Un'analisi diversa
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Asie-Afrique – aprile 2010
Un’analisi diversa
di Christophe Oberlin (professore universitario)
Un anno dopo i massacri di Gaza, grandi media e dirigenti politici occidentali sembrano tutti d’accordo. I Palestinesi, soprattutto quelli di Gaza, massacrati lo scorso anno e sottoposti al blocco internazionale, hanno diritto alla nostra compassione. Sul piano politico, non c’è altra soluzione che quella di riprendere la strategia dei piccoli passi dopo il “processo di Oslo”, di rimettere in pista il “quartetto” e la sua “road map”, e di continuare a incoraggiare “l’Autorità palestinese” a proseguire nei contatti con Israele, perché la cosa peggiore sarebbe la cessazione del dialogo. Quanto all’Autorità, legalmente eletta, che amministra la striscia di Gaza, attendiamo il suo crollo “spontaneo”.
Idee discutibili
Tale visione, largamente consensuale perfino in certi ambienti filo-palestinesi, si fonda su un certo numero di idee considerate indiscutibili. “Bisogna privilegiare la Cisgiordania perché vi si vive meglio e Fatah, partito laico e democratico, vi ha la maggioranza”. “Hamas è un movimento terrorista, teocratico, che suscita un crescente rifiuto nella striscia di Gaza”. “Il muro sotterraneo, che sta per essere terminato tra Gaza e l’Egitto, riuscirà a fermare il contrabbando di armi e ad indebolire Hamas”. “La formula chiave per l’avvio di un vero negoziato di pace è il preliminare riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele da parte dei Palestinesi”. “E questo negoziato porterà necessariamente ad un compromesso doloroso per le due parti”. “Con la creazione di uno Stato palestinese smilitarizzato sulla maggior parte della Cisgiordania e su Gaza, la pace sarà definitivamente assicurata in questa regione del mondo”.
E sei i nostri osservatori, strateghi e dirigenti politici si sbagliassero completamente?
“Bisogna privilegiare la Cisgiordania perché vi si vive meglio e Fatah, partito laico e democratico, vi ha la maggioranza”.
Avendo soggiornato diverse decine di volte a Gaza e in Cisgiordania negli ultimi nove anni, il vissuto dei miei amici palestinesi di tutti gli orientamenti politici mi sembra ben diverso. No, non si vive meglio in Cisgiordania. Certamente qui le condizioni economiche sono senza dubbio migliori, anche se abbiamo visto non molto tempo fa che ci sono medici che frequentano le mense popolari… Soprattutto si vive peggio nella testa. Gli innumerevoli posti di blocco sono accettati sempre di meno dalla popolazione. E le retate notturne dei giovani Palestinesi da parte dell’esercito israeliano, quotidiane, minano lo spirito dei genitori e quello dei figli. Il governo di Fatah, incapace di proteggere i suoi figli, gode di largo discredito. Il risultato di vere elezioni libere non è affatto sicuro per Fatah.
Per contro sono prevedibili frodi massicce, largamente incoraggiate dall’occupante, dato che tutti gli eletti dell’opposizione non sarebbero liberati per consentire loro di fare campagna elettorale e partecipare al controllo democratico.
Subordinare gli aiuti forniti attualmente all’Autorità Palestinese alla liberazione dei prigionieri politici, alla soppressione degli arresti domiciliari per i deputati liberati, alla riapertura del Parlamento, sarebbe una misura positiva che la comunità internazionale potrebbe imporre, l’unica che potrebbe consentire elezioni corrette, come quelle del febbraio 2006 (largamente vinte da Hamas).
“Hamas è un movimento terrorista, teocratico, che suscita un rigetto crescente nella striscia di Gaza”
Non vi è alcun bisogno di ricordare, salvo che alle persone in mala fede, che il terrorismo è l’arma di chi non ne possiede altre. E si potrebbe immaginare l’apocalisse che verrebbe fuori da un Hamas che disponesse delle stesse armi e ne facesse lo stesso uso che ne fa Israele?
D’altra parte Hamas, che ha preso il potere all’esito di elezioni corrette, sarebbe pronto a rinunciarvi in caso di sconfitta elettorale. In un’ epoca nella quale qualcuno ha auspicato l’iscrizione del cristianesimo nella Costituzione europea, sa veramente di razzismo sostenere che un partito che si ispira all’islam debba essere necessariamente una teocrazia antidemocratica.
