Storia ebraica e giudaismo - 1
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Le schede di Ossin, 14 agosto 2020 - Pubblichiamo un estratto del lavoro di Israel Shahak “Storia ebraica e giudaismo. Il peso di tre millenni”. Centro Librario Sodalitium, 1997. Estratto dal primo capitolo (nella foto, l'edizione italiana)
Storia ebraica e giudaismo - 1
Israel Shahak
Pubblichiamo un estratto del lavoro di Israel Shahak “Storia ebraica e giudaismo. Il peso di tre millenni”. Centro Librario Sodalitium, 1997, che vi consigliamo vivamente di leggere. Potete acquistarlo qui, qui, qui o qui.
Israel Shahak è un ebreo israeliano nato in Polonia (a Varsavia, il 23 aprile 1933) ed emigrato in Palestina nel 1945. Sopravvissuto dell’Olocausto, professore di chimica organica all’Università ebraica di Gerusalemme, ha combattuto tutta la vita per i diritti umani, scrivendo in ebraico e in inglese sui vari aspetti del giudaismo.
E’ morto a Gerusalemme il 2 luglio 2001
Capitolo primo (estratto)
Un’utopia chiusa?
Questo libro, pur scritto in inglese, è rivolto a chi vive fuori dallo Stato di Israele, è a suo modo un completamento della mia attività politica come ebreo, cittadino di Israele.
Comincia nel 1965-1966 con una protesta che, a quel tempo, suscitò un notevole scandalo. Ero presente, un sabato (shabbat), quando un ebreo ortodosso si rifiutò di mettere a disposizione il suo telefono per chiamare un’autoambulanza che portasse all’ospedale un non ebreo che aveva avuto un collasso. Invece di limitarmi a pubblicare l’episodio sulla stampa, chiesi che il tribunale rabbinico si riunisse e considerasse il caso. Come è noto il tribunale è composto di rabbini nominati dallo Stato di Israele.
Allora, chiesi se tale comportamento fosse legittimo alla luce della loro interpretazione della religione ebraica, e i rabbini risposero che l’ebreo in questione si era comportato con coerenza, o meglio secondo i dettami della fede, e citarono a sostegno un passo dell’autorevole “Compendio delle leggi talmudiche”, scritto in questo secolo. Da parte mia pubblicai tutti i dettagli dell’incidente sul quotidiano ebraico Ha’aretz, il che provocò un vero e proprio scandalo su tutti i media.
I risultati furono piuttosto negativi, almeno per me. Né le autorità rabbiniche israeliane né quelle della diaspora hanno mai smentito il principio secondo cui gli ebrei non possono violare lo Shabbat per salvare la vita di un gentile (un non ebreo).
Partendo dalle conoscenze della mia giovinezza, mi misi a studiare le leggi talmudiche che regolano i rapporti tra ebrei e non ebrei, arrivando a concludere che né il sionismo, compreso il suo versante laico, né la politica dello Stato di Israele sino dalla sua fondazione, né quella degli ebrei della diaspora che lo appoggiano dall’esterno, sono comprensibili se non si considera l’influsso decisivo che hanno queste leggi e la visione del mondo che esse creano ed esprimono. Da allora la mia convinzione è stata drammaticamente rafforzata, persino in astratto, dalla politica perseguita dopo la Guerra dei sei giorni e in particolare dall’apartheid imposto dal regime di Israele nei territori occupati e dall’atteggiamento della maggioranza degli ebrei nei confronti dei diritti dei Palestinesi.
Con queste affermazioni non voglio ignorare le considerazioni politiche o strategiche che condizionano la classe dominante di Israele, Dico soltanto che la politica israeliana di oggi è un’interazione tra considerazioni realistiche, secondo me sia valide che sbagliate, morali e immorali, e influenze ideologiche. Queste ultime esercitano un peso maggiore nella misura in cui sono meno discusse e “portate alla luce”, denunciate.
Tutte le forme di razzismo, discriminazione e xenofobia sono più forti e hanno un maggior peso politico se sono date per scontate e accettate come qualcosa di naturale dalla società che le pratica. Ancora di più se la discussione è proibita, sia formalmente che per tacito accordo. Quando il razzismo, la discriminazione e la xenofobia prevalgono tra gli ebrei, alimentate da motivazioni religiose, riproducono fedelmente il caso opposto, cioè l’antisemitismo con le sue radici religiose. Oggi, mentre il secondo è ampiamente discusso, l’esistenza stessa del primo è generalmente ignorata, più fuori di Israele, che nei suoi confini.
