Tel Quel 11-17 luglio 2009

Il Capo assoluto

di Ahmed R. Benchemsi


Al debutto Mohammed VI pretendeva di essere democratico. 10 anni più tardi è diventato il “re di tutto e di dovunque”. Ed, in assenza di opposizione significativa, il suo potere è più assoluto che mai.


“Noi resteremo fedeli alla strada segnata da Hassan II (e) attaccati alla Costituzione marocchina che stabilisce che il Re, Amir Al Mouminine (la cui persona è inviolabile e sacra), è il rappresentante supremo della nazione, il simbolo della sua unità, il garante della conservazione e della continuità dello Stato”. E’ stato nel suo discorso del 20 agosto 1999, vale a dire meno di un mese dopo essere stato incoronato, che Mohammed VI ha pronunciato questa frase inquietante. Insomma…  “inquietante” per quelli che avevano conservato sufficiente lucidità malgrado lo stato di grazia degli inizi, vale a dire una infima minoranza di Marocchini. Questi ultimi in ogni caso hanno subito notato che una tale uscita aveva qualcosa di sconcertante: affermando la sua fedeltà alla strada segnata da Hassan II ed il suo “attaccamento” al famoso articolo 19 della Costituzione (nel passaggio del suo discorso non ha fatto altro che citarne il contenuto), Mohammed VI rendeva in qualche modo evidente il suo punto di vista: “Mio padre mi ha trasmesso il potere assoluto, e io intendo conservarlo”. Il popolo, ancora esaltato dalla “sidnamania” del debutto, non vi ha trovato niente da ridire. Del resto il giovane Re non si dichiarava democratico in ogni occasione?
Due anni più tardi Mohammed VI, più sicuro di sé, dichiarava a Le Figaro che i Marocchini volevano “una monarchia democratica ed esecutiva”. Con l’aiuto della sacralità della parola reale, questa strana formula è presto diventata uno slogan ufficiale.  E tuttavia essa reca in sé una contraddizione fondamentale: se la monarchia è “esecutiva”, a che serve il governo uscito dalle urne? Dove diavolo è la democrazia in questo?
Sono passati ancora più di sei anni e, questa volta, Mohammed VI, nel suo discorso del trono del 2007, ha dichiarato con franchezza: “Il regime che noi vogliamo è quello di una monarchia che agisce  e che non potrebbe essere confinata in un concetto o in poteri distinti, esecutivo, legislativo  o giudiziario”. Finita la “monarchia esecutiva”, ecco che viene la “monarchia totale”, il cui potere d’azione non saprebbe limitarsi a … niente di speciale. In altri termini, Mohammed VI è il re di tutto e di dappertutto  - e lo rivendica senza falsi pudori. Tanto peggio se la parola “democrazia”,  che fa ancora parte del lessico ufficiale, risulta in queste condizioni piuttosto incongrua...
 E’ vero che tutti questi non sono altro che discorsi, e che la Costituzione non è mai stata altro che un pezzo di carta (peraltro illegittima, perché Hassan II l’ha fatta “votare” al 99% dei suffragi, con l’aiuto di brogli spudorati). Dopo tutto, le parole e gli scritti non hanno mai impedito ai popoli oppressi di ribellarsi.  Solo che i Marocchini si sentono forse oppressi dal capo locale, ma in nessun caso dalla monarchia che, ai loro occhi, resta un’astrazione con l’aureola della sacralità.
Con Mohammed VI non si è registrata nessuna seria ribellione, né la minima velleità di rivolta popolare. Tanto meglio, si tratta di una acquisizione indiscutibile del nuovo regno… a meno che non sia la più importante eredità del regno precedente: un popolo conquistato, soggiogato, ormai incapace di esprimere la minima significativa opposizione. Quanto alle elite politiche, è un’altra questione. Dopo 38 anni di va e vieni “tra cooptazione e prigione”, come diceva il padre della politologia marocchina Rémy Leveau, chiedono solo una cosa: che il Palazzo si degni di lasciar loro qualche briciola…
Si, certamente il nuovo Re ha dovuto vedersela con qualche contestatore: diversi islamisti radicali, un gruppo di ex prigionieri politici dalle ferite ancora aperte, ed un pugno di giovani giornalisti dalla lingua troppo lunga. Ma nell’insieme, neutralizzare queste ultime sacche di resistenza è stato, per Mohammed VI,  come fare una passeggiata.  Quanto alla classe politica, il nuovo Re non ha neppure avuto il bisogno di sottometterla: lo era già al momento del suo avvento e, dopo, non ha smesso di compiacersi della sua obbedienza servile. Quando si osservano i comportamenti di un Abbas El Fassi o di un Abdelouahed, c’è da chiedersi se qualcuno di essi non provi una qualche forma di piacere masochista…
Tutto ciò non ha impedito al Marocco di fare dei progressi, su impulso di Mohammed VI, talvolta sul piano sociale, più spesso al livello di infrastrutture. Ma sul piano politico non vi sono dubbi: l’assolutismo reale si è rafforzato sempre di più.


