Blocco di Gaza
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Hebdo Al-Ahram, juin 2010
Blocco di Gaza. Sotto la pressione internazionale, Israele si è decisa ad allentare il blocco imposto da quattro anni. Autorizza ormai l’ingresso dei beni di uso civile, ma vieta di fatto l’ingresso della maggior parte delle merci
Un allentamento di pura forma
E’ stato per ritoccare un’immagine deteriorata, fatta di blocchi illegali e di attacchi militari contro militanti umanitari, che Israele è stata obbligata a gettare la zavorra. Il coriandolo, il cumino, i materassi e gli asciugamani, il cui ingresso a Gaza era vietato da quattro anni, per “proteggere la sicurezza di Israele”, saranno ormai accessibili ai Palestinesi di questa striscia circondata da tutte le parti, ivi compresi il mare e l’aria. Secondo i media israeliani, le nuove regole prevedono la redazione di una “lista nera” contenente circa 120 prodotti o materiali vietati, come i materiali da costruzione, tra cui tubi, cemento e ghiaia, mentre tutto il resto potrà liberamente entrare a Gaza. Il cemento e l’acciaio sono stati, fino ad oggi, totalmente vietati, con ciò impedendo la ricostruzione della striscia di Gaza dall’ultima guerra israeliana. Oggi sono autorizzati un centinaio di prodotti, contro i 4000 di prima del 2007, secondo l’organizzazione israeliana per i diritti dell’uomo Gisha. Il blocco ha impedito alle Nazioni unite di mandare i materiali da costruzione necessari per la “realizzazione del piano internazionalmente accettato e finalizzato a ricostruire migliaia di alloggi e altri edifici danneggiati o distrutti durante l’offensiva israeliana”, secondo Chris Gunness, portavoce dell’ONU. Il blocco ha anche causato la chiusura di numerose fabbriche, ha privato del lavoro migliaia di persone ed ha provocato la paralisi della fragile economia del territorio.
Sotto pressione internazionale, dopo l’attacco sanguinoso contro la flotta umanitaria dello scorso giugno, Tel Aviv ha optato per l’allentamento. Un indizio di ammorbidimento le cui modalità restano assai sfumate. Come sarà messa in opera questa decisione? Nessuno lo sa. Perfino l’Unione Europea (UE), che ha spinto in questa direzione dislocando sul posto l’inviato speciale del Quartetto, lo ignora. “E’ un passo nella direzione giusta, ma sono i dettagli che contano”, ha tuttavia dichiarato Cristina Galach, portavoce della presidenza spagnola dell’UE.
Migliorare la propria reputazione
L’Europa giudica tuttavia insufficiente questa misura. Essa vorrebbe in effetti garantire una propria presenza ai punti di passaggio per controllare il transito di merci verso Gaza. La Svizzera avrebbe proposto un meccanismo per “assicurare Tel Aviv che non c’è contrabbando di armi”. Sembrerebbe che l’essenziale sia la sicurezza di Israele e non la sorte di un milione e mezzo di Palestinesi, di cui più dell’80% dipende dagli aiuti stranieri. La vita quotidiana della grande maggioranza degli abitanti di Gaza non è affatto facile. La constatazione è drammatica.
In concreto, l’alleggerimento del blocco non riguarda il mare di Gaza. Le vie marittime del territorio resteranno completamente chiuse, ostacolando, sotto gli occhi della comunità internazionale, la pesca e cosi paralizzando un settore assai florido in passato. Il posti di frontiera tra Israele e Gaza resteranno ugualmente chiusi, per riaprire solo in certe occasioni per le merci non catalogate come “sostegno alla guerra”. E’ per questo motivo che l’Autorità palestinese, così come Hamas, ha considerato questa dichiarazione di principio israeliana insufficiente, ed ha chiesto la cessazione totale del blocco imposto alla enclave povera, tanto più che esso è del tutto illegale dal punto di vista giuridico.
