(Articolo pubblicato da Tel Quel, n. 406, 9-15 gennaio 2010)


Il Marocco un nemico di Internet?


Libertà di espressione. La recente condanna dei “cyberdissidenti” di Taghjijt ha messo in stato di allerta il panorama dei blogger marocchini e internazionali. L’ennesimo passo falso delle autorità locali, scavalcate dal fenomeno dei blog, potrebbe tracciare la linea per una nuova pericolosa tendenza



Sulla pagina internet Threatened Voices (Voci minacciate), il Marocco è finito nella top ten dei paesi che più si accaniscono contro i blogger. Prodotto del celebre sito Global Voices, che riunisce blog da tutto il mondo, questa sorta di osservatorio riporta fedelmente ogni violazione resa nota all’indirizzo di coloro che utilizzano il web come mezzo di espressione e di informazione. Dopo l’arresto di Bachir Hazzam, un blogger di Taghjijt, il Marocco conta attualmente quattro procedimenti giudiziari all’attivo in questo campo. Siamo ancora lontani dai diciannove blogger arrestati in Tunisia, quarta sulla lista. Ma l’ottava posizione occupata nella speciale classifica (al pari di Cuba e della Russia), non è certo l’immagine degna di un paese che ha appena lanciato il programma “Marocco digitale 2013”.

Lo scivolone di Taghjijt
L’arresto del blogger di Taghjijt non ha suscitato un grande clamore, forse a causa dell’isolamento geografico o forse a causa della tempestività con cui si sono svolte le operazioni. Pertanto le autorità locali, nella gestione degli avvenimenti che hanno scosso la città, si sono macchiate di gravi violazioni. Il 1° dicembre un gruppo di studenti si è presentato davanti al municipio per avanzare delle rivendicazioni. Tra le richieste, i buoni trasporto per gli universitari iscritti ad Agadir e l’allestimento di una biblioteca nel piccolo centro. Ma al posto del dialogo le autorità hanno scelto le maniere forti. Il sit-in è degenerato in conflitto e gli scontri sono continuati per due giorni. Tre studenti sono finiti subito in stato di arresto.
“Fin dall’inizio delle agitazioni alcuni agenti in borghese si sono piazzati all’interno degli internet point. Un sintomo rivelatore”, sottolinea Said Benjebli, presidente dell’Associazione dei blogger marocchini. Ciò non ha impedito a Bachir Hazzam, un laureato in studi religiosi di 27 anni, di pubblicare sul suo blog un comunicato degli studenti, il 4 dicembre. Qualche giorno dopo è stato arrestato anche lui. Ancor più difficile da capire, invece, è il caso di Abdellah Boukfou (26 anni), gestore dell’internet point utilizzato da Hazzam, arrestato a sua volta e coinvolto nello stesso procedimento giudiziario dei quattro che già l’avevano preceduto. Gli otto computer del cybercafé e le sue chiavi USB sono state sequestrate. All’interno i poliziotti hanno trovato le pubblicazioni di Hazzam (che è membro dell’associazione islamica Giustizia e Carità), di altri studenti del villaggio e di alcuni membri di un’organizzazione amazigh. Abdellah non ha pubblicato niente di persona, ma le autorità lo hanno spedito lo stesso davanti al giudice.
Il processo, breve e speditivo, ha visto numerose anomalie, specie per quanto riguarda i capi di accusa attribuiti agli imputati. Per esempio, il verbale dell’interrogatorio di Hazzam cita espressamente, tra i reati commessi, “la diffusione di notizie false atte a compromettere l’immagine del regno nel settore dei diritti umani”. Un lapsus che ha spinto Reporters Sans Frontieres a pubblicare un comunicato particolarmente sferzante: “invece di gettare degli innocenti in prigione, le autorità marocchine farebbero meglio ad indagare sugli abusi commessi dai loro servizi di sicurezza”, ha scritto l’ONG al momento dell’arresto del blogger. In seguito, un nuovo verbale ha accusato Hazzam di “diffusione di notizie false atte a turbare l’ordine pubblico”. Ma anche questa frase è stata cancellata, per di più in modo grossolano, come ha dimostrato la copia del verbale pubblicata in rete. Alla fine, i cinque finiti in arresto (che abbiano preso parte o meno alle manifestazioni) sono stati imputati di “raduno armato”, “insulti all’indirizzo di un funzionario”, “distruzione di beni pubblici” e perfino di “incitamento all’odio razziale” (forse a causa dell’appartenenza di alcuni tra loro ad associazioni culturali amazigh).
Il verdetto non si è fatto attendere: il 15 dicembre i tre studenti sono condannati a sei mesi di carcere, Hazzam a quattro mesi, mentre al gestore dell’internet point, Abdellah Boukfou, è toccata la pena più grave, un anno di prigione. “Le autorità lo tenevano d’occhio già da un po’. Per loro era l’intermediario che collegava i manifestanti ai blogger”, ritiene M’barek Boukfou, lo zio di Abdellah.