Definiamo lo Stato di Israele
Secondo Shahak, per capire il concetto di “Stato ebraico” (Jewish State), è indispensabile tenere conto del razzismo, della discriminazione e della xenofobia prevalenti nella società israeliana.
La generalizzata mistificazione che, senza considerare il regime di apartheid dei territori occupati, definisce Israele come una vera democrazia, nasce dal rifiuto di vedere cosa significa per i non ebrei lo “Stato ebraico”. Sono convito che Israele, in quanto Jewish State, è un pericolo non solo per se stesso e per i suoi abitanti, ma per tutti gli ebrei e per gli altri popoli e Stati del Medio Oriente, e anche altrove. Sono altresì convinto che altri Stati o entità politiche del Medio Oriente che si proclamano "arabi“" o “musulmani”, definizioni analoghe a quella di Stato ebraico, rappresentino anch’essi un pericolo. Comunque mentre di quest’ultimo tutti ne parlano, quello implicito nel carattere ebraico dello Stato di Israele è sempre taciuto e ignorato. Fin dalla fondazione, il concetto che il nuovo Stato di Israele era uno “Stato ebraico” fu ribadito da tutta la classe politica e inculcato nella popolazione con ogni mezzo. Nel 1985, quando una piccola minoranza di ebrei cittadini di Israele contestò questo concetto, il Knesset approvò a stragrande maggioranza una legge costituzionale che annulla tutte le altre leggi che non possono essere revocate se non con procedura eccezionale. Si stabilì che i partiti che si oppongono al principio dello “Stato ebraico”, o propongano di modificarlo per via democratica, non possono presentare candidature da eleggere al Parlamento, il Knesset (…) Basterebbe questo esempio per dimostrare che Israele non è una democrazia, visto che si fonda sull’ideologia ebraica ad esclusione non solo di tutti i non ebrei ma anche di noi ebrei, cittadini di Israele, che non siamo disposti a condividerla.
(…)
Consideriamo la definizione ufficiale del termine “israeliano”, che chiarisce la differenza di fondo tra Israele come Stato ebraico e la maggioranza degli altri Stati. Dunque, secondo la definizione ufficiale, Israele appartiene solo a quelle persone che le autorità israeliane definiscono appunto “israeliane”, indipendentemente da dove vivono. Al contrario, Israele non appartiene giuridicamente ai suoi cittadini non ebrei, la cui condizione è ufficialmente considerata inferiore.
In realtà questo vuol dire che, se i membri di un tribù peruviana si convertono al giudaismo e così sono definiti e considerati, in tanto che ebrei hanno immediatamente diritto alla cittadinanza israeliana e a sistemarsi in circa il 70% delle terre occupate del West Bank, e nel 92% dell’area vera e propria di Israele, destinate all’uso di cittadini ebrei. A tutti i non ebrei, e quindi non soltanto ai Palestinesi, è proibito usufruire di queste terre, e il divieto riguarda perfino i cittadini arabi di Israele che hanno combattuto nell’esercito israeliano e raggiunto anche gradi assai elevati.
(…)
Sono sicuro che gli ebrei statunitensi o britannici accuserebbero subito di antisemitismo i governi degli Stati Uniti, o dell’Inghilterra, se questi decidessero di definirsi “Stati cristiani”, cioè Stati che appartengono solo a cittadini definiti ufficialmente “cristiani” (…)
(Si può tuttavia diventare Israeliani, convertendosi alla religione ebraica, quando tale conversione venga ufficialmente accettata)
(…)
Secondo la legge dello Stato di Israele, è da considerarsi “ebreo” chi ha avuto una madre, una nonna, una bisnonna e una trisavola ebrea, di religione ebraica, oppure perché si è convertito al giudaismo da un’altra religione (…)
La prima di queste tre condizioni non è altro che la definizione talmudica di “chi è ebreo”, fondamento di tutta la tradizione ortodossa ebraica. Anche il Talmud e la legge rabbinica post talmudica riconoscono la conversione di un non ebreo al giudaismo, come pure l’acquisto di uno schiavo non ebreo da parte di un ebreo cui segue una forma diversa di conversione, come un modo per diventare ebreo, purché la conversione sia avallata da rabbini autorevoli e autorizzati e si svolga secondo modalità per essi accettabili. Per quanto riguarda le donne, una di queste “modalità accettabili” è il rito del “bagno di purificazione”, durante il quale tre rabbini ispezionano accuratamente la donna nuda. La cosa è ben nota ai lettori delle pubblicazioni in lingua ebraica ma i media in inglese non ne parlano, anche se sicuramente susciterebbe un certo interesse (…)
Ufficialmente lo Stato di Israele ha una legislazione discriminatoria nei confronti dei non ebrei, che favorisce esclusivamente in molti aspetti della vita come, tra i più importanti, il diritto di residenza, il diritto al lavoro e il diritto all’eguaglianza di fronte alla legge.