Ma Israele paga in parte il prezzo necessario per migliorare la propria reputazione internazionale dopo il disastroso attacco alla flotta. Ogni volta che le pressioni internazionali diventano troppo forti, Israele concede qualcosa sul piano umanitario, semplicemente per poter evitare di cedere sul piano,politico. Questa volta gli Israeliani volevano sottrarsi alle pressioni per la creazione di una commissione di inchiesta “internazionale” sull’attacco militare contro la nave umanitaria Marmara, nel corso del quale nove turchi sono stati uccisi da decine di colpi israeliani in acque internazionali. Tel Aviv, che vuole condurre l’inchiesta da sola, ha respinto questa proposta ed ha annunciato la creazione di una “commissione pubblica” con due osservatori internazionali, senza diritto di voto. Questa commissione israeliana avrà il compito di “indagare sugli aspetti relative all’azione posta in essere dallo Stato di Israele per impedire a delle navi di toccare le coste di Gaza”, secondo il comunicato dell’ufficio del primo ministro israeliano.
Un modo di evitare una inchiesta “credibile”. Ankara, la più coinvolta, ha denunciato in anticipo “l’inchiesta imparziale”, insistendo per la creazione di una commissione di inchiesta sotto “il controllo diretto delle Nazioni Unite” che includa rappresentanti turchi e israeliani. E’ senza dubbio per questo motivo che il primo ministro israeliano Netanyahu deve andare il 6 luglio a Washington per incontrare il presidente Obama.
Samar Al-Gamal
Blocco di Gaza. 1,7 milioni di abitanti di Gaza si chiedono quando potranno liberarsi di questa gabbia del blocco, che ha sconvolto la loro vita quotidiana e paralizzato il loro sistema economico e commerciale
Nella grande prigione
Nei mercati, sulle spiagge, nei caffè dove siedono molti giovani disoccupati, la gente di Gaza si interroga su quando terminerà il blocco. Uno stato d’assedio che isola circa 1,7 milioni di persone dal resto del mondo. Commercianti, le cui merci aspettano di poter entrare attraverso i punti di passaggio controllati da Israele, malati che cercano un permesso di passaggio per potersi curare, pescatori che vorrebbero poter allontanarsi per poter pescare di più, tutti si sentono prigionieri nella loro patria da 4 anni. Anni penosi e difficili che hanno ridotto il 75% della popolazione di Gaza alla disoccupazione e costretto alla chiusura il 90% delle fabbriche (secondo dati forniti dalla Camera di commercio Palestinese), e spinto 36.000 famiglie al di sotto della soglia di povertà (secondo l’UNRWA).
Dappertutto, nelle strade di una bella regione resa triste dalla guerra, quando si chiede ai giovani che lavoro fanno, rispondono tutti di essere disoccupati. Ibrahim, diplomato da sette anni, non trova di che sostenersi, soprattutto con l’aumento dei prezzi. Ha quanto meno cercato un’opportunità di lavoro fuori dalla striscia di Gaza, ma inutilmente. “Anche se i miei genitori sono all’estero, non ho avuto l’autorizzazione ad uscire”.
Una disoccupazione che, secondo Mohamad Al Qoudwa, presidente della Camera di Commercio palestinese, è una delle conseguenze del blocco. “Il settore della costruzione, da cui dipendono più di 74 mestieri a Gaza, è sempre più colpito dal fatto che 120.000 abitanti di Gaza che lavoravano in Israele non sono più autorizzati a farlo”, dice, aggiungendo che, prima del blocco, Gaza riceveva 4000 generi di merci, che si sono ridotte a sole 120. Molti commercianti si lamentano di avere migliaia di tonnellate di merci bloccate nei punti di passaggio israeliani, come il caso di Abou-Haissam Younès, grande commerciante di apparecchi elettrodomestici e di abbigliamento, e che assicura di avere prodotti per un valore di 150.000 dollari bloccati dagli israeliani. Merci che si sono talvolta avariate dopo anni di attesa, come nel caso di Khaled Abou-Sahoul che, dopo tre anni, ha avuto il permesso di far entrare i suoi prodotti. Ma erano tutti avariati, nonostante avesse pagato 1.700 shekel al mese per lo stoccaggio.
