Conseguenze del riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele
Alain Rodier
 
Il Presidente Donald Trump ha sorpreso la comunità internazionale annunciando che gli Stati Uniti riconoscono ufficialmente Gerusalemme come capitale di Israele e che vi trasferiranno l’ambasciata USA, appena sarà tecnicamente possibile. Non c’è da dubitare che lo Stato ebraico si farà un dovere di procurare rapidamente il terreno necessario alla costruzione dei nuovi edifici che saranno certamente molto simili a bunker, tenuto conto dei rischi che peseranno su questa ambasciata negli anni futuri. Forse tutto è già pronto, dal momento che il trasferimento della rappresentanza diplomatica USA era già previsto con una legge votata il 23 ottobre 1995, nota come il Jerusalem Embassy Act, la cui esecuzione è stata però sospesa ogni sei mesi, in virtù di provvedimenti derogatori firmati dalla presidenza.
 
Proteste in Palestina contro la decisione di traferire l'ambasciata USA a Gerusalemme 

Una sorpresa… non così sorprendente !
 
La sorpresa sembra essere stata generale, anche se il candidato Trump aveva fatto più volte riferimento ad una simile decisione durante la campagna elettorale. Gli osservatori avevano allora ritenuto che si trattasse unicamente di un espediente per guadagnarsi i voti della comunità ebraica – anche se non è stato proprio così – e poi tanti candidati alle elezioni – non solo negli Stati Uniti – hanno fatto promesse restate poi lettera morte, che nessuno all’epoca si è veramente preoccupato. Infatti tutti erano convinti che, una volta eletto, Trump avrebbe riposto questa proposta in fondo ad un cassetto, rinviandola a tempi più lontani. Questa previsione sembrava essere confermata dal fatto che il candidato Trump, che aveva detto che avrebbe assunto la decisione appena eletto, non ha fatto nulla del genere durante i primi sei mesi del suo mandato.
 
Non si teneva però conto dell’accanita volontà di questo « dilettante » in politica internazionale di smuovere le acque di un processo di pace che è a un punto morto da decenni. Infatti Trump è certamente convinto che il vespaio provocato farà evolvere la situazione, obbligando i vari protagonisti a definire le loro posizioni e, eventualmente, a proporre soluzioni. C’è anche un fatto importante: tutti i leader politici sognano di lasciare una traccia nella Storia. Trump vorrebbe essere ricordato come colui che ha risolto questo problema drammatico che dura da quando è stato fondato lo Stato ebraico. Nessuno oggi può affermare che sarà così e che la situazione non peggiori ancore di più. Anche l’ONU si preoccupa delle possibili conseguenze.
 
E’ probabile che questa dichiarazione sia anche una « cortina di fumo » destinata a nascondere le serissime difficoltà che l’amministrazione Trump sta incontrando all’interno e sul piano internazionale, specialmente con la Corea del Nord.
 
Un rischio calcolato
 
Prima di tutto, i Palestinesi sono profondamente divisi, l’ultimo tentativo di riconciliazione tra Hamas e l’Autorità palestinese sta fallendo miseramente. Certamente sarebbero in grado di provocare importanti disordini; ma sanno bene di non avere niente da guadagnare a lanciarsi in una guerra o una Intifada contro Israele, che li indebolirebbe ancora di più. D’altronde, affermare che Washington non ha più legittimità nel processo di pace è un non senso. Niente potrà farsi senza  Washington perché gli Stati Uniti sono semplicemente imprescindibili, specialmente se si tratta di Israele, della cui sicurezza essi restano i garanti.
 
Cosa ancora più grave per I Palestinesi, la maggioranza dei paesi sunniti non li sostiene, considerandoli piuttosto come un fastidio che viene ad aggiungersi alle crisi che attraversano il Medio Oriente. Certamente le varie capitali arabe diffondono – e continueranno a diffondere - « proteste energiche », ma fondamentalmente esse non possono fare a meno degli USA. Non è dunque questione, per il momento, di rotture delle relazioni diplomatiche, per non privarsi dei finanziamenti, della tecnologia e soprattutto della protezione del paese che è ancora il gendarme del mondo, anche se in difficoltà.
 