Per quanto riguarda la discriminazione del diritto di residenza, si fonda sul fatto che in Israele il 92% della terra è di proprietà dello Stato ed è amministrato dalla Israel Land Authority secondo i criteri del Jewish National Fund (JNF), affiliato all’Organizzazione Sionista Mondiale (World Zionist Organization). Sono regole fondamentali del JNF la proibizione a chi non è ebreo di stabilire la propria residenza, di esercitare attività commerciali, di rivendicare il proprio diritto al lavoro e questo soltanto perché non è ebreo. Al contrario agli ebrei non è in nessun caso proibito stabilire la propria residenza o aprire attività commerciali in qualsiasi località di Israele. Se discriminazioni simili fossero imposte in altri Stati agli ebrei, si parlerebbe subito, e a ragione, di antisemitismo e ci sarebbero massicce proteste.
Quando invece quelle discriminazioni sono normalmente applicate come logica conseguenza della cosiddetta “ideologia ebraica”, sono volutamente ignorate o, le rare volte che se ne parla, giustificate.
Secondo le regole del JNF, ai non ebrei si proibisce ufficialmente di lavorare le terre amministrate dalla Israel Land Authority (…)
Israele è uno Stato fondato sull’apartheid. Questo è il principio primo di tutto il suo sistema legale, oltre che la dimensione evidente e verificabile ad ogni livello sociale, residenziale, del viver quotidiano. Tuttavia la maggior parte delle leggi approvate dal Knesset, il Parlamento israeliano, non sembrano discriminatorie, almeno nella forma. Se si analizzano con un po’ di attenzione, si vede subito che, alla base di tutte, c’è la discriminazione tra ebrei e non ebrei.
La Legge dell’Ingresso del 1952 aveva apparentemente la funzione di regolare l’accesso al paese ma, senza specificare tra ebrei e non ebrei, recitava che “chi non è in possesso di un visto o di un certificato di immigrazione sarà immediatamente deportato e non potrà più richiedere il rilascio del visto”, la definizione di chi ha le qualifiche per ottenere il visto di immigrazione si trova nella parallela Legge del Ritorno: solo gli ebrei.
Infatti, la clausola della deportazione degli “stranieri” è applicabile solo ai non ebrei. Il Ministero dell’Interno non ha l’autorità di impedire a un ebreo, anche se ha precedenti penali e può costituire un pericolo per la società, di esercitare il suo diritto a stabilirsi in Israele. Solo un cittadino straniero non ebreo h bisogno del permesso, ma agli ebrei che giungono da altre nazioni vengono subito concessi tutti i diritti e i privilegi previsti per i cittadini di Israele: il certificato di immigrazione conferisce automaticamente la cittadinanza, il diritto di votare e di essere eletti anche se non conoscono una sola parola di ebraico. Il certificato di immigrazione dà diritto immediato alla cittadinanza in virtù del ritorno alla terra madre di Israele e a molti benefici finanziari che variano a seconda della nazione da cui provengono gli ebrei (…)
Agli stranieri, cioè ai non ebrei, può essere revocata la residenza anche se hanno vissuto in Israele anni ed anni, mentre nessuno può espellere gli indesiderabili se ebrei (…) e ciò grazie alle leggi sulla cittadinanza del 1952 che, senza mai menzionare ebrei e non ebrei, sono il fondamento primo dell’apartheid, insieme alle leggi sull’istruzione pubblica, alle norme della Israel Land Authority, che garantiscono la segregazione delle terre e le leggi matrimoniali religiose che sono mantenute separate dal codice matrimoniale civile.