Culto della personalità a ruota libera
Bisogna dire che Mohammed VI, dal momento della sua salita al trono, ha fatto ciò che tutti i leader assoluti devono cominciare a fare: assicurarsi che le masse lo sostengano. Le sue numerose visite in giro per il Marocco nei primi mesi di regno, lo hanno del tutto rassicurato su questo punto: il popolo nutre per il giovane Re una idolatria sincera e prorompente, che confina qualche volta con l’isteria.
Dal “Re dei poveri”, il popolo dei poveri si aspetta tutto. E sì che il giovane monarca aveva precisato, fin dai primi discorsi, che non disponeva di una “bacchetta magica”.  Fatica sprecata. La casa reale marocchina ha sempre utilizzato la “hiba”, vale a dire un’aura sovrannaturale attribuita ai sultani del Marocco dalla notte dei tempi.
Naturalmente la “sacralità” non funziona se non è accompagnata da un decoro adeguato. Durante il suo regno, Hassan II aveva elevato lo spettacolo della sua grandezza a vera e propria opera d’arte. Agli inizi del regno di Mohammed VI, “questo Re modesto che intende ridurre il protocollo”,  si pensava che il culto della personalità fosse un fenomeno del passato o che, almeno, fosse destinato a ridimensionarsi. Dopo qualche mese di incertezza, esso si è invece rafforzato.  Lo stesso Re non ha dichiarato infatti nel corso di una intervista del 2004: “Il protocollo reale è e resterà il protocollo reale, è una preziosa eredità del passato ed io voglio che il suo rigore e tutte le sue regole siano mantenute”? Così ad ogni festa del trono, i Marocchini assistono ancora, soggiogati, a quello che il grande storico Abdellah Laroui ha chiamato la “coreografia” della bey’a: il sovrano tutto di bianco vestito che fende a cavallo una folla di adoratori che si piegano in cadenza al suo passaggio, mentre i servitori del Palazzo, vestiti con la chéchia rossa degli schiavi di un tempo, gridano loro i messaggi di benedizione del padrone… Grandioso! Avrete già notato che tra le migliaia di persone che assistono ogni anno al “rinnovo dell’obbedienza”, il Re, a cavallo  durante tutta la cerimonia di un purosangue, è il solo a non toccare  terra? Ovvio, egli è il “rappresentante di Dio sulla terra” (khalifat Allah fi ardih), è scritto nero su bianco nel testo della bey’a! Andate a spiegare, dopo tutto questo, che non possiede bacchette magiche…
Il baciamano protocollare al Re non è mai sparito. E’ vero che , contrariamente a quanto faceva il padre, Mohammed VI non si formalizza quando, di tempo in tempo, qualche audace osa stringergli la mano.     Ma quanto meno egli la offre al bacio senza fare niente, e quasi tutti le si gettano sopra con avidità.  Innocente “tradizione secolare”? Solo gli ingenui e i complici ci credono. Il baciamano era e resta il simbolo estremo di sottomissione, pietra miliare dell’assolutismo reale in Marocco. Mohammed VI avrebbe potuto abolirlo per decreto, come ha fatto il Re Abdellah d’Arabia. Ha scelto di non farlo, e questa non è stata una scelta senza significato…
Per il resto, la propaganda reale lavora sempre a pieno regime sui media ufficiali.  Anche se totalmente privo di alcun interesse, il più modesto telegramma ufficiale ricevuto o inviato dal Re è sempre letto integralmente al Telegiornale del primo canale in prima serata – per ordine del protocollo reale, precisiamolo. Quanto ai viaggi del Re nelle province, sono sempre accompagnati da un autentico fervore popolare – compiacentemente alimentato, è vero, dagli agenti del Ministero dell’Interno che trasportano il popolino lungo il percorso reale, distribuendo bandiere stendardi e fotografie di Sua Maestà. E ad ogni festa nazionale le spese per l’installazione di ritratti giganti del Re, archi e corone di cartapesta, ecc., costituiscono un must per tutti gli uffici comunali del regno, anche i più piccoli e lontani.
Con tutto questo, evidentemente la gente si aspetta tutto dal Re, in una irrazionalità totale e generale. Sembrava fosse stato solo un effetto dei primi mesi di regno di Mohammed VI… ma no! Più si va avanti, più questo sentimento si sviluppa. E’ frequente oggi incrociare per strada gruppi di persone che brandiscono ritratti del sovrano e gridano slogan a sua gloria, mentre manifestano per reclamare il suo intervento su questioni di minimo respiro, come l’apertura di un hammam in un quartiere di abitazioni o la minaccia di sfratto degli inquilini di un palazzo degradato. Abbiamo visto addirittura in un souk dei venditori di frutta chiedere l’intervento reale contro… i privilegi accordati ai loro nemici giurati, i venditori di legumi!!
In breve, l’unanimismo intorno alla persona del Re è in Marocco una realtà indiscutibile che è sotto gli occhi anche dei più scettici. Si può sempre spiegare con l’assenza di coscienza politica e col martellamento propagandistico che continua da mezzo secolo… Ma questa interpretazione è patrimonio di un pugno di intellettuali, senza alcuna presa sulla percezione delle masse. E, per la monarchia, contano solo le masse. Le inaugurazioni reali quasi quotidiane (e debitamente riprese in televisione) dei progetti sociali, ai quattro angoli del Regno, obbediscono più ad una preoccupazione di marketing politico che ad un piano rigorosamente messo a punto di lotta alla povertà.  E’ evidente che il Re, per quanto possa essere sincero il suo amore per i poveri, non può fare tutto da solo… Per contro egli è il solo a dover essere venerato come un semidio da 30 milioni di persone.
Naturalmente ogni regola ha le sue eccezioni che la confermano. Regolarmente, per esempio, i militanti di quello che resta dell’estrema sinistra fanno manifestazioni contro l’assolutismo reale. Ma nonostante il Re potrebbe ben permettersi di lasciare questi rarissimi refuznik esprimersi liberamente, senza grandi conseguenze dato il loro isolamento…  la legge che vieta l’”attentato al sacro” è regolarmente attivata contro di loro. Per decisione personale di Mohammed VI? E’poco probabile. Ma l’assolutismo è una dinamica globale. Una volta fatta propria dai corpi separati (soprattutto la giustizia), funziona in maniera autonoma.  Così, per avere partecipato ad una manifestazione nel corso della quale uno degli slogan scanditi era: “Dove vanno a finire i soldi del popolo?/ Nei jet ski e nelle feste”, un vecchio militante di sinistra ultra settantenne, Mohamed Bougrine, è stato condannato a 3 anni di prigione. E’ stato necessario che i giornalisti gli appioppassero  un soprannome azzeccato (“il prigioniero dei 3 re” – dal momento che era stato arrestato anche sotto Mohammed V e Hassan II)  perché Bougrine diventasse una celebrità mondiale e Mohammed VI lo graziasse dopo 8 mesi di prigione.