La pesca miracolosa
Dal centro-città al mare, il blocco ha fermato tutto. Sul viale principale di Gaza, molti pescatori restano con le braccia incrociate davanti alle loro imbarcazioni e passano il tempo a riparare le loro reti. Non c’è pesce nei 4827 metri quadri dove è loro permesso di pescare. “Altrimenti siamo minacciati dai tiri israeliani o rischiamo che le nostre imbarcazioni vengano bruciate”, spiega Moahmoud Al-Assi, capo dell’associazione dei pescatori di Gaza. Una minaccia che non scoraggia Mahmoud Abou-Gahala dal correrne quanto meno il rischio. Non ha altro modo per sostenere la sua famiglia. “Non è tanto importante che mi sparino addosso, l’importante è che non mi distruggano il battello, che è l’unica risorsa per la mia famiglia”, spiega.
Altri pescatori tentano di andare a cercare pesci nelle acque egiziane, ma la maggior parte sostiene di guadagnare assai poco. “3800 pescatori che lavorano in uno spazio limitato non possono guadagnare bene”, dice Iyad, professore disoccupato che tenta di procurarsi da vivere in un mare diventato avaro per colpa del blocco. Di fronte alle difficili condizioni di vita dei pescatori, l’associazione ha offerto loro negli ultimi quattro anni 600.000 dollari di credito per comprare degli strumenti di pesca o tentare di sopravvivere. Oltre a un altro progetto in cooperazione con il programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (PNUD). Questo aveva per obiettivo di realizzare 405 occasioni di lavoro. Il programma prevede anche di addestrare altri venti pescatori alla costruzione e riparazione di battelli da pesca.
Misure simili sono state prese anche dalla UNRWA, che offre aiuti alimentari al 70% dei rifugiati di Gaza. “Noi abbiamo raddoppiato i nostri aiuti ai Palestinesi dopo il blocco, soprattutto per 36.000 famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà, oltre ad un altro programma per lottare contro la disoccupazione che impegna 8000 persone in lavori stagionali”, spiega Hossam Manna, direttore del programma di soccorso e dei servizi sociali a Gaza. Sono alcuni modi per alleggerire il peso del blocco per una popolazione che ne soffre molto.
Matrimonio? No…
Per i giovani di Gaza in età di matrimonio, questo embargo costituisce anche un ostacolo ai loro progetti. “Le nostre tradizioni obbligano l’uomo a pagare tutte le spese del matrimonio, che vengono a costare oggigiorno più di 10.000 dollari e, con la crisi del materiale da costruzione che costa carissimo, è difficile risolvere, cosa che ha elevato a 30 anni l’età media del matrimonio e questo non è abituale per le nostre popolazioni”, spiega Mohamad Nassar. Egli rileva che il blocco ha anche elevato il tasso della litigiosità familiare, perché molte coppie novelle hanno dovuto occupare spazi esigui dividendoli con le famiglie di provenienza, “cosa che provoca molti problemi e porta in molti casi al divorzio”, aggiunge Nassar, chiedendosi quando questo blocco sarà levato.
Un interrogativo e una speranza per tutti gli abitanti di Gaza che sentono di vivere in una grande prigione. “Non è tanto questione di mangiare, ma di libertà di movimento. Di uscire fuori Gaza per visitare le nostre famiglie nelle altre città palestinesi e permettere ai nostri ammalati di accedere alle cure che non sono possibili a Gaza”, dice Gassane, un ragazzo di 12 anni che si chiede quando avrà il diritto di condurre una vita simile a quella degli altri ragazzi che vivono in pace e hanno la libertà di potersi muovere.