I non ebrei devono risiedere molti anni in Israele prima di ottenere la cittadinanza, possono essere espulsi dall’oggi al domani, e debbono ufficialmente rinunciare alla loro cittadinanza originaria. Per esempio i cosiddetti “diritti dei residenti che rientrano in patria” (doganali, sussidi per le abitazioni e l’istruzione) valgono solo per gli ebrei, gli yored. La discriminazione più plateale è quella che appare nei documenti di identità che tutti sono tenuti a portare con sé e ad esibire in qualsiasi momento. Sotto la dicitura “nazionalità”, figurano le seguenti categorie: “ebreo”, “arabo”, “druso”, “circasso”, “samarita”, “caraita” o “straniero”. Dal documento di identità, i funzionari dello Stato sanno subito a quale categoria appartiene la persona (…)
La legge sulla coscrizione militare del 1986 non sembra discriminatoria perché usa l’espressione “giovani di leva arruolati” come termine universale e riferibile a tutti i cittadini di Israele. In realtà contiene un semplice marchingegno che ne fa una delle leggi più discriminatorie, un vero e proprio pilastro dell’apartheid: è la figura dell’enumerator, autorizzato a chiamare i giovani ad iscriversi nelle liste di leva, a convocarli al disrretto con uno specifico richiamo alle armi. Nella legge si fa uso del termine “autorizzato”, il che implicitamente lascia all’enumerator la facoltà di chiamare, o di non chiamare alle armi, i giovani in età di leva. Quelli che non ricevono la chiamata sono automaticamente esentati dal servizio militare. E’ semplicissimo: quelli che dai documenti di identità risultano appartenenti al “settore arabo” non vengono chiamati (1) .
L’ideologia della Terra Redenta
Israele promuove tra i suoi cittadini ebrei l’ideologia della Terra Redenta, allo scopo di ridurre al minimo il numero di non ebrei. Tale ideologia viene inculcata in tutte le scuole di Israele e ai ragazzi si insegna che vale per tutto il territorio dello Stato e, dopo il 1967, per la “Grande Israele”, per la “Terra di Israele”.
La Terra Redenta, “Riscattata”, è quella passata dalle mani dei non ebrei a quelle degli ebrei, cui appartiene sia nella forma della proprietà privata individuale, che in quella dello JNF o dello Stato ebraico. Al contrario, la terra che appartiene ai non ebrei è considerata “irredenta”.
L’utopia dell’ideologia ebraica fatta propria dallo Stato di Israele e quella di una terra tutta “redenta”, né posseduta né lavorata dai non ebrei. I leader del movimento sindacale sionista hanno sempre espresso questa idea ripugnante con la massima chiarezza. Walter Laquer, un devoto sionista, racconta che uno dei suoi padri spirituali, A.D. Gordon, morto nel 1919, era contrario per principio alla violenza e giustificava l’autodifesa solo in situazioni estreme, ma sia lui che tutti i suoi amici volevano che fossero solo i pionieri ebrei a piantare ogni albero e ogni cespuglio della “madrepatria ebraica”.
Questo equivaleva a dire che tutti gli altri se ne dovevano andare e lasciare che la terra fosse “redenta” dagli ebrei (…)
Allo stesso modo, il kibbutz, esaltato da tutti come il tentativo di realizzare l’utopia, era ed è un’utopia esclusivista: anche se i suoi membri sono tutti atei, per principio gli arabi sono esclusi, e si richiede che chi appartiene ad altre nazionalità per essere accettato debba prima convertirsi al giudaismo. Non c’è dunque da meravigliarsi se i ragazzi dei kibbutz rappresentino il gruppo più militarista della società israeliana.
L’esproprio delle terre (palestinesi) negli anni Cinquanta e poi, ancora su più vasta scala, negli anni Sessanta, e la colonizzazione forzata dei Territori occupati dopo la Guerra del 1967 sono il risultato di questa ideologia esclusivista, e non delle cosiddette “ragioni di sicurezza” con cui la propaganda israeliana giustifica sempre tutto. E’ questa ideologia che sta all’origine di piani israeliani di “giudaizzazione” della Galilea. Questa espressione curiosa vuol dire che Israele, con notevoli sussidi economici, incoraggia gli ebrei a insediarsi di Galilea.
