritti individuali, socialismo e democrazia non sono concetti opposti ma coniugabili. Un’esperienza, quella cinese, che ha tanti nodi irrisolti e scelte difficili davanti a sé, ma che non ha – giunta a questo punto - precedenti nella storia.