Libertà di stampa,  sempre in discussione
I giornalisti… ecco i guastafeste per eccellenza della nuova era. Insomma non tutti i giornalisti, soprattutto i più giovani – che non hanno vissuto i sequestri e i pestaggi che al tempo di Hassan II sostituivano i processi. E’ vero che i codice della stampa in vigore allora non era più restrittivo di quello di oggi. In effetti vi è stato un effetto di cambio generazionale, e i nuovi giornalisti marocchini si sono mostrati audaci, superando senza complessi tutte le “linee rosse” di una volta: il Sahara, la religione, ma soprattutto l’assolutismo del re, i suoi affari di famiglia e di cerchia, la sua fenomenale ricchezza ecc. A questo proposito, l’atteggiamento del Palazzo è stato piuttosto ambivalente. Di tempo in tempo, leggi liberticide permettendo, i giornalisti più insolenti sono stati severamente puniti. Ma per la maggioranza del tempo, il Palazzo lascia fare. Bisogna riconoscere che il Re è un “buon giocatore” e riconoscere questa sua disposizione di spirito, senza dubbio rivelatrice dell’accettazione del principio di libertà di espressione. Ma l’elasticità reale risulta probabilmente secondo altri parametri più pragmatica.
Prima di tutto, con internet e la mondializzazione, ogni processo intentato ad un giornalista marocchino ha fatto il giro del mondo – e il sistema del makhzen detesta soprattutto vedere la sua immagine internazionale  appannata.  Altra spiegazione del grande margine di manovra lasciato alla stampa marocchina: il numero di lettori marocchini è assolutamente trascurabile. Le cifre ufficiali parlano di non più di 350.000 acquirenti di giornali al giorno – vale a dire appena poco più dell’1% dei marocchini… Dunque va bene, si può lasciare la stampa esprimersi liberamente e capitalizzare l’immagine democratica che questo fatto rinvia al Marocco. E’ rivelatore il fatto che le radio private, autorizzate sotto Mohammed VI, non si permettano il decimo dell’audacia della stampa scritta.  L’autocensura avrà qualche ragione, ma certo v’è un rapporto col controllo stretto esercitato dalla loro autorità di tutela, l’Alta autorità della comunicazione audiovisiva, che “monitorizza” ogni secondo di diffusione, qualsiasi ne sia il contenuto. Quanto a quelli che vorrebbero aprire canali televisivi privati, la HACA pone mille ed una barriera sul loro cammino: capitolati di oneri estremamente codificati (specialmente sul contenuto dei programmi), necessità di capitalizzare molto pesantemente ogni programma, tutte cose che mettono i nuovi canali solo alla portata di un pugno di miliardari preoccupati di difendere i loro interessi, dunque poco inclini a stuzzicare il Potere… All’inizio, queste restrizioni draconiane erano pensate come un freno alla nascita di radio o televisioni islamiste. Non troppo democratico, ma  con qualche giustificazione… Ma il risultato finale è stato lo stesso per tutti: va bene che i giornali predichino la democrazia (o anche l’islamismo) ad un pugno di lettori già convinti, ma non se ne parla proprio di contaminare il popolino, l’estremo sostegno del trono, con idee sovversive!

Diritti dell’uomo: a saldo…
Altra gatta da pelare del regime, che si è manifestata fin dal debutto del nuovo regno: gli ex militanti di estrema sinistra, che in stragrande maggioranza hanno patito la prigione e la tortura sotto Hassan II. Con l’avvento di Mohammed VI, tutti costoro si erano molto ricaricati e intendevano ben sfruttare i nuovi margini di libertà accordati dal sovrano per ottenere riparazione… e, già che c’erano, strappare allo Stato delle riforme democratiche.  Su questo terreno Mohammed VI voleva davvero andare avanti. Ma al suo ritmo ed alle sue condizioni, in questo trovandosi in disaccordo coi suoi interlocutori. L’entourage reale (soprattutto Fouad Ali El Himma, che era al governo) ha manovrato, lusingato, giocato d’astuzia… ha profuso anche molte promesse, che qualche volta ha poi rinnegato.
Dopo 10 anni di regno di Mohammed VI, il bilancio dei diritti dell’uomo corrisponde perfettamente alla parabola del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. E’ nettamente meglio del bicchiere totalmente vuoto di Hassan II, ma…
Sotto Mohammed VI vi sono stati indubbi risultati positivi: quasi 10.000 vittime degli “anni di piombo” sono state indennizzate, migliaia di sepolture clandestine identificate,  diversi ossari dissotterrati ed altrettanti libri di testimonianze pubblicati – e soprattutto, momento catartico e storico, la televisione pubblica ha trasmesso (anche se in leggera differita) diverse testimonianze dettagliate di Marocchini che avevano subito la violenza e l’arbitrio del regime Hassaniano.
Ma non mancano rimpianti e occasioni perdute: non è stato citato alcun nome di torturatori, nessun responsabile è stato messo sotto inchiesta, nessun processo è stato celebrato, nessun centro di detenzione trasformato, come promesso, in “luogo della memoria”(il sinistro bagno penale di Tazmamart è stato peraltro raso al suolo!) e, must del must, Hassan II, principale responsabile delle atrocità commesse sotto il suo regno, è uscito pulito dal processo.
Nella storiografia ufficiale del nuovo regime, la data del 6 gennaio 2006 segna il “saldo degli anni di piombo”. E’ stato in quel giorno infatti che Mohammed VI ha ricevuto, nel Palazzo di Rabat, tutta la galassia degli ex militanti dell’estrema sinistra per annunciare loro in un discorso (trasmesso per televisione) che oramai il dossier delle violazioni dei diritti dell’uomo era definitivamente chiuso. Ancora la vigilia, Driss Benzekri, promotore  del processo, che aveva trascorso sei anni a negoziare tenacemente con i luogotenenti del monarca, aveva ricevuto “assicurazione che il re avrebbe presentato le scuse di Stato alle vittime degli anni di piombo”.  Ma il giorno dopo, nessuna traccia di scuse nel discorso reale. Meglio ( o peggio): appena dopo aver decretato che la pagina delle violazioni dei diritti dell’uomo era ufficialmente stata girata, Mohammed VI ha dichiarato: ”Vorrei vedere questa felice e confortante novella, per intercessione degli angeli del Misericordioso, giungere all’anima immacolata del mio padre venerato”.     La televisione non lo ha mostrato, ma a questo punto la maggioranza degli invitati reali ha fatto una smorfia di frustrazione.
Ma tanto peggio, l’importante non era che l’Istance équité et réconciliation, creata e sostenuta dal re, avesse formulato una serie di raccomandazioni per evitare che si ripetessero le atrocità del passato? Salvo che le coraggiose raccomandazioni dello IER (trasparenza e controllo parlamentare dei servizi segreti, abolizione delle istruzioni orali, separazione dei poteri per una reale indipendenza della giustizia, ecc) sono state dimenticate con la morte di Benzekri, sopraggiunta un anno dopo per un cancro. Quanto alle violenze poliziesche, esse sono riprese alla grande dal 2002, con grande scorno dello IER, ancora impegnato nella rendicontazione del passivo hassaniano.
Certo i nuovi torturati sono principalmente islamisti, rastrellati in grandi quantità nell’ambito della guerra al terrorismo… ma i diritti umani sono gli stessi per tutti. Qualche giorno prima della sua scomparsa, Benezekri era emerso brevemente dal coma per esortare i suoi compagni a “battersi, altrimenti non otterranno mai niente”. Ahimé, mentre nonostante tutto restano ancora molti casi da accertare, il suo successore, Ahmed Herzenni, non ha esitato qualche mese più tardi a dichiarare a TelQuel: “Il passato non mi interessa”!Quanto ai pilastri dello IER, molti hanno finito, per convinzione o per opportunismo, a unirsi a Fouad Ali El Himma per formare il primo “partito realista” della nuova era. Senza dubbio, la pagina è stata girata.

