Discorso sulla Mauritania
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Discorso sulla Mauritania
di Boubacar Messaoud (Presidente di SOS Esclave)
Signore, Signori, cari amici,
Vengo da un paese posto tra l’oceano Atlantico, il Sahel ed il deserto del Sahara, crogiolo di saperi religiosi nell’Africa dell’ovest.
Vi parlo di un paese marcato da una forte penetrazione berbera, araba e nera, i cui padri fondatori hanno preteso di assumere il ruolo di trait d’union tra l’Africa nera ed il Maghreb.
Le diverse comunità etniche, linguistiche e razziali convivono, fortemente legate tra loro dalla comune religione islamica, che si suppone dovrebbe unirli in nome della tolleranza, l’uguaglianza, l’accettazione del prossimo, condizioni principali per la pace.
E’ la Repubblica islamica di Mauritania, una regione di paradossi, oggi gelosa del suo attaccamento ai valori di democrazia e di libertà, ma che ha dietro di sé una storia caratterizzata dalla guerra, dalla sottomissione dell’altro, dai costumi tribali e dalla secolare pratica della schiavitù per nascita.
Il sistema servile che ne è conseguenza si fonda sulla sopravvivenza di gerarchie multisecolari, che permeano di sé le relazioni tra gli uomini, al punto che la società mauritana appare organizzata su diversi livelli, sulla base della constatazione che gli uomini non nascono né liberi né uguali, tanto per parafrasare all’incontrario il primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 in Francia.
Il sistema si presenta in forme e giustificazioni identiche, sia nelle comunità arabo-berbere che nelle zone Nagro-mauritane (Sininké, Halpulaar e Wolof); anche se i gradi, la visibilità e l’attualità differiscono da un ambiente all’altro. Tra i neri africani, il fenomeno perdura soprattutto nei codici sociali, come differenza di casta. Presso gli arabo-berberi o bidhane, conserva invece la sua forma tradizionale, uno statuto di assoggettamento di uomini, donne e bambini ad una classe di privilegiati che approfitta della sua superiorità razziale. La schiavitù arabo-berbera è prima di tutto un fatto di razzismo, anche se le sue motivazioni attingono in gran parte alla lettera e all’esegesi di una religione universalista, le cui promesse rivoluzionarie sono peraltro tutto il contrario rispetto ad ogni forma di oppressione. Il paradosso qui si riveste di un riuscito sviamento del riferimento a Dio. Immaginate dunque la difficoltà di emancipare una moltitudine di ignoranti in una confusione di norme, nel cuore della stessa matrice mentale.
Nell’era della mondializzazione tecno-mediatica, della velocità nella trasmissione dell’informazione, queste pratiche resistono tenacemente nel mio paese e ci sono spiriti sufficientemente candidi per credere ancora possibile nasconderle o negarle.
Voi mi chiederete: ma come è possibile ciò?
Per trovare una risposta, occorre soprattutto insistere sulla progressione dell’asservimento dello spirito al quale lo schiavo è sottomesso al punto da assolvere a compiti penosi senza battere ciglio mentre il padrone si riposa all’ombra; in questo modo si annienta in lui ogni velleità di emancipazione, di libertà e non resta che l’idea di rivolta, che sostiene l’orgoglio proprio della specie umana. Questo processo di abdicazione della dignità, preliminare al lavoro indegno e gratuito, passa per il lavaggio del cervello permanente attraverso una interpretazione dell’Islam che precede, come un livellamento, la distruzione psicologica dell’io. Così, senza bisogno di catene, il padrone finirà per essere certo che ogni sorta di rivolta o di sottrazione allo statuto di inferiorità e di dipendenza, insomma ogni fuga dalla gerarchia sociale equivarrebbe ad una apostasia della fede islamica; la lezioncina quotidana, cui i padroni ricorrono, si riassume in questo: la chiave del paradiso si trova, per lo schiavo, ai piedi del suo padrone. Il tempo, il bastone e la reiterazione confermano, consolidano e strutturano l’ineguaglianza.
Quindi il padrone cessa di percepire la sua proprietà quadrumane come un essere umano; tra l’animalità e l’inumanità è come una bestia da somma, con in più la lucidità.