Doaa Khalifa, con Nader Taman
Blocco di Gaza. Gli abitanti usano tutti i mezzi possibili per assicurarsi un approvvigionamento che passa soprattutto attraverso i tunnel
Lotta al quotidiano
Climatizzatori di Bahrein, televisioni di Taiwan, frigoriferi egiziani, telefoni mobili ultimo tipo… Nonostante il blocco, merci e apparecchi elettronici si trovano qualche volta a caro prezzo. “Gli abitanti di Gaza si arrangiano per lottare contro il blocco” dice Maher Al-Tabaa, responsabile delle relazioni pubbliche della Camera di Commercio palestinese. Nella strada, automobili che trasportano merci vanno avanti e indietro nella città stretta d’assedio. Ed è sempre la stessa risposta: “I tunnel sono la fonte di vita per Gaza”. Le merci, che passano per i tunnel sotto la frontiera con l’Egitto, trovano immediatamente a Gaza degli acquirenti. Anche le interruzioni di corrente elettrica possono essere fronteggiate con i generatori elettrici fatti entrare nei territori palestinesi grazie ai tunnel. Con essi si illuminano le case e si consente ai liceali di ripassare le lezioni la sera. I generatori vengono dal quartiere cairota di Ataba, secondo alcuni. Ci sono anche le auto e i battelli da pesca che hanno bisogno di benzina, al cui posto si utilizza talvolta dell’olio alimentare nei motori, come racconta Adnan, autista di taxi. Per fare fronte alla disoccupazione, bisogna cambiare attività. Lyad, professore di 30 anni, ricorre alla pesca durante l’estate, oppure cerca di fare qualcosa nei programmi dell’Unrwa. E per distrarre gli spiriti, i giovani giocano al football, da ferventi supporter delle squadre egiziane Ahli e Zamalek. Mentre nei caffè, la gente si riunisce per seguire le partite della coppa del mondo.
Blocco di Gaza. La famiglia Malaka vive a Jabaliya, a nord di Gaza, proprio vicino alla frontiera israeliana. Conduce una vita quotidiana incerta e precaria, sia in tempo di guerra che di pace, a causa del blocco
La vita sotto due blocchi
Su di una lunga distesa di terra e di larghe superfici verdi, ormai devastate ma che mostrano sempre la bellezza di un tempo, si erge la casa della famiglia Malaka. Di fronte, dei bambini da due a dodici anni giocano su di una vecchi altalena con una gioia e una gaiezza che sfidano qualsiasi sofferenza. Anche se vivono sotto il tetto di una casa crivellata dai colpi israeliani, con le finestre senza vetri, e non possono uscire dopo le 8 di sera in mancanza di illuminazione stradale, tutto questo non impedisce loro di avere il sorriso sulle labbra. A Jabaliya, a nord di Gaza, e vicinissimo alla frontiera con Israele, la famiglia Malaka è una delle due grandi famiglie che abitano questo luogo lontano e poco sicuro. Malgrado la serenità e l’aspetto pacifico dei luoghi, la grande famiglia non riesce a resistere al blocco che li minaccia sia in tempo di guerra che di pace. Una famiglia che non ha ancora ripreso a respirare dopo i lunghi giorni di terrore e i traumi dell’operazione “Piombo fuso” dell’inizio del 2009. Essa soffre oggi sia del blocco imposto a Gaza, che degli arresti e delle minacce di Hamas. Responsabile di una famiglia di più di 20 persone, la madre Oum Adel ha il viso rugoso che rivela la sua età e soprattutto i lunghi giorni di sofferenza e di oppressione vissuti. La donna coraggiosa e resistente racconta di aver vissuto dei giorni bui sotto i raid israeliani durante le ultime due settimane di guerra. “Ci hanno accerchiati nella casa, senza permettere a nessuno di uscire. Eravamo in dieci ammassati in una stanza e cercavamo di proteggerci dai tiri che hanno demolito l’appartamento di uno dei miei figli e crivellato le mura della nostra casa. Neppure i soccorritori della Croce Rossa ci hanno potuto salvare”, si ricorda. Le grida di suo figlio sotto il fuoco israeliano, che si torceva per i dolori renali, sono per sempre scolpiti nella sua memoria. La guerra è terminata con delle case demolite ed altri danni irreparabili, soprattutto per colpa di un blocco che soffoca Gaza da più di quattro anni. Quanto alla famiglia di Abdel-Kérim Qadoura, le invasioni e le bombe al fosforo hanno distrutto gli alberi da frutto della terra che forniva loro sostentamento. Oggi, un anno e mezzo dopo la guerra, la famiglia non riesce a tornare alla normalità. E allora ci pensa Fatah a fornire loro ciò di cui hanno bisogno.