Hackers del Makhzen?
Ad ogni modo, secondo Benjebli, dopo quanto successo a Taghjijt i blogger marocchini hanno paura e sono divenuti vittime dell’autocensura. Anche se nel Paese (quasi) nessun sito di opinione è apertamente censurato, il presidente dell’Associazione dei blogger intravede i primi segni della repressione e di una sorveglianza sempre più attenta e capillare. Un esempio, l’opera dei misteriosi hackers che negli ultimi tempi hanno distrutto diversi siti militanti (sia del collettivo MALI sia degli islamisti), prima di pubblicarvi una lista nera delle “persone che parlano troppo”.
Se i blogger hanno paura di incappare nella triste sorte toccata ad Hazzam e Boukfou, tuttavia, anche le autorità dimostrano un certo timore nei confronti degli stessi blogger, almeno secondo il parere di Said Benjebli. Prove ne è il rifiuto dello Stato di accordare il riconoscimento alla sua associazione: dopo la consegna del dossier al momento della creazione, avvenuta il 13 maggio 2009, la prefettura di Rabat non gli ha ancora fatto avere la ricevuta di ritorno prevista dalla legge. “Il regime ha seri problemi ad accettare questo universo a lui sconosciuto che è Internet, ben più difficile da controllare rispetto ai classici media”, analizza Said. “Ogni abuso commesso, anche nelle regioni più remote, può ormai essere denunciato e diffuso attraverso il web”. Questo spiega l’atteggiamento nevrotico dimostrato dalle autorità a Taghjijt. La confisca dei PC, il dispiegamento dei poliziotti negli internet point e la goffaggine degli interrogatori (secondo dei conoscenti di Hazzam, gli agenti di Taghjijt non conoscevano nemmeno la parola “blog”) dimostrano il panico e l’incomprensione che Internet suscita tra i rappresentanti del regime.
Il Marocco è ancora lontano dalla lista dei “nemici di Internet” stilata da RSF (come l’Egitto o la Tunisia). Ma “bisogna rimanere vigili, affinché la relativa libertà (al di fuori dei soggetti tabù) di cui godono i blogger marocchini non sia messa in pericolo”, valuta Lucie Morillon, responsabile del dossier Internet all’interno dell’ONG. E’ ormai tempo che le autorità rendano chiara la loro posizione rispetto all’utilizzo del web, prosegue la signora Morillon. “Come può lo Stato avviare un piano ambizioso per migliorare le condizioni di accesso ad Internet nel Paese e, allo stesso tempo, mettere in prigione coloro che ne beneficiano per il semplice fatto di avervi pubblicato un’informazione?”.



BILANCIO. DELITTI (DI INTERNET) E CASTIGHI
In due anni il Marocco ha moltiplicato le condanne comminate per “crimini di Internet”. Qui di seguito i casi più celebri.
Fouad Mourtada aveva pubblicato un falso profilo Facebook a nome di Moulay Rachid (il fratello del re). La sua condanna a tre anni di carcere per “utilizzo di dati informatici falsificati e usurpazione di identità”, pronunciata il 22 febbraio 2008, aveva scatenato una generale levata di scudi. Mourtada ha beneficiato di una grazia reale il 18 marzo.
Mohamed Erradj aveva pubblicato, sul sito di informazione Hespress, un articolo critico nei confronti della politica sociale condotta da Mohammed VI: “Il re incoraggia il popolo all’omicidio”. L’8 settembre 2008 Erradj si è visto infliggere una condanna a due anni di carcere per “mancanza di rispetto nei confronti del re”. Un passo falso denunciato dalla società civile e corretto dieci giorni dopo dalla Corte d’appello, che ha scarcerato Erradj per un vizio di forma nello svolgimento del processo.
Hassan Barhon, blogger e giornalista, ha attaccato un giudice di Tetuan, pubblicando una petizione in cui veniva denunciata la corruzione del magistrato. Il 6 marzo 2009 è stato condannato a sei mesi di carcere per diffamazione, ma la corte di appello ha aggravato la sua condizione con una nuova condanna a dieci mesi. Dopo i numerosi appelli di RSF, Barhon ha beneficiato di una grazia reale il 1° agosto.
Bachir Hazzam e Abdallah Boukfou sono condannati rispettivamente a quattro mesi e un anno di prigione il 15 dicembre 2009, dopo aver pubblicato delle informazioni sulla repressione in corso a Taghjijt. Anche questo nuovo “incidente di percorso” verrà rivisto e corretto?

Zoé Deback



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