Lo schiavo non eredita dai suoi ascendenti; è il padrone che ne beneficia al posto suo. Lo schiavo, uomo o donna, non può sposarsi senza il permesso del suo padrone; se lo fa, la sua unione è considerata adulterina, con le conseguente stigmatizzazione per i futuri figli. In un ambiente così segnato dal conservatorismo morale e la differenziazione degli individui secondo criteri cristallizzati e irrazionali, gli schiavi possono moltiplicarsi fuori dalle unioni legali, un po’ come il bestiame. La loro inferiorità conferisce la libertà sessuale, prova di una eccezione umiliante, uno sfavore congenito che deriva dal colore della pelle e dalla fatalità dell’ordine divino.
Tra le vittime per nascita, la maledizione viene dalla madre. Questa identificazione a contrario degli usi di una società patriarcale si perpetua di generazione in generazione a causa del ritardo nella presa di coscienza e del radicamento dell’alienazione; vi concorrono in particolare dei fattori essenzialmente metafisici, oltre all’analfabetismo, il modello tribale della tradizione che frena il progetto di Stato, addirittura lo aggira; malgrado la formalità dello Stato, la sua influenza cede all’ideologia culturale e razzista; i miti fondatori dell’arabità aristocratica e l’interpretazione erronea dell’Islam a favore dei padroni si insinuano con efficacia sul terreno della povertà, che è il destino quotidiano di questi paria e li induce a rassegnarsi per sopravvivere.
Nonostante siano la maggioranza, le località abitate da una popolazione schiava – chiamate Adwabas – non sono dotate di alcuna infrastruttura, a paragone di quelle abitate dai loro ex padroni, spesso di minore densità demografica. Il tribalismo clientelare determina una allocazione e divisione delle risorse pubbliche, a vantaggio dei meno bisognosi; gli investimenti in scuole, dispensari e trivellazioni di pozzi per uso domestico trasmettono e radicano questa gerarchia, a beneficio dei padroni. Contribuiscono a rinforzare la base materiale della discriminazione.
Malgrado questi ostacoli, pure v’è stata una presa di coscienza, dalla fine degli anni ’70, grazie all’impegno di diversi soggetti, soprattutto l’élite alfabetizzata degli haratine, vale a dire i discendenti degli schiavi affrancati o non; quasi tutte le associazioni politiche e di difesa dei diritti dell’uomo hanno contribuito, ad un certo momento del loro sviluppo, alle successive dinamiche di contestazione, di abolizione e infine di criminalizzazione della schiavitù.
Il risveglio è stato amplificato dal lavoro di mobilitazione del movimento El-Hor, quando Mbarka, una donna schiava venne esposta ad una pubblica vendita al mercato di Atar nel 1979. Voi mi date qui, signore e signori, l’occasione di rendere un meritato omaggio a tutti questi uomini e queste donne che sono stati i pionieri della lotta abolizionista nel mio paese.
Creato clandestinamente il 5 marzo 1978 a Nouakchott, il movimento El-Hor è stato il laboratorio politico di avanguardia, la cui lotta costringerà le autorità mauritane a riconoscere ufficialmente l’esistenza del fenomeno della schiavitù, con l’adozione della legge 81-234 del 9 dicembre 1981.
El-Hor ha contribuito alla ricostruzione di una identità propria haratine. Ormai la vittima compatisce la sua sorte, rivendica meglio e non si identifica per forza con la tribù dei padroni. Si riconosce, progressivamente, sempre più come un attore passivo di una realtà comunitaria attorno alla sua condizione di minorità sociale.
Così, SOS Escalve nasce da questa derivazione militante.
L’associazione SOS-Esclave è stata creata formalmente nel febbraio 1995 da compagni – tra cui io stesso – usciti da El-Hor, da democratici provenienti da diverse comunità, da figli di ex padroni e da militanti dei diritti dell’uomo. Il suo credo era quello di “sottolineare e far conoscere le situazioni di schiavitù, al fine di lottare contro la loro perpetuazione e di contribuire a rompere la catena psicologica della dominazione”.
La nostra azione si iscrive nella lotta per l’avvento di una società moderna egalitaria e capace di superare tutte le pratiche di ineguaglianza, attraverso la raccolta e la pubblicazione del maggior numero di informazioni obiettive e precise su ogni forma di violazione dei diritti elementari, il ricorso ad azioni legali e manifestazioni pacifiche e campagne di denuncia per porvi rimedio. Alla mobilitazione dell’opinione si aggiunge l’appoggio ed il sostegno dei nostri partner e militanti, sia all’interno che all’estero. Ciò mi dà l’occasione di salutare il sostegno mai venuto meno di Anti-Slavery International, il suo appoggio instancabile, durante i momenti difficili, quando eravamo perseguiti dalla polizia della dittatura in un concerto di invettive e delazioni della folla.