Oum Adel spiega che non c’è “cemento, né materiale da costruzione. E quando si trova, è venduto a prezzi per noi esorbitanti”. Allora le finestre di qualche stanza rimasta in piedi sono coperte di plastica e Tayae, il figlio che ha intermente perduto la sua casa per i bombardamenti israeliani, si accontenta di dividere una sola stanza con sua moglie e i tre figli. “Cos’altro possiamo fare?”, si chiedono i membri della famiglia che tenta di sopravvivere al blocco come faceva durante la guerra. Una famiglia che pensa che il governo di Hamas impone anche lui un blocco all’interno, mentre gli israeliani lo fanno all’esterno. “Di conseguenza la nostra vita quotidiana è assai difficile tra l’assenza di elettricità che fa di Gaza una città fantasma di sera. Quanto all’acqua, un bene essenziale, ci costa 35 shekels al giorno (10,5 dollari)” dice Abdel-Kérim Qadoura. Oltre alle difficoltà dovute alla disoccupazione, la vita della famiglia Malaka, che teme sempre un’altra incursione israeliana, si mantiene a un filo. “Andare ad abitare altrove è impossibile col blocco. Senza contare che un appartamento costa oggi 40.000 dollari minimo”, aggiunge Adel, figlio maggiore di Abdel-Kérim.
Blocco di Gaza. Ridurre il blocco o meno, non è questo il problema principale. Perché l’assedio imposto a Gaza è del tutto contrario al diritto internazionale
Il diritto internazionale calpestato
“L’attacco contro la flotta della Libertà è un attacco contro il diritto internazionale”. Questa dichiarazione del primo ministro turco Recep Erdogan ha valorizzato l’aspetto fuorilegge dell’atto di pirateria israeliano, ma ha anche ricordato che, in fondo, è anche il blocco come tale ad essere contrario al diritto internazionale. Prima di tutto Israele, come potenza occupante, ha delle responsabilità e anche dei doveri verso il popolo palestinese la cui terra occupa. E’ quanto affermano diversi esperti giuridici. Alcuni, è vero, ritengono che Israele non abbia più obblighi di questo tipo dopo il ritiro da Gaza nel 2005, ma sul punto il dr. Abdallah Al-Achaal, professore di diritto internazionale all’università americana del Cairo ed ex assistente del Ministro degli Affari esteri, risponde: “C’è occupazione anche senza presenza militare, se c’è il controllo reale del territorio”. Israele controlla la terra, il mare, lo spazio aereo e i punti di passaggio per Gaza. Dunque resta obbligata, secondo il diritto internazionale e i Trattati di Ginevra e di Le Haye, ad assicurare agli abitanti di Gaza i mezzi per vivere. Non deve, inoltre, colpire i civili. Ora, lo Stato ebraico, non solo non rispetta questi impegni, ma impedisce anche a chiunque altro di farlo. “E’ un doppio crimine”, spiega Al-Achaal. Israele impedisce l’ingresso degli aiuti umanitari, cosa che viola il diritto internazionale. L’articolo 2/1/54 del protocollo addizionale I del 1977 vieta di ridurre i civili alla fame, perfino in un contesto di guerra. In più questo fatto è considerato come crimine di guerra, secondo lo statuto fondativo della Corte Penale Internazionale (CPI). Dal 2007 Gaza è sotto embargo, gli aerei non possono sorvolarne lo spazio aereo, le navi non possono avvicinarsi alle coste e i convogli terrestri attraversarne le frontiere. Di conseguenza, Gaza è isolata e manca dei mezzi fondamentali di vita. La situazione si è aggravata con l’offensiva israeliana del dicembre 2008. “E’ un nuovo Olocausto”, sottolinea Al-Achaal, per descrivere l’atteggiamento israeliano. Secondo il testo che criminalizza il genocidio del 1951, si può considerare questo embargo come un genocidio. L’argomento israeliano lo si conosce: “Occorre mantenere l’embargo su Gaza per impedire l’ingresso di armi nella striscia controllata da Hamas”, ha tentato di rispondere il ministro israeliano della Difesa, Ehud Barak. Ma la protezione contro il “terrorismo” di Hamas non è una scusa valida, secondo il diritto internazionale. La realtà concreta lo smentisce.
