Il complotto contro il re di Giordania Abdullah
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Middle east eye, 14 aprile 2021 (trad.ossin)
Il complotto contro il re di Giordania Abdullah
David Hearst
Abdullah è entrato in rotta di collisione con Mohammed bin Salman e Benjamin Netanyahu dopo aver respinto il piano di Trump che intende deportare i Palestinesi della Cisgiordania in Giordania
Per una volta, e solo per una volta, il presidente statunitense Joe Biden ha fatto qualcosa di buono in Medio Oriente, e dico questo tenendo a mente tutti i disastri provocati in questa regione dagli USA.
Dando fede alle informazioni trasmesse dai Giordani sul coinvolgimento assoluto del principe ereditario Mohammed bin Salman in un complotto mirante a destabilizzare il regno di re Abdallah II, Biden lo ha bloccato. E ha fatto bene.
La sua dichiarazione di sostegno ad Abdallah ha avuto conseguenze immediate per l’altro grande congiurato, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Mentre Salman cercava di strangolare la Giordania bloccando l’erogazione di fondi in suo favore (stando a quel che dice l’ex ministro degli Affari Esteri Marwan Muasher, i Sauditi non concedono alcun aiuto diretto dal 2014), Netanyahu privava il regno dell’acqua di cui necessita.
E’ l’acqua che Israele preleva dal fiume Giordano. In base a vecchi accordi, Israele fornisce acqua alla Giordania e, quando quest’ultima ha bisogno di quantitativi maggiori, di solito Israele glieli accorda senza ritardo. Non quest’anno: Netanyahu gliela ha rifiutata, pare come rappresaglia per il fatto che il suo elicottero si è visto recentemente rifiutare lo spazio aereo giordano. Ha prontamente cambiato avviso dopo una telefonata del Segretario di Stato USA Antony Blinken al suo omologo Gabi Ashkenazi.
Se ci fosse stato ancora Donald Trump, è poco probabile che tutto questo sarebbe capitato.
Senza il manifesto appoggio di Washington, re Abdallah si troverebbe oggi in grande difficoltà, vittima di una doppia offensiva dell’Arabia Saudita e di Israele, con fermenti di malcontento popolare e il suo giovane fratellastro che conta i giorni per poterne prendere il posto.
Il problema con Abdallah
Ma perché bin Salman e Netanyahu erano tanto desiderosi di mettere in difficoltà un alleato come il re di Giordania ?
Abdallah, soldato di carriera, non è esattamente quella che potremmo definire una figura dell’opposizione nella regione. Non assomiglia affatto a Bachar al-Assad, a Recep Tayyip Erdoğan o all’ayatollah Ali Khamenei.
Abdallah è stato in prima linea nella contro-rivoluzione che ha contrastato le Primavere arabe. La Giordania è entrata nella coalizione contro lo Stato Islamico a guida saudita, ha mobilitato la sua aviazione contro gli Houthi in Yemen ed ha richiamato il suo ambasciatore in Iran quando l’ambasciatore saudita a Teheran e il console a Mashhad vennero espulsi e l’Arabia Saudita ruppe le relazioni diplomatiche.
Abdallah ha partecipato al summit informale su di uno yacht nel Mar Rosso, ha concordato di organizzare il contrasto all’influenza della Turchia e dell’Iran in Medio Oriente. Tutto ciò avveniva alla fine del 2015.
A gennaio 2016, Abdallah ha dichiarato ad alcuni rappresentanti del Congresso USA, nel corso di un incontro privato, che la Turchia esportava terroristi in Siria, dichiarazione che in seguito ha negato. Ma le sue osservazioni sono documentate in un verbale redatto dal ministero degli Affari esteri giordani, del quale MEE è entrato in possesso.
Le forze speciali giordane hanno addestrato parte delle truppe che il generale libico Khalifa Haftar ha poi impiegato nel suo fallito tentativo di conquistare Tripoli. Si trattava di un’operazione sponsorizzata dagli Emirati Arabi Uniti.
Abdallah ha anche condiviso coi Sauditi e gli Emirati Arabi Uniti un piano mirante a sostituire il presidente palestinese Mahmoud Abbas con Mohammed Dahlan, il successore preferito dagli Emirati e da Israele.
Allora perché questo sostenitore della causa dovrebbe adesso essere visto dai suoi alleati arabi, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti, come un problema da risolvere?
Mancanza di lealtà
La risposta ha molto a che vedere con la psicologia di bin Salman. Non gli basta un’adesione parziale al suo programma. Per lui, o sei dentro o sei contro.
Con Abdallah, la Giordania non è mai stata completamente dalla parte di bin Salman. Come mi ha confidato un ex ministro del governo giordano: « Sul piano politico, Mohammed bin Salman e suo padre non sono mai stati troppo amici degli Hascemiti. Il re Salman non ha con gli Hascemiti quell’affinità che altri suoi fratelli avrebbero potuto avere. Quindi, sul piano politico, non c’è né affinità, né empatia.