(…)
L’espansionismo israeliano
Il pericolo fondamentale che uno “Stato ebraico” costituisce per il suo popolo, per tutti gli ebrei e per i suoi vicini, è il suo perseguire l’espansione territoriale come obiettivo motivato e giustificato dall’ideologia il che, inevitabilmente, porta con sé una serie ininterrotta di guerre. Più Israele diventa “ebraico”, o come diciamo noi nella nostra lingua “ritorna al giudaismo”, tendenza che si è venuta accelerando almeno dal 1967, e più la sua realpolitik coincide con considerazioni ideologiche “ebraiche”, sempre meno razionali. Uso il termine “razionale” non per esprimere un giudizio morale sulla politica di Israele o per sottolineare le sue necessità di difesa e sicurezza e, ancor meno, di sopravvivenza. Parlo della politica imperialista di Israele e dei suoi presunti interessi (…)
La mia conversione politica, da ammiratore da Ben Gurion a duro oppositore, avvenne proprio per questo motivo. Nel 1956, ammiravo con entusiasmo tutte le motivazioni politiche e militari che Ben Gurion addusse quando scatenò la guerra di Suez. Il terzo giorno dal nostro attacco, davanti al Knesset, lui, un ateo irriducibile, orgoglioso di aver sempre ignorato tutti i precetti della religione ebraica, dichiarò che la vera ragione per combattere quella guerra era la “restaurazione del regno di Davide e Salomone” fino ai confini descritti dalla Bibbia. A questo punto, quasi tutti i membri del Knesset si alzarono in piedi e si misero a cantare l’inno nazionale ebraico, Che io sappia, nessun uomo politico israeliano ha mai ripudiato l’idea di Ben Gurion che la politica di Israele, entro limiti posti da considerazioni pragmatiche, debba avere a fondamento l’espansione di Israele fino ai confini indicati dalla Bibbia.
(…)
Consideriamo un recente esempio della differenza fondamentale tra la strategia imperialista di Israele, quella più popolarizzata ma laica, e i principi dell’”ideologia ebraica”. Quest’ultima stabilisce che tutte le terre che in passato erano sotto il dominio ebraico o quelle che Dio promise agli ebrei sia nella Bibbia che, cosa oggi più importante politicamente, nelle interpretazioni rabbiniche della Bibbia e del Talmud, appartengono di diritto a Israele perché Israele è lo Stato ebraico. Non c’è dubbio che gran parte delle “colombe ebraiche” sono convinte che la conquista di tutte quelle terre debba essere rimandata al momento in cui Israele sarà più forte di quello che è ora (…)
Circolano numerose, discrepanti versioni dei confini biblici della Terra di Israele, che le autorità rabbiniche considerano idealmente possesso dello Stato ebraico. Nelle più “generose” sono compresi tutto il Sinai e la parte settentrionale dell’Egitto fino alle porte del Cairo; ad est tutta la Giordania e una vasta area dell’Arabia Saudita, tutto il Kuwait e una parte dell’Iraq a sud dell’Eufrate; a nord tutto il Libano e tutta la Libia insieme a gran parte della Turchia fino al lago di Van e, a occidente, addirittura Cipro. Oggi in Israele, spesso col sussidio governativo, si pubblica un’immensa quantità di ricerche e dotte discussioni sui confini presentate in atlanti, libri, articoli e forme più popolari di propaganda.
(…)
Per quanto riguarda i confini di Israele, ho scelto l’esempio dei confini biblici della Terra di Israele che appartiene allo Stato ebraico, confini che sono accettati come legittimi e da conquistare tra i nazionalisti religiosi. Versioni meno estremiste dei confini biblici sono i cosiddetti “confini storici”,
Voglio qui ricordare che, sia In Israele che tra gli ebrei della diaspora che lo appoggiano, la validità del concetto sia dei confini biblici che di quelli storici, che delineano le terre che “appartengono” di diritto agli ebrei non è negata in via di principio se non da parte della piccola minoranza che si è sempre opposta e si oppone al concetto stesso di Stato ebraico. Le obiezioni al raggiungimento di quei confini con la guerra sono di natura puramente pragmatica. Si ammette che Israele è ancora troppo debole per conquistare tutte le terre che “appartengono agli ebrei”, Si adduce la preoccupazione per perdite umane troppo grandi – le vite degli ebrei, non certo quelle degli Arabi – che sarebbero inevitabili in guerre di conquista così estese. Comunque nel quadro di riferimento del giudaismo non è ammesso dire che la “terra di Israele”, in qualunque forma si presentino i suoi confini, non “appartiene” a tutti gli ebrei.