L’hara-kiri della classe politica

Per quanto riguarda i partiti politici, questo è stato senza dubbio per Mohammed VI il contenzioso più facile per mantenere intatto l’assolutismo ereditato dal padre.  Infatti non ha dovuto nemmeno combattere, tanto i politici sopravvissuti a Hassan II erano privi di vitalità, lobotomizzati, privi di ogni velleità contestatrice. Dopo appena qualche settimana dalla successione dinastica, nel 1999, Mohamed Sassi, focoso segretario generale della sezione giovanile del partito socialista, aveva firmato un editoriale che chiedeva una rinegoziazione dei poteri del re. Era in effetti il momento più opportuno per farlo: gli islamisti avevano già cominciato a mostrare i denti, l’esercito era più silenzioso (e inquietante) che mai… In un’ottica di rapporti di forza (la sola che conta in politica, soprattutto in Marocco), il momento era stato scelto con giudizio per spingere la monarchia, nel suo proprio interesse, alle scelte democratiche. Incredibilmente è stato Abderrahman Youssoufi, Primo ministro e leader dei socialisti, che si è incaricato di redarguire l’impetuoso Sassi, al punto di spingerlo fuori del partito qualche mese più tardi!
Perché la sinistra non ha sfruttato l’opportunità storica del cambiamento del regno per rinegoziare una condivisione democratica dei poteri col Palazzo? La risposta si situa da qualche parte tra la psicologia di Youssoufi (ombroso, inarcato sulla sua legittimità storica e chiuso ad ogni critica) e l’opportunismo dei luoi luogotenenti (che, tutti sessantenni, avevano atteso il loro momento per troppo tempo per lasciarsi prendere il posto dai “giovani turchi” della 25° ora). Il brutale siluramento di Driss Basri, l’organizzatore di tutti gli imbrogli elettorali del passato, avrebbe dovuto peraltro lasciare spazio ai politici emersi dal movimento nazionale, per lungo tempo schiacciati da Hassan II. E’ successo invece il contrario. Basri certamente era il loro nemico, ma anche il loro punto di riferimento,  il capro espiatorio sul quale avevano riversato, nel corso degli anni, le loro frustrazioni nei confronti della monarchia. Andato via Basri, si sono ritrovati  direttamente a confronto col Palazzo. Usura del potere o paura panica di perdere i vantaggi raccolti così tardi, essi si sono spontaneamente prosternati davanti al nuovo re. Il quale, ovviamente, non li ha rispettati per lungo tempo.
Fin dalla fine del suo primo anno di regno, Mohammed VI ha cominciato a fustigare pubblicamente “l’egoismo” ed il “populismo” di una classe politica dalla quale ha preteso che “si mettesse al passo” e che “rinnovasse le strutture”! Il re non aveva certamente torto su alcuni punti, ma ha un po’ troppo presto dimenticato che, se la classe politica si trovava in questo stato lamentevole, era prima e sopra di tutto a causa di suo padre. Come erede al trono, egli avrebbe potuto sentirsi obbligato ad aiutare i partiti a “mettersi al passo”, prima di cedere loro progressivamente l’esercizio del potere. Ma – come abbiamo già detto a sufficienza – Mohammed VI non è Juan Carlos! Meno preoccupato della democrazia che dello sviluppo economico, il giovane Re ha , al contrario, scelto di aggirare sistematicamente gli eletti, moltiplicando le “commissioni” e le altre “agenzie speciali” direttamente collegate alla sua persona, incaricate di riformare tutto quello che era possibile riformare. Ciò che ha indubbiamente prodotto molti risultati concreti e positivi. Ma, altrettanto indubitabilmente, questa strategia ha avuto l’effetto di marginalizzare, addirittura ridicolizzare la classe politica. Già nel 2002 si è assistito a scene surrealiste come questa. Mentre il Re era in giro in qualche parte del regno, il corteo reale era seguito… da un corteo governativo! E di tempo in tempo l’auto del Re si fermava  in aperta campagna perché qualche ministro a caso vi entrasse con un dossier sotto il braccio.
Si può immaginare che non li abbia visti tutti e che molti ministri abbiano atteso ore sperando di essere chiamati dall’autista del Re. Invano. Di umiliazione consentita in umiliazione consentita, si è giunti al 2009, 10 anni dopo l’avvio della “nuova era”, a questa sequenza tragicomica:  Abdelouahed Radi, il nuovissimo leader socialista, si è proclamato ”profondamente fiero” di essere stato mantenuto dal Re al posto di ministro della Giustizia… mentre aveva promesso ai militanti socialisti di dimettersi  se lo avessero eletto!
Infine, dopo 10 anni di regno di Mohammed VI, tutti i partiti politici marocchini, gli “amministrativi” come quelli “storici”, si sono uniti nella sottomissione totale al trono. Il “Partito della giustizia e dello sviluppo” non ha fatto eccezione alla regola. Deluso per la mancata prevista vittoria alle legislative del 2002 (la comunicazione in tempo reale dei risultati del voto è stata inspiegabilmente bloccata e i dettagli del voto non sono mai stati resi pubblici), il partito islamista ha scelto il profilo basso, dopo gli attentati terroristi del maggio 2003. In seguito, e anche se dispone di una forte base di consensi nelle grandi città, il PJD non ha più ritrovato la superbia di un tempo. Anche l’elezione a suo leader dell’iperconservatore Abdelilah Benkirane non ha segnato alcun cambiamento. Lo si è visto perdere i suoi modi alla presenza del principe Moulay Rachid. Allora il Re…