Una delle più importanti azioni di SOS Esclave in questo ambito ha prodotto il varo di una legge di criminalizzazione della schiavitù nel 2007, finalmente dopo cinquanta anni dall’indipendenza della Mauritania, mentre i testi di diritto vietavano in teoria questo crimine, senza tuttavia esplicitarlo, senza nominarlo, con la volontà politica di sradicarlo.
Se la legge 2007-048 ha un merito, è soprattutto il riconoscimento tacito di questa realtà da parte del vertice dello Stato. La mezza confessione, quantunque eloquente a paragone della cospirazione del silenzio anteriore, riproduce tuttavia una ipocrisia istituzionale. In effetti le autorità incaricate di applicare la legge recalcitrano ad applicarla col pretesto inconfessato di una solidarietà di corpo tra discendenti di padroni, coalizzati in un ultimo sforzo dallo spirito di corpo di una resistenza comune all’insostenibile minaccia dell’uguaglianza. Di conseguenza nelle zone più arretrate, nei commissariati o nei posti di gendarmeria, davanti alle autorità religiose o amministrative, lo schiavo in fuga, o quello che ha denunciato il padrone, non trova rifugio, ma piuttosto è visto con sospetto, fattore di garanzia per la parola dei padroni. E’ spiacevole che certe autorità amministrative e giudiziarie cerchino, se non di discolpare gli autori, almeno di coprirli con lo scetticismo, la compiacenza, e talvolta la frode e la falsa testimonianza. A causa dell’intimidazione delle vittime da parte dei rappresentanti della autorità legittima, lo schiavo finisce per rinunciare, rinviare, tirarsi indietro e riprendere il suo posto nell’ordine tradizionale della vita; per paura del bastone, diserta l’anticamera del giudice, per paura di essere accusato di furto o diffamazione. I magistrati talvolta giungono ad agire in giudizio contro il matrimonio e sciogliere una unione coniugale tra un discendente di schiavo ed una ragazza di estrazione libera. Facendo ciò, essi si rifanno al diritto mussulmano, in violazione flagrante del Corano. Quando la coppia scandalosa ignora e non si sottomette a tali decisioni, la tribù della moglie ricorre molto spesso alla violenza ed al sequestro per ottenere la separazione dei due. L’autorità si chiude nel silenzio o nella cecità volontaria; l’impunità selettiva ispessisce il velo di complicità dietro il quale, incessantemente, la società concepisce e genera la mostruosità schiavista.
La legge del 2007 criminalizza la schiavitù e prevede delle sanzioni penali e pecuniarie, ma il numero e l’esito negativo dei casi trattati dopo l’adozione di questo storico testo dimostra come la realtà da colpire in realtà si perpetui.
La legge del 2007 è stata adottata in un contesto politico favorevole, segnato dal ritorno della democrazia in Mauritania. Grazie al suo iter di elaborazione ed alla sua precisione, essa ha modificato tutta la legislazione in vigore. E tuttavia, malgrado il coinvolgimento nella sua elaborazione delle ONG antischiaviste, tra cui SOS Esclave, dei partiti politici impegnati nella lotta contro la schiavitù e lo sforzo di sensibilizzazione che è stato fatto, permangono delle debolezze. Permettetemi di salutare, en passant, il contributo instancabile che Anti-Slavery International ci ha offerto in termini di esperienza e di competenza.
La nuova legge non tiene conto dell’alienazione religiosa e dell’ambiente sociale. SOS Esclave e le altre organizzazioni continuano a battersi per ottenere la possibilità di costituirsi parte civile. La restrizione di tale facoltà costituisce una breccia spalancata nel progetto di abolizione per atto concreto; in molti casi la vittima tentenna e cede sotto la pressione della tribù dei maitre. Sottoposta a ricatti ed a promesse, finisce col ritirare la querela e perfino a ribellarsi contro SOS Esclave (vedi la vicenda Jabhalla).
