espritcors@ire, 16 giugno 2014 (trad. ossin)


Iraq: di cosa Dah’ech (ISIS) è il nome?

René Naba


I. Gli obiettivi dell’ISIS


L’attacco di Dah’ech (ISIS) alla zona petrolifera del nord iracheno risponde a tre obiettivi: provvedersi di un tesoro di guerra nella prospettiva di un esaurimento del flusso finanziario wahhabita; acquisire dei pegni nei confronti della Turchia nella prospettiva di una eventuale chiusura delle frontiere di transito verso la Siria; pesare su un eventuale riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita, a cinque giorni dalla visita ufficiale del vice ministro iraniano degli affari esteri nel Regno saudita.


La presa di un bottino di 450 milioni di dollari dalle banche di Mosul, che fa di Dah’ech l’organizzazione terrorista più ricca al mondo, il rapimento di cittadini turchi in una zona dove vi sono cinque consolati turchi, il massacro di sodati sciiti, costituiscono altrettanti elementi capaci di dare credito ad una simile interpretazione dell’ondata jihadista in Iraq.


A mal partito in Siria, dove è in aperto conflitto con le altre formazioni jihadiste, Dah’ech ha inteso riposizionarsi sullo scacchiere regionale andando all’assalto del nord dell’Iraq, zona Curdofona certamente, ma petrolifera e sunnita. Inoltre luogo di forte presenza israeliana e di forze libanesi, le ex milizie cristiane di Samir Geagea e i falangisti di Amine Gemayel.


In coincidenza con la ripresa dei negoziati bilaterali tra Iraniani e Statunitensi, da una parte, tra Iraniani e Francesi, dall’altra, questo calcio al formicaio, a cinque giorni dal primo viaggio di un esponente del governo iraniano in Arabia Saudita dall’inizio della guerra in Siria, potrebbe essere, nel torbido gioco saudita, un messaggio subliminale rivolto a Teheran sulle proprie capacità di nocività regionale ed essere un primo passo verso la divisione del paese.



II. Lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante (ISIS), frutto di una copulazione ancillare tra jihadisti e ex baatisti


Frutto della copulazione ancillare tra Al Qaeda ed ex dirigenti baatisti tentati dall’ipotesi di uno schieramento settario, il comando dell’ISIS, il cui acronimo in arabo è Dah’ech, è esclusivamente iracheno.


Al nucleo originale, si sono poi aggiunti membri delle tribù sunnite irachene danneggiate dalla scomparsa di Saddam Hussein, oltre ad alcuni Fratelli Mussulmani iracheni e a qualche appartenente alla confraternita sufita dei Nachkabandisti. Una struttura eteroclita, suggellata da un’alleanza contro natura tra Izzat Ibrahim al Douri, ex presidente del Consiglio della Rivoluzione irachena e successore di Saddam Hussein al comando della guerriglia anti-USA in Iraq, e il suo ex carnefice, il principe saudita Bandar Ben Sultan, uno degli artefici della distruzione dell’Iraq e delle strutture del potere baatista in questo paese, con il proposito di ripristinare il primato sunnita a Bagdad, nell’ex capitale abbaside.


Una vicenda che rivela la fragilità delle convinzioni ideologiche dei leader arabi. Un insulto alla memoria dei tanti morti iracheni e del mondo arabo. Musa Kusa, l’ex capo dei servizi segreti libici, ha operato una identica svolta al servizio del principe saudita per la zona del Maghreb-Sahel.



III. I barbari alle porte delle antiche civiltà


Come dimostrato dall’attacco nel nord iracheno, la rapina, i bottini e i saccheggi di guerra hanno costituito il modus operandi privilegiato dell’ISIS. Lo Stato islamico è dotato di un comando iracheno che ha fatto esperienza in Iraq contro gli Statunitensi, mentre Jabhat al Nusra è una struttura panislamica sunnita, sotto la guida di Al Qaeda, particolarmente attiva in Siria.


Tre delle grandi capitali della conquista araba dei primi tempi dell’islam, sfuggono al controllo sunnita: Gerusalemme, sotto occupazione israeliana, Damasco, sotto controllo alauita e Bagdad, sotto controllo curdo-sciita. E’ diventato urgente per i wahhabiti, timorosi d’essere smascherati, di lavare questa onta provocata dalla loro stessa politica di allineamento incondizionato agli Stati Uniti, principale protettore di Israele – il nemico ufficiale del mondo arabo che i Palestinesi e i loro alleati nel mondo considerano come l’usurpatore della Palestina.


I barbari sono alle porte dei paesi di antica civiltà, alle porte di Bagdad e Aleppo, che hanno già saccheggiata. Gli Arabi, a causa della loro impotenza, e i paesi occidentali, per la loro spocchia, devono assumersi la responsabilità delle conseguenze delle loro incoerenze.


Favorire incondizionatamente la strumentalizzazione della religione mussulmana a fini strategici, per provocare l’implosione dell’Unione Sovietica (Guerra di Afghanistan, decennio 1980) e deviare la lotta araba dalla Palestina verso l’Asia.


Farsi garante della forma più retrograda e più repressiva dell’Islam, il wahhabismo, e sostenere incondizionatamente il delirio jihadista del loro caro piccolo, Bandar Ben Sultan, oltre ogni misura, senza la minima cautela, per assicurare la perennità dei reucci del Golfo, sulle macerie del mondo arabo.


Fare dell’Arabia Saudita, questo regno delle tenebre, l’alleato privilegiato della grande democrazia statunitense, e della Francia, la Patria dei diritti dell’uomo.


Strumentalizzare uomini dalla doppia cittadinanza a una funzione suppletiva ad una politica di predazione economica del mondo arabo, che ha provocato simili mostruosità che marchiano la patologia atlantista e contemporaneamente quella petro-monarchica.


Gli appelli alla guerra santa lanciati tanto dall’Ayatollah Ali Sistani (sciita) che dal Muftì della NATO, il telepredicatore Yussef Al Qaradawi serviranno solo ad accrescere il massacro, in una guerra dove gli Arabi di ammazzeranno tra loro senza la minima perdita da parte, né occidentale, né iraniana, né israeliana.


La Siria del decennio 2010 ha svolto una funzione analoga a quella dell’Afghanistan nel decennio 1980. Una guerra il cui obiettivo è stato di deviare la lotta per la liberazione della Palestina e spostarla a 5000 chilometri dal campo di battaglia. Nella pura tradizione della guerra fredda sovietico-statunitense. Tre anni di guerra in Siria hanno permesso a Israele di portare a termine la fagocitazione della totalità della Palestina.


Uno sfogatoio assoluto dello jihadismo erratico che le petro-monarchie preferiscono sacrificare sul teatro delle operazioni all’estero piuttosto che reprimere sul suolo nazionale, con le inevitabili rappresaglie conseguenti. Un diversivo alla lotta per la liberazione della Palestina, la “grande dimenticata” della primavera araba.


Contro-corrente rispetto ai flussi migratori della mondializzazione, la guerra di Siria è stata la prima operazione di delocalizzazione sud-nord di una “rivoluzione”, nella misura in cui i suoi leader sono di nazionalità occidentale, salariati della ex amministrazione coloniale. Degli ausiliari, ebbri di notorietà e di vanità.


L’insorgenza dell’ISIS appare in un tale contesto come un colpo di intimazione agli Arabi, perché cessino di essere delle marionette disarticolate, complici della loro sudditanza e della loro cupidigia.

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