« (Riyad) pensa anche che la Giordania e gli altri dovrebbero essere “con noi o contro di noi’’. Ma noi non siamo completamente con loro sull’Iran. Non siamo completamente con loro sul Qatar. Non siamo stati completamente con loro sulla Siria. Abbiamo fatto quanto ci è stato possibile e non credo che avremmo potuto spingerci più oltre, ma a loro non è bastato ».
L’atteggiamento ondivago di Abdallah non era sufficiente per quello che si andava preparando: la normalizzazione delle relazioni dell’Arabia Saudita con Israele.
Anzi, proprio su tale versante, la Giordania avrebbe dovuto svolgere un ruolo di primo piano, che il re Abdallah non ha accettato. Se avesse accolto il progetto di Trump, il suo regno – un equilibrio precario di Giordani e Palestinesi – avrebbe rischiato l’insurrezione.
Inoltre non può tralasciarsi che Abdallah è un hascemita, la cui legittimità deriva in parte dal ruolo della Giordania di Guardiana della moschea di al-Aqsa e degli altri luoghi santi della città vecchia di Gerusalemme. Gli al-Saud rimettono anche questo in discussione.
L’importanza di Aqaba
Ma tanto bin Salman che Netanyahu considerano questo piano di Trump troppo importante per fermarlo. Personalizzo perché, sia in Arabia Saudita che in Israele, ci sono anche politici e persone della intelligence che si rendono conto che si tratta di un piano destinato, in breve tempo a destabilizzare la Giordania e a rendere vulnerabile la frontiera orientale di Israele.
Questo piano è stato preparato per anni ed è stato oggetto di incontri segreti tra il principe saudita e il leader israeliano. Punto chiave è costituito dall’unico accesso della Giordania al mar Rosso, il porto strategico di Aqaba.
Le città di Aqaba e di Ma’an facevano parte del regno di Hedjaz dal 1916 al 1925. Nel maggio 1925, Ibn Saoud cedette Aqaba e Ma’an, che diventarono parte integrante dell’emirato della Trangiordania sotto protettorato britannico.
Sono stati necessari altri 40 anni prima che i due paesi diventati indipendente si accordassero sulla linea di frontiera tra la Giordania e l’Arabia Saudita. La Giordania ha ottenuto 19 chilometri di costa sul golfo di Aqaba e 6 000 chilometri quadrati di entroterra, mentre all’Arabia saudita sono spettati 7 000 chilometri quadrati nell’entroterra.
Per l’ultimo arrivato, bin Salman, un principe sempre suscettibile quando si tratta della sua legittimità, rivendicare l’influenza saudita su Aqaba nell’ambito di un grande accordo commerciale con Israele sarebbe un punto di forza nella sua pretesa di ripristinare il dominio saudita sul suo entroterra.
E gli scambi commerciali con Israele sarebbero enormi. Bin Salman ha stanziato 500 miliardi di dollari per costruire la città di Neom, che dovrà situarsi a cavallo tra Arabia saudita, Giordania ed Egitto. Proprio all’ingresso del golfo di Aqaba, il porto giordano è fermamente nel mirino dei Sauditi.
E’ a questo punto che interviene Bassem Awadallah, l’ex capo della Corte reale di Giordania. Prima della sua rottura definitiva col re Abdallah, quando era ancora inviato giordano a Riyad, Awadallah aveva concepito il « Consiglio di coordinamento saudo-giordano », organismo che, nel calcolo dei responsabili giordani dell’epoca, avrebbe dovuto « sbloccare miliardi di dollari » per il regno hascemita, carente di liquidità.
Awadallah aveva promesso che il consiglio avrebbe investito miliardi di dollari sauditi nei principali settori dell’economia giordana, concentrandosi sulla zona economica speciale di Aqaba.
Awadallah era anche amico del principe ereditario di Abu Dabi, Mohammed bin Zayed, che aveva anch’egli dei progetti sulla Giordania. Intendeva assicurarsi che i Fratelli Musulmani e le forze dell’islam politico fossero definitivamente sradicate dal paese, cosa che Abdallah non ha inteso fare, per quanto non sia un loro sostenitore.
Sia chiaro, di tutti questi soldi non si è visto nemmeno il colore. Gli aiuti sauditi al regno hascemita si sono ridotti al lumicino e, stando ad una fonte bene informata, l’ex ministro degli esteri Marwan Muasher, i fondi sauditi sono quasi completamente cessati dal 2014.
Il prezzo che Abdallah avrebbe dovuto pagare per aprire il rubinetto delle finanze saudite era troppo elevato. In sostanza, accettare una subordinazione totale nei confronti di Riyad. Il piano avrebbe fatto della Giordania un satellite di Riyad, come lo è diventato il Bahreïn.
Anche Netanyahu aveva le sue mire sull’enorme traffico commerciale che sarebbe stato favorito dalla costruzione di Neom, una volta ufficialmente normalizzati i rapporti tra Arabia Saudita e Israele.