La sottomissione piuttosto che la competenza
Bisogna tuttavia vedere anche il lato buono della situazione: la classe politica è stata senza dubbio svalutata molto da Mohammed VI, ma in qualche modo lo meritava. Sclerotizzata, composta da dinosauri per i quali la Mercedes ministeriale era un fine in sé (testimoni ne sono Abbas El Fassi e Mohamed Elyazghi, leader dei due più grandi partiti del paese, che si sono ostinatamente attaccati per anni al loro posto di “ministro di stato senza portafogli”)… questa camarilla di ex combattenti, totalmente ignari di cosa sia un business plan o un retro-planning, si è ben presto  rivelata incapace di farsi promotrice delle riforme economiche di cui il Marocco aveva (ed ha ancora) bisogno. Sul punto Mohammed VI è stato molto più concreto, e molto più efficace dei politici. Nominando sovranamente dei giovani manager, competenti ed apolitici, ai posti-chiave del regno ( a costo di dar loro una immagine politica che non inganna nessuno), il Re ha realizzato molte cose in dieci anni. E tanto peggio per la democrazia. Al punto che la nomina dell’apolitico Driss Jettou al posto di Primo Ministro, nel 2002, è stata finalmente applaudita da molti democratici, anche se si trattava chiaramente di un arretramento della democrazia. Almeno l’uomo era però un manager efficace che ha saputo portare avanti molte riforme cruciali, in particolare nell’ambito della governance pubblica. E se fosse proprio questo quello che occorre fare? Prendere atto del fallimento della democrazia rappresentativa e investire i tecnocrati ai posti di comando, fino a quando i politici non avranno compreso che la legittimità storica non è tutto, e che essi  devono  servire il popolo prima di servire loro stessi…?
Salvo che, col tempo, l’atteggiamento del Palazzo ha suscitato dei dubbi: e se, insomma, il primo cerchio reale privilegiasse la sottomissione all’efficacia? Per quanto competente e discreto egli sia stato,  gli uomini vicini al Re non hanno perdonato a Driss Jettou di essersi costruito una vero consenso popolare. Grazie alla sua bonomia ed al suo pragmatismo, il Primo ministro del “Palazzo” aveva finito per farsi apprezzare sia dal popolo che dalle elite economiche del regno. Di colpo l’entourage reale ha cominciato a organizzare complotti contro di lui e a tessere intrighi e trappole. Il suo amico Hassan Chami, un tempo capo della Confindustria marocchina, è stata la vittima collaterale della popolarità di Jettou. Perché aveva osato difendere il Primo Ministro contro i pesantoni del Makhzen, Chami è stato tormentato (anche sul piano fiscale!) fino a quando non ha gettato la spugna ed è stato sostituito alla testa del padronato da altra persona legata al primo cerchio reale. Manovre da cortile non necessariamente approvate dsl Re? Forse… Ma in questo caso perché, a distanza di due anni dalla cessazione della carica di Primo Ministro, si attende ancora la nomina di Jettou al Gabinetto reale… o in qualsiasi altra carica importante?
Il governo 2007 ha finalmente posto un freno al mito della tecnocrazia trionfante: piuttosto un politico debole e incoerente come Abbas El Fassi (teoricamente “rappresentante della volontà democratica”, perché è il leader del partito che ha vinto le elezioni) che un manager efficace che correrebbe il rischio di fare ombra al primo cerchio reale. E il lavoro vero lo fanno i ministri tecnocrati direttamente scelti dal Gabinetto di Sua Maestà. 10 anni più tardi, questi sembrano essere i limiti della “democrazia mohammediana”.

Domande per il futuro
Oggi Mohammed VI sembra aver scelto una nuova strada: lanciare il suo intimo amico Fouad Ali El Himma all’assalto della primatura, a costo che egli possa riprodurre l’”egoismo” e il “populismo” tanto criticati dal re al suo debutto. E’ così che il partito di El Himma è diventato, meno di un anno dopo la sua creazione, la prima forza politica del Regno, attingendo a ciò che la politica marocchina ha di più retrogrado: le reti clientelari e largamente corrotte dei notabili rurali. E tutto questo per cosa? Un El Himma Primo Ministro sarà più efficace di un Jettou? C’è da dubitarne. Sarà più sottomesso al Re di un Abbas El Fassi? E’ molto difficile…
E se il problema di Mohammed VI, dopo 10 anni di regno non condiviso, fosse che egli è diventato … troppo forte? Ecco una diagnosi che agli occhi dei componenti della Corte, potrà sembrare adulatoria. Ma non lo é. Anche se l’autocrazia può rivelarsi una leva per lo sviluppo economico, non è mai cosa buona per un regime non avere opposizione. Senza di essa non c’è evoluzione, e si rischia una deriva senza percepirla. Presto o tardi la monarchia marocchina dovrà dividere il potere con i rappresentati del popolo. Bisognerà solo che questi ultimi lo vogliano. E naturalmente, che si”mettano al passo”, affinché lo sviluppo economico, avviato a marce forzate da Mohammed VI in questi ultimi 10 anni, non abbia a rallentare. Non è scontato.