L’esempio più lampante è quello del regime saudita, che dipende totalmente da Washington se vuole evitare che la rivoluzione di palazzo del principe Mohammed bin Salman provochi una violenta controrivoluzione. Ed è ancora più vero in relazione alla guerra di influenza che il giovane principe ha ingaggiato con Teheran, guerra che al momento si limita a dichiarazioni altisonanti e a conflitti per procura, ma che potrebbe in qualsiasi momento sfociare in uno scontro diretto. Guardando la carta geografica, è facile constatare che soltanto il Golfo Persico separa i due paesi e che Teheran potrebbe essere tentata di chiudere lo stretto di Ormuz, perfino di combattere una battaglia navale contro la marina saudita, che è assolutamente modesta. L’aviazione del regno è sicuramente di qualità, ma in questo momento è tutta presa dal conflitto yemenita. Dunque Salman ha indubbiamente bisogno di Trump per la sua semplice sopravvivenza.
 
I focolai della reazione
 
Curiosamente, le reazioni più vivaci sono da attendersi dalla Turchia, dal Pakistan e dai paesi governati dagli sciiti. Già molte manifestazioni « spontanee » si sono avute in Turchia, dove il presidente Recep Tayyip Erdogan ha sempre dimostrato di essere un maestro nell’arte di manipolare le folle. Come già per il passato, egli sta tentando di recuperare la causa palestinese per presentarsi come leader del mondo mussulmano, versione « Fratelli mussulmani ». Vorrà dimostrare che, se gli altri leader non sono capaci di esprimere la loro riprovazione, lui invece ha il coraggio delle sue convinzioni ! Il miglior modo di bloccarlo sarebbe che il presidente Vladimir Putin assuma la stessa decisione di Trump. E’ assai poco probabile, perché non si vede quale potrebbe essere l’interesse della Russia – a parte un riavvicinamento ad Israele – ma Putin sembra avere un vero dono nella somministrazione di « sorprese strategiche ».
 
E’ in Pakistan che le conseguenze rischiano di essere più drammatiche, dove i fondamentalisti islamici sono oramai i più forti, e non converrà essere statunitense in questo paese. Islamabad è forse l’unica capitale in cui potrebbero esserci azioni di ritorsione contro Washington ! Il vicino afghano, per contro suo, ha troppo bisogno dei militari statunitensi per lasciare che la situazione localmente degeneri.
 
Per contro Teheran, che per pura volontà di contrastare lo Stato ebraico appoggia i movimenti palestinesi più estremisti (Hamas e Jihad islamica palestinese), dovrebbe mostrarsi molto offensiva, soprattutto se Trump continua a mettere i bastoni tra le ruote al processo di cessazione delle sanzioni che fa capo all’accordo 5+1 sul nucleare iraniano.
 
Bagdad, che ha rapporti privilegiati con Teheran, rischia di seguire, salvo che qui gli USA sono necessari per la ricostruzione e la pacificazione del paese. Damasco farà lo stesso, ma i suoi mezzi sono troppo limitati per avere una portata significativa. Per l’Iraq e la Siria, anche la decisione di Mosca peserà sulla bilancia.
 
Infine c’è l’Europa. L’amalgama tra la causa palestinese, l’antisionismo – che sfiora l’antisemitismo -, l’ultra sinistra e il salafismo (1) può provocare delle manifestazioni violente, perfino delle sommosse che sarà assai difficile governare.
 
Sarà bene che i leader europei capiscano infine che il presidente Trump non si preoccupa troppo delle reazioni che suscita con le sue iniziative. Per lui « America first » è solo uno slogan elettorale, si è ben visto con l’uscita nel 2017 degli Stati Uniti dall’UNESCO e con l’accordo di Parigi sul clima.
 
Note:
 
1. Tutti I movimenti salafiti-jihadisti lanciano inviti all’assassinio dopo la decisione USA. Comunque le reti sociali che essi controllano già lo facevano in occasione delle feste di fine anno, indicando vari bersagli sparsi nel mondo. Neanche in questo, dunque, c’è qualcosa di nuovo.
 
 
 
 
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