Risorsa salutare
Un milione e mezzo di abitanti chiusi in uno spazio di 363 km quadrati. Un’economia annientata dall’embargo. Il tasso di disoccupazione al 38,6% della popolazione attiva nel 2009, secondo l’Ufficio palestinese di statistica. L’UNRWA (Ufficio delle Nazioni Unite per i rifugiati) ha stimato che il numero dei rifugiati che vivono nella povertà estrema nella striscia di Gaza sarebbe triplicato dall’inizio del blocco nel 2007, passando da circa 100.000 a quasi 300.000. D’altra parte l’insicurezza alimentare tocca il 60,5% delle famiglie, secondo le statistiche del 2009, contro il 56% del 2008, stimate dalla FAO. Il mare diventa allora l’unica risorsa per potersi nutrire e lavorare. Israele ha assunto delle misure per sconvolgere anche questo settore. Spiagge chiuse, permessi negati, arresti e brutalità contro i pescatori, distruzione delle reti, limitazione delle zone di pesca autorizzate… in violazione del diritto internazionale. L’articolo 2 del trattato internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali del 1966 attribuisce a tutto il popolo il diritto di utilizzare le proprie risorse, nel rispetto della cooperazione economica internazionale. E’ comunque vietato privare un popolo delle sue risorse di vita.
Certo vi sono stati altri casi di blocco ingiusto, contro l’Iraq e l’Iran per esempio, ma almeno queste misure erano state adottate dal Consiglio di sicurezza: la risoluzione 661 imposta all’Iraq e quelle n.ri 1737, 1747 e 1803 all’Iran. Esse hanno imposto all’Iraq un embargo che è durato più di 10 anni e all’Iran delle sanzioni economiche. In questi due casi, l’embargo è stato decretato dall’ONU, mentre a Gaza l’embargo non è stato autorizzato dal Consiglio di sicurezza. Allora, secondo le stesse dichiarazioni di Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite, “bisogna porre fine a questo embargo inaccettabile”.
Mavie Maher
Blocco di Gaza. Il movimento che controlla Gaza ha guadagnato in prestigio dopo l’alleggerimento del blocco, ma continua a trovarsi in una posizione difficile di fronte agli abitanti di Gaza
Gli occhi rivolti ad Hamas
I dirigenti di Hamas non hanno perso l’occasione di alzare la voce: “Respingiamo la decisione sionista, che costituisce un tentativo di aggirare la richiesta internazionale di una completa cessazione del blocco della striscia di Gaza”. Ismail Radwane, un dirigente di Hamas, ha così risposto alla decisione israeliana di alleggerimento del blocco. Una risposta forte a quella che è sembrato essere, né più né meno, un atto di carità. “Noi chiediamo l’apertura permanente dei punti di passaggio terrestri e marittimi, sulla base di nuovi accordi che garantiscano la libera circolazione delle persone e delle merci da e verso Gaza”, precisa Hamas. Questo movimento palestinese, che controlla la striscia di Gaza, ha così ribadito la propria opposizione all’annuncio israeliano, esigendo la cessazione totale del blocco imposto all’enclave palestinese povera e sovrappopolata, nella quale più dell’80% della popolazione dipende dall’aiuto straniero. Si tratta infatti di un’occasione per riposizionarsi sulla scena politica, tanto più che si pongono molti interrogativi circa il consenso di cui gode questo movimento di resistenza islamica sotto il blocco.
