I metodi polizieschi marocchini in due atti
- Dettagli
- Visite: 3232
I metodi polizieschi marocchini in due atti
di Omar Radi (*)
E’ la terza settimana che sul “Movimento del 20 febbraio” si abbattono i fulmini repressivi del regime politico marocchino, attraverso i suoi apparati repressivi e ideologici, che sono impegnati a liquidare ogni aspirazione delle forze vive del paese, soprattutto dei giovani, all’emancipazione, alla libertà e ad una democrazia reale.
A Rabat, dove si erano registrati più di un centinaio di feriti nel corso delle manifestazioni brutalmente represse del 15 e 22 maggio scorso, il movimento e le organizzazioni che lo sostengono hanno deciso di organizzare, questo sabato 28 maggio, un sit-in davanti al Parlamento per condannare la repressione poliziesca contro i suoi militanti. Dopo aver vietato il sit-in pacifico, le forze di sicurezza sono intervenute per disperdere i manifestanti con la forza. In due minuti la piazza davanti al Parlamento si è svuotata. Vi sono poi stati degli inseguimenti durati quasi un’ora. Tutti i caffè e i negozi del quartiere intorno al Parlamento sono stati perquisiti dalla polizia, che ha avviato una caccia alle streghe in ogni strada alla ricerca dei giovani del 20 febbraio.
Atto I:
Dopo l’intervento della polizia, i manifestanti si sono dispersi, ciascuno è tornato alle proprie occupazioni. Alle 16.00 nessuno aveva più intenzione di tornare a manifestare. In una strada dietro l’hotel Balima, Nizar Bennamate, un giovane del 20 febbraio ed io, pensavamo che le retate poliziesche fossero terminate. Proprio in quel momento siamo stati sorpresi da una quarantina di agenti BLIR (Brigate leggere di intervento rapido) sbucati dalle due estremità della strada. Abbiamo cercato di nasconderci in una drogheria. Ma siamo stati acciuffati da una decina di agenti, venuti a prenderci manu militari nella drogheria. In strada un fotografo della polizia si è avvicinato e ci ha fotografato da diverse angolature. Poi ci hanno colpiti coi manganelli, con calci e pugni, prima di lasciarci andare, non senza le consuete formule di umiliazione e provocazione.
Si tratta di una scena corrente in Marocco, i movimenti sociali a Rabat ci hanno fatto l’abitudine. Non è lo stesso per la scena seguente, che non è consueta e ricorda i metodi impiegati dalla polizia politica durante gli anni di piombo, che la generazione attuale conosce solo nei romanzi della letteratura carceraria.
Atto II:
Alle 20.00 non c’erano più poliziotti nella piazza, tutto sembrava calmo. Io aspettavo la mia compagna in un caffè, per rientrare insieme a casa, dove avevamo organizzato una piccola festa tra amici. Sulla via di casa, due poliziotti in uniforme (elementi del CMI – Compagnia mobile di intervento – muniti di giubbotto anti-proiettili) ci hanno seguiti fin da quando siamo usciti dal caffè. Mi hanno fermato, chiedendomi la carta d’identità. Io ho domandato con insistenza la ragione del mio arresto, “lo saprai tra qualche minuto”, mi hanno risposto. Ci hanno condotto, me e la mia compagna, in una strada deserta. Dopo un’attesa di dieci minuti è arrivato il loro capo. E’ giunto mentre io parlavo al telefono con un membro del Bureau Central dell’Associazione marocchina per i diritti umani (AMDH). Mi ha ordinato, accompagnando le parole con un pugno al torace, di chiudere. Il “capo”, come lo chiamavano i due CMI, era vestito con un’uniforme marrone ed era molto più muscoloso della maggior parte degli altri poliziotti. Tutti coloro a cui ho chiesto poi informazioni su questo corpo di polizia in uniforme marrone non hanno saputo dirmi niente. La mia compagna era terrorizzata da questa violenza fisica e verbale, io ho tentato di mantenere la calma e di non reagire alle loro provocazioni.
“Ti abbiamo visto nella manifestazione di poco fa e ti abbiamo fotografato”, mi ha detto. Poi ha aggiunto, stringendomi la gola: “La prossima volta che ti vedo con i giovani del 20 febbraio, in un caffè o per strada, la prossima volta che parteciperai alle loro riunioni, la prossima volta che manifesterai, io ti spezzo la schiena, mi occuperò io stesso di ucciderti e interrarti. Ricordati bene di me”. Io mi chiedo come potrei dimenticarmi di lui.
Dopo i colpi di manganello, l’umiliazione, la provocazione, la polizia marocchina sembra aver fatto un salto di qualità nell’uso della violenza contro i militanti. Il 22 maggio scorso aveva realizzato dei rastrellamenti notturni a Casablanca. Il 15 maggio, durante le operazioni di ordine pubblico, i capi della polizia ordinavano agli agenti: “Spezzagli le braccia, spezzagli le gambe”, indicando i militanti più attivi del Movimento 20 febbraio. Le intimidazioni si susseguono nei quartieri e nella strada, dove la polizia se la prende con tutti quelli che hanno partecipato a qualche manifestazione e hanno avuto la sfortuna di essere fotografati.
Come cittadino marocchino, ritengo che le forze di polizia agiscano nella più assoluta illegalità e che, attraverso atti come quelli qui denunciati, esse stiano spingendo il mio paese nel terrore degli anni di piombo. Di fronte a movimenti che esercitano la protesta pacifica, il solo a ricorrere alla violenza è lo Stato marocchino.
Rivendicando il mio diritto di espressione e alla protesta pacifica, reclamo una inchiesta nei confronti di quell’agente di polizia che mi ha esplicitamente minacciato di morte, minaccia che io prendo molto sul serio, e considero conseguentemente il ministro dell’interno, Taieb Cherkaoui, quale unico responsabile di quello che potrebbe accadermi in futuro da parte di qualsiasi forza di polizia.
Rabat, sabato 28 maggio 2011
Omar Radi
(*) giovane del Movimento 20 febbraio, giornalista