Democrazia: je t’aime, moi non plus

di Driss Bennani


10 anni dopo la salita al trono di Mohammed VI, il Marocco ondeggia ancora tra autocrazia e democrazia. Le elezioni sono diventate libere, ma hanno perso di senso e di attrattiva. La stampa si è liberata in modo formidabile, ma è sempre minacciata di processi per “abuso di libertà”. E mentre gli oppositori di sinistra raggiungevano la nave reale, i servizi segreti si sono rafforzati come mai prima e la tortura è ritornata sullo sfondo della lotta al terrorismo.  In questo periodo la giustizia ha continuato a rinchiudersi nell’arbitrarietà e la corruzione… e la diplomazia marocchina ha ripreso vantaggio sulla questione del Sahara – ma non per questo si intravvede ancora una via di uscita…
Quanto alla democrazia, il Marocchini vi sperano sempre, ma pochi osano credervi davvero…

Libertà di espressione. Dal bastone alla spada di Damocle
E’ uno dei progressi più visibili (ma anche dei più precari) della nuova era . Durante questi ultimi dieci anni sono caduti diversi tabù: monarchia, Sahara, sesso, religione… pochi argomenti sono ancora realmente vietati nel regno di Mohammed VI. Ma l’audacia editoriale incontra talvolta delle reazioni. Alcuni giornalisti sono regolarmente trascinati in giudizio per motivi politici: “Attentato alle cose sacre”, “Mancanza di rispetto al re”, ecc. Questo tipo di accusa ha anche condotto certi giornalisti in prigione (Ali Lmrabet, Mostapha Alaoui e Mohamed Lhourd nel 2003). Altri, come Aboubakr Jamai, sono stati costretti all’esilio, mentre altri ancora (Benchemsi, Koukas…) continuano a trascinarsi, come una spada di Damocle, dei processi “sospesi” che potrebbero costare loro, in caso di riattivazione, diversi anni di prigione o (è la novità di questi anni) milioni di dirhams di ammenda. Ed è proprio questo dualismo (apertura da un lato, repressione dall’altro) che spiega la collocazione sistematica del Marocco molto in basso nelle classifiche della libertà di stampa nel mondo. In quella di Reporters  sans frontières per esempio, arriva al 122° posto (nel 2008), largamente sopravanzato dal Gabon (110°) e dalla Mauritania (105°). “E’ quello che si chiama il ventre molle delle classifiche – spiega un responsabile di RSF – Vi si ritrovano paesi che ondeggiano tra una larvata repressione e una liberalizzazione reale del loro spazio mediatico”.
Stessa analisi da parte del Sindacato nazionale della stampa marocchina. Secondo il suo presidente, Younés Moujahid, “il Marocco non ha ancora fatto la scelta definitiva e irrimediabile della libertà. Il codice della stampa in vigore resta liberticida e i giudici non sono spesso attrezzati a decidere seriamente cause di stampa e di opinione”.

Elezioni : dal voto manovrato alle urne vuote
Salito al trono nel 1999, Mohammed VI ha avuto tempo sufficiente per preparare le sue prime elezioni legislative del 2002. E non ha lesinato mezzi per questo. Parola d’ordine principale: la trasparenza. L’obiettivo era vitale: segnare una rottura con le pratiche del periodo di Hassan II (elettori condotti alle urne, manipolazioni ecc) e dare al mondo una immagine più democratica del Marocco di Mohammed VI. Per dimostrare le sue buone intenzioni, nel 2002 il Ministero dell’Interno è giunto a creare un sito internet per fornire i risultati in tempo reale.  Ma un misterioso bug informatico ha provocato molti dubbi – dubbi confermati dal fatto che non sono mai stati resi pubblici i risultati dettagliati degli scrutini. Le lezioni del 2002 conservano il gusto dell’incompiuto. Quelle successive (comunali del 2003) si sono svolte senza contestazioni e pochissimi partiti politici ne hanno contestato i risultati. Ma a questo punto viene fuori una nuova preoccupazione: il disinteresse crescente della classe politica nei confronti della cosa politica. Ora che non sono più costretti ad andare a votare, i Marocchini boicottano, per convinzione o indifferenza.  Alla vigilia delle elezioni legislative del 2007, Mohammed VI è intervenuto con tutto il suo peso e ha invitato ufficialmente i marocchini ad una partecipazione massiccia. Invano. Due Marocchini su tre non sono andati a votare. Lo choc è stato terribile. Come se niente fosse, il re ha applicato il famoso “metodo democratico”, nominando Abbas El Fassi primo ministro. Nel 2009 (elezioni comunali), i Marocchini delle città hanno ancora snobbato le urne (30% di partecipazione a Casablanca). Ma, come in passato, gli abitanti delle zone rurali hanno aiutato la classe politica a salvare la faccia e ha contribuito grandemente a plasmare la carta politica del regno. 40 anni dopo l’opera di riferimento di Rémy Leveau, “le fellah marocain” è più che mai il “difensore del trono”… e la sua stampella.

Sahara: Dalla posizione di debolezza alla posizione di forza.

Per la prima volta dallo scoppio del conflitto, il Marocco si trova in posizione di forza sulla questione del Sahara. L’ostinazione di Hassan II per lo svolgimento di un “referendum  confermativo” ha ceduto il passo ad una soluzione molto più realista e, cosa che non guasta, conforme agli standard dell’ONU. Ma prima di giungere al piano di autonomia proposto dal regno, Mohammed VI si è preso il tempo di valutare e poi pacificare il territorio.
Qualche mese dopo la sua ascesa al trono in effetti scoppiano violente manifestazioni a Laayoune. Esse sono violentemente represse da Driss Basri, ancora ministro dell’interno.  Mohammed VI è furioso. Caccia Basri e vuole aprire una pagina nuova nelle relazioni dello Stato con i Saharaoui. Moltiplica allora le visite e i soggiorni (più o meno lunghi) a Guelmin, Laayoune, Boujdour o Dakhla. Nel 2003 l’ONU propone un piano di soluzione del conflitto fondato su un periodo di autonomia di cinque anni che deve essere seguito da un referendum di autodeterminazione per la definizione dello statuto del territorio. Il Marocco respinge seccamente questo piano e ottiene la destituzione del suo promotore, James Baker. Ma qualcosa è cambiato decisamente nella mente dei responsabili marocchini, hanno capito che non potranno respingere in eterno le diverse proposte dell’ONU senza avanzare una proposta alternativa. Nell’aprile del 2007 il Marocco presenta dunque ufficialmente il suo piano di autonomia per il Sahara. Una rivoluzione, tanto nel contenuto che nella forma. Per ottenere appoggi al piano marocchino, in effetti Mohammed VI invia i suoi uomini di fiducia nelle principali capitali mondiali e si assicura così il sostegno delle grandi potenze. “Il piano marocchina è in effetti stato una bella parata – sintetizza un osservatore saharaoui – si ispira alle esperienze dell’ONU per proporre una soluzione che rientri nell’ambito dell’autodeterminazione. Ma il piano alla fine non è altro che una piattaforma di negoziato aperta a tutte le soluzioni, tranne quella dell’indipendenza”. A Manhasset, nella periferia di New York, i negoziatori marocchini ricoprono (per una volta) il ruolo di chi deplora “l’ostinazione non costruttiva” del Polisario davanti alle telecamere del mondo intero.
Sul terreno, la rivendicazione indipendentista si diffonde poco a poco, mentre sul versante di Tindouf, si manifestano dissensi e appaiono le prime scissioni. Mohammed VI supererà la prova? Risolverà uno dei più vecchi conflitti del pianeta? Ha tutto il suo regno per fare questo. In attesa, il Regno resta il padrone del territorio.