Oltre alle lacune della legge, è anche la corruzione che alimenta la carente volontà delle autorità amministrative e giudiziarie. Infine la legge non prevede alcuna misura di accompagnamento per porre fine alla dipendenza economica dello schiavo al padrone. Un uomo che ha fame non è un uomo libero. Dopo decenni di privatizzazione dello Stato a vantaggio delle tribù maure, attraverso il saccheggio delle finanze pubbliche, il millantato credito, i prestiti bancari mai rimborsati e le continue frodi sui diplomi, le attestazioni e le schede elettorali, la speranza di un avvenire civile si è fossilizzata; la rassegnazione, che discende dalla fonte stessa di una ineguaglianza materiale cosi schiacciante, diventa fatalità, rinuncia, accettazione della propria sorte. I mauritani in generale fanno affidamento sulla loro tribù, per essere protetti nella giungla di rapporti di forza così aleatori; il mauritano di discendenza servile sa che a lui un tale sistema assicura solo dei margini di sicurezza variabili. Attendendo l’esplosione di una rabbia devastatrice, si accontenta di questo poco e sopravvive. E’ questo conflitto latente, questo rischio di insurrezione che noi speriamo di contenere, canalizzare e perché no, allontanare, addirittura cancellare nel consenso di una rifondazione sociale che si realizzi attraverso la sola applicazione della Costituzione e delle leggi. A nostro modo noi svolgiamo una funzione di prevenzione e di allarme. E invece di comprendere ciò, i poteri che sono sopravvenuti ci rimproverano di essere allarmisti. Ai loro occhi una difficoltà cancellata, ignorata, non pubblicizzata cessa di esistere.
Contro il tentativo di negare, di insabbiare e censurare, SOS-Escalve continuerà nel suo lavoro attraverso la diversificazione dei metodi di persuasione, come i discorsi e l’attività di lobbing a tutti i livelli, ma anche davanti alle Corti ed i Tribunali, perché il diritto si imponga sull’egoismo.
SOS-Escalve è convinta che occorra anche recare assistenza alle vittime attraverso il varo di progetti di inserimento ed il promovimento di attività che diano remunerazione; in molti casi gli schiavi liberati tornano dai padroni per elemosinare e l’elemosina è il viatico quotidiano contro la povertà, la malattia, l’esclusione e l’arbitrio socio-amministrativo.
Io non vorrei terminare senza dirvi che abbiamo certamente vinto delle battaglie ma molto resta ancora da fare. Alcune cose sono cambiate. Qualche anno fa, prima di rientrare a Nouakchott, avrei chiesto alla mia famiglia di preparare le mie cose e di cercarmi un avvocato, sicuro che sarei stato imprigionato perché avevo denunciato la schiavitù, per di più, davanti ad interlocutori stranieri. Il loro patriottismo mi è estraneo; mentre pretendono di lavare i panni sporchi in famiglia, io dico ad alta voce davanti al mondo che questo non si può più fare. Oltrepassata una certa soglia di ingiustizia, non ci sono più frontiere che tengono; diventa un attentato contro l’intero genere umano e d’altra parte non ci si accontenta di una patria che ti fa piangere. Noi di SOS Esclave reclamiamo prima di tutto l’universalismo e la laicità. La nostra prima considerazione è la fede nell’uomo.
Oggi certi padroni ricorrono al pagamento in natura o al lavoro remunerato con un salario di miseria, così evitano l’accusa di lavoro forzato o illegale. Ciò vuol dire che il fronte del nostra vigilanza si accresce, perché l’avversario, si adatta, diventa sofisticato.
Io non posso terminare il mio discorso senza ricordare la fellonia inflitta ai miei compatrioti, con la violazione brutale delle istituzioni democratiche. Voglio parlare del colpo di Stato del 6 agosto 2009, realizzato da una giunta capeggiata dal generale Mohamed Ould Abeid Aziz, col sostegno di forze feudali, notabili tribali, affaristi e schiavisti di varia natura. Questa situazione non consente di conservare le nostre conquiste. Oggi donne e uomini, partiti politici, organizzazioni della società, come SOS Esclave manifestano per ottenere il fallimento del putsch e il ritorno alla legittimità democratica.
Giacché provoca degli effetti al centro del sistema di egemonia, la nostra lotta non può restare insensibile all’insieme dei problemi dei cittadini. Il nostro impegno per la promozione della libertà e dell’equità comporta un impegno di cittadinanza, quindi ci esenta dal complesso di neutralità.
Lottare contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, contro la tortura, il defraudamento e il razzismo ci impone di difendere anche il pluralismo e la democrazia di fronte al pericolo di dittatura. Noi rivendichiamo la dimensione politica della lotta che vuole sradicare la schiavitù in Mauritania .
Il vostro appoggio ci incoraggia a continuare, vi assicuro
Vi ringrazio
Boubacar Messaoud
Londra 27 maggio 2009