Fieri oppositori degli accordi di Oslo miranti a creare uno Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza, Netanyahu e la destra israeliana aspirano ad una annessione della zona C e della valle del Giordano, vale a dire del 60% della Cisgiordania. Questa nuova Nakba costringerebbe progressivamente i Palestinesi privi di cittadinanza israeliana ad emigrare in Giordania. Una cosa che potrebbe avvenire solo nell’ambito di un programma gestito dall’Arabia saudita, che prevedesse il libero spostamenti per lavoro dei lavoratori giordani in Arabia saudita. Allo stato attuale, le rimesse degli emigrati giordani in Arabia saudita assicurano la sopravvivenza economica del regno in stato di fallimento.
L’arrivo di fondi in Giordania, accompagnati da una favorita mobilità di una mano d’opera composta da Giordani e Palestinesi senza patria, metterebbero finalmente da parte le visioni grandiose di uno Stato palestinese e, contemporaneamente, di una soluzione a due Stati. Su questo punto, Netanyahu e bin Salman si trovano sulla stessa lunghezza d’onda: bisogna trattare i Palestinesi come mano d’opera mobile, e non come cittadini di uno Stato futuro.
Il figlio prediletto di Hussein
Il fatto che il principe Hamza sia considerato come l’uomo-chiave per impegnare la Giordania in questo piano strategico, conferma il carattere paradossale di questa strana storia.
Se sangue hascemite circola nelle vene di qualcuno, è sicuramente nelle sue. Era il figlio prediletto del re Hussein. In una lettera indirizzata nel 1999 a suo fratello, il principe Hassan, re Hussein scrive : « Hamza, che Dio gli accordi lunga vita, è stato oggetto di invidia fin da piccolo, perché mi era vicino e perché voleva conoscere tutte le questioni, grandi e piccole, e tutti i dettagli della storia di famiglia. Voleva sapere delle battaglie dei suoi fratelli e dei suoi connazionali. Mi hanno commosso la sua devozione verso il suo paese, la sua onestà e magnanimità, quando se ne restava al mio fianco senza muoversi, salvo quando lo costringevo, in pochissime occasioni, a svolgere qualche compito che gli affidavo ».
Abdallah ha tradito la promessa fatta a suo padre sul letto di morte, ed ha sostituito il suo fratellastro con suo figlio Hussein, nel ruolo di principe ereditario nel 2004.
Ma se la fierezza hascemita e la storia della Giordania scorrono nelle vene di Hamza, egli avrebbe dovuto subito capire quale prezzo dovrebbe pagare la Giordania accettando i miliardi di bin Salman e gli incoraggiamenti taciti di Netanyahu, proprio come fece suo padre.
Gli amici di Hamza negano con forza il loro coinvolgimento nel complotto e minimizzano i loro legami con Awadallah. Hamza ha riconosciuto una sola cosa: di essere estremamente preoccupato per lo stato in cui si trova la Giordania dopo anni di malgoverno. E in questo Hamza ha pienamente ragione.
Si sa benissimo che cosa si deve fare adesso. Re Abdallah dovrà alla fine capire che deve riformare integralmente il sistema politico giordano, organizzando elezioni libere ed eque, e rispettarne i risultati. E’ per lui l’unico modo di unire il paese dietro di sé.
E’ quel che fece re Hussein quando dovette fronteggiare la contestazione e le rivolte delle tribù giordane del sud; nel 1989, egli varò profonde riforme e organizzò le elezioni più libere della storia del regno.
Il governo che si formò a seguito di queste elezioni fu all’altezza della situazione e riuscì a tirare fuori il paese da uno dei momenti più difficili della storia della Giordania: l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein e la guerra del Golfo che ne seguì.
I veri cattivi
Da parte sua, Biden dovrebbe rendersi conto che consentire a bin Salman di farla franca dopo l’assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi comporta un prezzo da pagare.
Il principe ereditario saudita non ha tratto alcun insegnamento da questo episodio e continua ad agire esattamente allo stesso modo, addirittura con maggiore temerarietà e precipitazione, contro un vicino ed alleato arabo – un atteggiamento dalle conseguenze potenzialmente disastrose.
Il nuovo establishment della politica estera in carica a Washington dovrà liberarsi dall’idea che gli alleati degli Stati Uniti sono loro amici. Dovrà comprendere una volta per tutte che i cattivi da cartoon che si danno da fare per destabilizzare il Medio oriente non sono l’Iran e la Turchia.
Sono piuttosto i più fedeli alleati degli Stati Uniti a farlo, proprio lì dove le forze e le tecnologie militari statunitensi sono basate o – nel caso di Israele – inestricabilmente intrecciate: l’Arabia saudita, gli Emirati arabi uniti e Israele.
La Giordania, Stato cuscinetto per eccellenza, ne è un esempio da manuale.
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