Partiti politici. Dal multicolore all’incolore
Fin dalla sua investitura, Mohammed VI coltiva un sogno: finirla con la balcanizzazione partigiana e restituire senso alla cosa politica. A più riprese il Re ha severamente rimproverato i partiti politici. Invano. Sotto Hassan II si poteva almeno fare la distinzione tra i partiti “amministrativi” creati da Driss Basri, e quelli “storici”, nati dal movimento nazionale per l’indipendenza. Oggi si assomigliano (quasi) tutti. A forza di alleanze contro natura e coalizioni improbabili, i partiti politici marocchini hanno perso la loro anima. L’USFP ha così pagato il prezzo della sua lunga (e accidentata) partecipazione al governo dopo il 1998. L’Istiqlal patisce dell’immagine e dell’inerzia del suo leader, Abbas El Fassi, le cui gaffe si ripetono e non si somigliano.  La più grave resta questa dichiarazione, all’indomani della sua nomina alla testa del governo: “Il mio solo programma sono gli orientamenti di Sua Maestà” – ciò che è quanto meno insultante per gli elettori che hanno portato l’Istiqlal al potere sulla base delle sue proposte riformiste…

Oppositori. Dalla riconciliazione alla cooptazione
Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, l’istituzione della Instance équité et réconciliation (IER) non è il prolungamento naturale dell’apertura politica conosciuta dal Marocco verso la fine degli anni 1990. A suo tempo, Hassan II aveva ben creato il CCDH, sensatamente incaricato di identificare e poi di indennizzare le vittime degli anni di piombo. Mohammed VI sceglierà una diversa strada per saldare il passivo del regno in materia di diritti umani: la riconciliazione. Per fare ciò il giovane monarca si ispira ai lavori di diverse organizzazioni, tra le quali il Forum vérité et justice. Una associazione essenzialmente composta dalle famiglie delle vittime degli anni neri della repressione di Hassan II. Subito l’entourage del nuovo re stabilisce rapporti coi leader di questa giovane associazione. Fouad Ali El Himma è particolarmente coinvolto in questi incontri. Si apre allora la strada l’idea di una esperienza marocchina di una giustizia di transizione, che finisce per diventare una realtà il 7 gennaio 2004. Ricevendo i membri dello IER a Agadir, Mohammed VI traccia loro un foglio di via assai preciso: sì alla lettura delle pagine buie della storia recente del Marocco indipendente, no allo spirito di vendetta. I nomi dei torturatori non devono essere menzionati e le audizioni dello IER non dovranno dare luogo ad alcuna inchiesta giudiziaria. Queste restrizioni hanno diviso la comunità dei militanti dei diritti dell’uomo.  Lo IER ha poi incontrato forti resistenze nei corpi separati (soprattutto l’esercito e i servizi segreti), che gli hanno vietato l’accesso ai loro archivi. Le audizioni pubbliche, in un primo tempo trasmesse in diretta alla televisione, sono passate poi in differita. Ma Driss Benzekri e i suoi tengono duro. Dicono di voler trasformare una meta storica. Dopo diversi mesi di inchiesta, di audizioni e di spostamenti ai quattro angoli del paese, lo IER partorisce un rapporto abbastanza completo e forti raccomandazioni. Nel suo discorso a conclusione del mandato dello IER, il re parla di riconciliazione ma non si scusa a nome dello Stato. Le raccomandazioni restano per la maggior parte lettera morta. Dossier emblematici, come quello di Mehdi Ben Barka, restano egualmente senza conseguenze. Dopo la morte di Driss Benzekri, i suoi compagni di lotta ottengono tutti degli incarichi o dei posti ufficiali. Non rinnegano le loro convinzioni ma sono oramai dalla parte di questo Stato che ha teso loro la mano: Meglio (o peggio) sono stati questi stessi militanti per i diritti dell’uomo che hanno dato leggitimità all’ultimo partito “amministrativo” in ordine di tempo: il PAM.

Tortura: Dal sistematico all’occasionale

Nel 2004 scrivevamo questo: “Undici morti in cinque anni, tutte imputabili alle forze dell’ordine! Sono casi eccezionali? Forse, ma ce n’è a sufficienza per allarmarsi”: Attualizzando le cifre, lo stesso potremmo dire anche oggi. D’altronde la tortura (e la violenza poliziesca in generale) sono mai veramente sparite dal Regno? “Durante i primi anni di Mohammed VI, queste pratiche erano diventate molto rare”, riconosce a mezza voce un grande militante per i diritti dell’uomo. Il cambiamento si è avuto nel 2001. Dovunque nel mondo gli attentati dell’11 settembre sono state l’occasione per restringere le libertà , (soprattutto per gli islamisti). In Marocco i servizi segreti hanno lanciato una vera caccia al barbuto. Rastrellamenti massicci, interrogatori violenti, detenzioni arbitrarie… La tortura fa un ritorno  improvviso  e notevole nel regno di Mohammed VI. Ciò che non ha peraltro impedito gli attentati del 16 maggio 2003. “Se avessimo potuto essere ancora più fermi, lo saremmo stati. Non si scherza con la sicurezza dello Stato”, commentava nel 2007 uno degli uomini forti della caccia agli islamisti. Le associazioni per la difesa dei diritti dell’uomo condannano il ritorno di pratiche insostenibili, come lo stupro a mezzo di una bottiglia o la sospensione al soffitto di detenuti totalmente nudi. La tortura della nuova era non è d’altro canto riservata ai soli detenuti islamisti. Militanti di associazioni della società civile, come Mohamed Rachid Chrii, a Safi, ne sono stati vittime anche loro. A partire dal 2005 il Marocco ripensa la sua politica di sicurezza e allenta un po’ la vite. La tortura viene criminalizzata nei testi, ma pochissime denunce producono risultati. Oramai, riconosce un avvocato, “la tortura non è forse più politica dello Stato, ma la violenza è onnipresente nei nostri commissariati. Per accertarsene – aggiunge – basta vedere lo stato di certi arrestati quando arrivano all’ufficio del procuratore”.  Da parte della polizia, qualche cosa è stata fatta per sensibilizzare i poliziotti alle nozioni elementari dei diritti umani. Ma non è stato sufficiente. Perché, si giustifica un dirigente della Direction générale de la sécurité nationale “maltrattare un indagato è pratica diffusa tra i ranghi della polizia. Alcuni non saprebbero ottenere in altro modo delle confessioni. Vi è poi una carenza di personale, che favorisce purtroppo queste maniere brutali e sbrigative”. A sentirlo, si tratterebbe quasi di una fatalità…