Io ho personalmente parlato, qualche settimana fa nella striscia di Gaza, con un ex ministro di Fatah ed un attuale deputato indipendente. Nessuno di loro è stato in grado di farmi il nome di un solo dirigente di Fatah attualmente in prigione a Gaza, Già sento gli strilli dei miei detrattori. Ma se ve ne sono, perché non me ne hanno parlato?
Quanto alle elezioni, vi sono molti motivi per prevedere che le vincerà Hamas. Dopo l’evacuazione dei coloni nell’agosto 2005, sono cessati i colpi di mitraglia quotidiani che partivano dagli insediamenti. E’ tornata la sicurezza. Si può tranquillamente circolare da Nord a Sud nella striscia di Gaza. Gli stipendi sospesi da Ramallah ai funzionari che continuano a lavorare sono pagati da Hamas. I funzionari pagati da Ramallah a condizione di restarsene a casa sono assai malvisti. Gli ospedali, le scuole, le università (100.000 studenti) funzionano. E se spettasse ai Palestinesi di scegliere liberamente i propri dirigenti? E se l’austera Hamas fosse il partito al quale oggi meglio si identifica un popolo che lotta per la sopravvivenza e la dignità?
Oggi i tunnel funzionano a pieno regime. Ogni tunnel è registrato al comune di Rafah. Gli operai sono dichiarati, il loro reddito è garantito, come gli indennizzi in caso di incidente. La benzina costa quattro volte meno che in Israele, un sacco di cemento costa 50 shakel (il doppio del sacco importato, se fosse possibile procurarselo). Quelli che hanno tagliato con l’arco elettrico il muro di dieci chilometri tra Gaza e l’Egitto nel gennaio 2008 sono evidentemente capaci di perforare qualsiasi cassaforte. Un tunnel di 300 metri si costruisce in sei settimane. Numerosi tunnel sono scavati sotto il muro sotterraneo. La costruzione di questo muro è una messinscena psicologica per una certa opinione pubblica occidentale, e una ragione in più per quella egiziana di detestare il suo presidente a vita. Se le elezioni a Gaza dovessero premiare la buona amministrazione, oggi Hamas le vincerebbe.
Spesso accade che, quando non si riesce ad ottenere una risposta non soddisfacente, ciò è dovuto al fatto che la domanda è mal posta. I Palestinesi, ammesso che qualcuno lo domandi loro, non riconoscerebbero mai il “diritto” all’esistenza di un paese che si è formato al di fuori di ogni diritto. Ciò che potrebbero eventualmente accettare è l’”esistenza” di questo Stato, a condizione che li si ringrazi, potrei aggiungere! Ciò vuol dire che una tale accettazione potrebbe, eventualmente, costituire solo l’ultimo risultato di un negoziato e non certo una condizione preliminare. Quanto al “compromesso doloroso”, non è immaginabile che i Palestinesi, confinati nel 22% della Palestina storica, possano accettare in tutta onestà di dare di più. Ciò potrebbe avvenire solo se vi saranno costretti e non come risultato di una pace, che significa il riconoscimento dei diritti altrui.
Indispensabile pace degli spiriti
“Con la creazione di uno Stato palestinese smilitarizzato sulla maggior parte della Cisgiordania e su Gaza, la pace sarà definitivamente assicurata in questa regione del mondo”.
Niente sarà definitivo se non si raggiunge una pace degli spiriti per coloro che vivono oggi in Israele-Palestina. La “soluzione” dei due Stati è probabilmente una tappa necessaria che consentirebbe che i maggiori risentimenti si attenuino. Ma questi due Stati dovranno godere delle medesime prerogative, soprattutto il “monopolio della violenza volontaria”, per citare Max Weber, vale a dire una polizia che faccia rispettare la legge, ed un esercito che supporti la diplomazia. A questo proposito, l’acquisizione, in mancanza di meglio (una denuclearizzazione delle grandi potenze), della tecnologia nucleare da parte dell’Iran potrebbe favorire l’apertura di veri negoziati.
Ma la questione israeliana non sarà ancora risolta. Nessuno Stato potrà sopravvivere se continuerà a limitare i diritti di una parte della sua popolazione in funzione di una origine etnica “vera o supposta”. Qualcuno parla già di un “Kosovo in Galilea”. I Palestinesi che vivono in Israele dovranno vedersi riconosciuti i loro diritti e il carattere “ebraico” dello Stato dovrà essere abbandonato. Allora le due entità che si saranno affrontate per più di un secolo apriranno le frontiere, per un migliore benessere loro e dei loro figli.