Questa situazione valorizza il ruolo di Hamas o no? Secondo Emad Gad, ricercatore del centro di Studi Politici e Strategici (CEPS) di Al-Ahram, si tratta di “una occasione della quale Hamas ha potuto beneficiare approfittando dell’enorme concentrazione mediatica sulla vicenda della flottiglia. Il mondo intero ha rivolto lo sguardo verso Gaza, per cui era tempo per Hamas di tentare di imporsi sulla scena, soprattutto considerando che l’immagine di Israele è in effetti appannata da un po’ di tempo”, spiega Gad.
Indebolito o rafforzato?
E’ vero che, fin dall’avvio del blocco, la posizione di Hamas ha conosciuto degli alti e dei bassi. Questo movimento di resistenza è stato veramente indebolito dal blocco o al contrario ne è uscito rafforzato, guadagnandone in prestigio? Un domanda che i politologi si pongono sempre di più. E’ forse perché fin dall’inizio la ragione invocata pubblicamente per l’imposizione del blocco era legata ad un preciso obiettivo, vale a dire l’indebolimento di Hamas. Se per qualcuno il blocco è fallito, è perché Hamas non si è affatto indebolito.
E’ d’altra parte su questo che Israele ha insistito, prevedendo che l’alleggerimento del blocco avrebbe rafforzato gli islamisti di Hamas. Il vice ministro israeliano della Difesa, Matan Vilnai, ha così affermato: “Non c’è dubbio che la decisione di permettere l’ingresso di un maggior numero di merci a Gaza, contribuisce ad aiutare indirettamente Hamas a rafforzare il suo potere”. E ha aggiunto: “Non bisogna voltare la faccia, tutto ciò che entra a Gaza passa sotto il controllo di Hamas che poi effettua la ripartizione delle merci, secondo i suoi criteri”.
Ma le cose non sono così semplici come appaiono a prima vista.
Secondo alcuni politologi, non è attualmente facile stabilire se Hamas si sia indebolito o rafforzato. E’ quanto sostiene Gad che spiega come, “per saperlo, bisognerebbe forse fare un referendum”.
Per certi aspetti non si può negare che il blocco possa avere rafforzato questo movimento di resistenza islamista. Hamas non è una forza che si possa prendere alla leggera. Si tratta di un movimento che ha potuto, nonostante il blocco, mantenere una salda rete di legami regionali con l’Iran o Hezbollah, spiega Gad che aggiunge: “Questo movimento è fortissimo a Gaza dove esercita un effettivo controllo. Ha un suo apparato di sicurezza che funziona bene. Prova ne sia che quando hanno deciso di fare una tregua, per esempio, non un solo missile è stato lanciato”.
Ma questa forza domina un territorio che soffre la povertà di quasi ogni risorsa, senza poterla fronteggiare. Di qui la sua debolezza.
Una questione di popolarità
All’inizio, i Palestinesi vedevano in questo movimento una alternativa a Fatah che consideravano troppo passiva. Ma col tempo, e una volta assunto il potere, la popolarità di Hamas non fa che diminuire. Il politologo Said Okacha afferma che Hamas ha guadagnato la sua reputazione attraverso ciò che viene definita “la popolarità dell’opposizione”. Spiega: “Il popolo all’inizio votato per votare contro Fatah”. E aggiunge:”Oggi, se dovessero tenersi le elezioni, è certo che Hamas perderebbe una larga fascia di voti. E’ per questo che si può parlare di debolezza di Hamas”. Sono trascorsi tre anni dall’arrivo di Hamas al potere. Per i Palestinesi, niente è concretamente cambiato, al contrario essi avvertono sempre di più gli effetti del blocco che li chiude sempre di più. Soffrono per le penurie che toccano tutti i campi: salute, educazione e anche la libertà di movimento. “La crisi del palestinesi non è il cibo, come si pensa. Il loro vero problema è la mancanza di libertà di movimento. E malgrado tutte le pressioni su Hamas, la situazione non è mai cambiata. Col tempo i Palestinesi hanno scoperto che Hamas non ha loro offerto niente”, spiega Okacha.
Un paradosso: Hamas, rafforzata dall’ingiustizia israeliana, è minato al tempo stesso dal potere che esercita sugli abitanti di Gaza.
Chaimaa Abdel-Hamid