Giustizia, di peggio in peggio

Difficile individuare qualche progresso in questo campo. Ad ogni apertura di legislatura, la riforma della giustizia torna alla testa delle priorità fissate da tutti i governi di questi dieci anni. Invano, perché niente o quasi niente è stato realmente fatto. Peggio: nessuno, nemmeno gli esperti, è capace di orientarsi in questa riforma complicata. Secondo un avvocato, ex presidente dell’ordine: “La riforma della giustizia non è un’operazione tecnica. E’ eminentemente politica. Essa dovrebbe sancire una volta per tutte la supremazia del diritto, l’indipendenza dei giudici e la separazione dei poteri. Sono stati fatti dei piccoli progressi, come l’informatizzazione di alcuni dipartimenti, ma in generale la macchina della giustizia soffre sempre degli stessi mali”. Ieri come oggi, dunque, la giustizia si porta appresso una cattiva  immagine di dipartimento sotto tutela e di anticamera del Potere. Le istruttorie sono assai complesse e le condizioni di lavoro dei giudici sono deplorevoli. Oggi, e malgrado tutte le riforme annunciate, il Marocco dispone solo di 3322 magistrati per trattare 5 milioni di procedure all’anno. Risultato: una giustizia da macellai, sbrigativa e fatalmente ingiusta. I tempi di trattazione e di esecuzione sono estremamente lunghi. Altro male che colpisce questo settore vitale per un paese in via di democratizzazione: la corruzione. Nel 2009, l’Ispezione generale svolta  dalla Corte suprema ha ricevuto 420 denunce di cui 387 riguardanti magistrati. Le inchieste avviate hanno prodotto circa 32 rapporti e 14 magistrati sono stati deferiti davanti alla Corte Suprema. Regolarmente la giustizia marocchina ha fatto anche parlare di sé in occasione delle grandi questioni di opinione o dei processi legati ai “valori sacri”. E ogni volta la difesa (composta di eminenti giuristi) si è detta “scandalizzata” per le ripetute violazioni ai diritti della difesa e per l’ingerenza “oltraggiosa” di certi apparati di potere. E’ che in dieci anni gli uomini e le strutture del ministero non sono cambiati. “E qui è tutto il problema”, spiega un ex dirigente del ministero della Giustizia. “Gli uomini- chiave sono inamovibili, sono sopravvissuti a tutti i ministri. In più, ed è ancora più grave, è sempre il ministro della Giustizia (dunque un membro dell’esecutivo) che decide delle promozioni e delle sanzioni dei giudici attraverso il Consiglio Superiore della magistratura. Ciò rende impossibile ogni indipendenza ed ogni reale separazione dei poteri”. Un verdetto fino ad oggi senza appello.

Servizi Segreti: dal tberguig alla intelligence

Se si esclude l’esercito e qualche ufficio del ministero degli interni, il Marocco dispone di due servizi segreti principali: la DGST e la DGED. La prima si occupa della sicurezza interna, mentre la seconda veglia sugli interessi del Regno all’estero. Dopo la sua ascesa al trono, Mohammed VI ha accordato un particolare interesse a queste due centrali informative. “Ogni uomo nominato dal re alla testa di questi due servizi aveva una missione ben determinata” spiega un ex della DST. Dopo appena tre mesi dall’incoronazione, Mohammed VI nomina Hamidou Laanigri – prima di licenziare Driss Basri, potente ministro dell’interno e protettore della DST, qualche settimana più tardi. Laanigri ha a questo punto carta bianca. Comincia col reclutare nuove figure professionali:L ingegneri, giuristi, studenti in comunicazione. Appassionato di informatica, Laanigri dota la DST di un  sofisticato centro di ascolto telefonico e di apparecchi di controllo ultramoderni. Dopo l’11 settembre 2001, rafforza i suoi legami coi servizi segreti occidentali. A più riprese suoi agenti si recano a Guantanamo per interrogare dei sospetti marocchini.
Per la missione seguente, Mohammed VI nomina, nel maggio del 2005, un giovane tecnico specializzato nei movimenti islamisti.  Abdellatif Hammouchi  succede così al generale Laanigri – avendo il re come interlocutore diretto.
Qualche settimana più tardi (febbraio 2005) Mohammed VI nomina un nuovo capo della DGED nella persona di Mohamed Yassine Mansouri. Anche qui promuove una forte rottura. Oltre ad essere un intimo del re (sono stati compagni di studi), Mansouri è il primo civile a dirigere questo servizio. L’immagine della DGED si rafforza: Mansouri fa delle apparizioni pubbliche, e certi suoi viaggi sono anche coperti dai media ufficiali. Ma il vero cambiamento viene operato in sordina. Mansouri rinnova la macchina spionistica marocchina. Riattiva degli “uffici dormienti”, dando loro nuovi orientamenti. Ispirandosi al modello americano, vuole una intelligence  ricentrata unicamente sugli interessi del Marocco. Ultima innovazione in ordine di tempo: la DGED si è lanciata da meno di due anni nello spionaggio economico, con un commando specialmente indirizzato a certe missioni. La politica delle grandi opere e dei campioni nazionali vi è certo per qualche cosa.

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