Nel 1993, Ariel Sharon propose formalmente al Congresso del Likud che Israele adottasse i “confini biblici” come principio fondamentale della sua politica ufficiale. Poche furono le obiezioni a quella proposta, nel Likud o in altri ambienti politici, e tutte erano di carattere pragmatico (…)
Un’utopia chiusa?
(La pericolosità di Israele sta proprio in questa “ideologia ebraica” di cui è portatrice. Almeno Machiavelli – che pure giustificava i mezzi usati in vista del “fine” – disapprovava sul piano morale quelli disonesti. L’ideologia ebraica si rifà invece all’insegnamento di Platone che, come anche Sir Thomas More – santificava la frode e la forza, se necessarie a realizzare la repubblica).
(…)
Non deve sembrare strano se c’è che analizza la politica israeliana con le categorie platoniche. E’ stato fatto da numerosi studiosi, primo tra tutti Moses Hadas, il quale sosteneva che i fondamenti del “giudaismo classico”, cioè del giudaismo così come fu istituzionalizzato dalla sapienza rabbinica, sono il frutto di profondi influssi platonici e specialmente dell’immagine della città di Sparta come viene presentata da Platone.
Secondo Hadas, principio fondamentale del sistema politico platonico, adottato dal giudaismo già neò periodo dei Maccabei (142-63 A.C.) era che “ciascuna fase dei comportamenti umani deve essere soggetta a sanzioni religiose che in realtà vengono manipolate da chi ha il dominio”.
Non c’è migliore definizione di questa platonica del “giudaismo classico” e dei modi in cui i rabbini l’hanno manipolata nel corso del tempo. In particolare, Hadas precisa che il giudaismo adotta “quegli obiettivi” che Platone stesso aveva riassunto nel famoso passo di “Leggi” (942 ab): “La cosa fondamentale è che a nessuno, uomo o donna, sia permesso di sottrarsi al controllo di qualcuno sopra di lui e che nessuno entri nell’ordine di idee di prendere una decisione, per il bene o per il male, assumendosene individualmente le responsabilità. In pace come in guerra, ciascuno deve tener fisso lo sguardo sul suo superiore… in una parola, deve abituare la mente a non prendere neppure in considerazione l’agire individuale o imparare a farlo”.
Se si sostituisce la parola “rabbino” a quella di “superiore”, si ha l’immagine perfetta del “giudaismo classico” che anche oggi ha una profonda influenza sulla società ebreo-israeliana ed è determinante per la politica di Israele.
Quel passo platonico fu scelto da Karl Popper come emblematico per definire l’essenza stessa della società chiusa. Il giudaismo storico e i suoi due successori, l’ortodossia ebraica e il sionismo, sono nemici giurati del concetto di “società aperta”. Uno Stato ebraico, sia fondato sull’attuale ideologia ebraica, oppure se diventa ancora più ebraico di quanto non lo sia ora, non può contenere né tollerare una società aperta. Il corpo sociale ebraico-israeliano ha solo due possibilità di scelta: diventare tutto un ghetto chiuso in guerra perpetua, una Sparta ebraica, fondata sul lavoro degli iloti arabi e mantenuto in vita dalla condizione di poter contare sull’appoggio economico-militare dell’establishment politico degli Stati Uniti e dalla costante minaccia di servirsi delle armi nucleari, oppure diventare una società aperta. La seconda scelta dipende da un’onesta rivisitazione del passato ebraico, dall’ammettere che lo sciovinismo ebraico e il suo esclusivismo sono una realtà e dall’analizzare, senza ipocrisie e simulazioni, gli atteggiamenti del giudaismo nei confronti dei non ebrei.
Nota:
(1) (…) l’esonero “invisibile” porta co sé discriminazione e persecuzione. Chi non fa il servizio militare, perché non chiamato dall’enumerator, è automaticamente escluso da molti posti di lavoro, zone residenziali, possibilità di affittare case e terreni riservati ai “giovani di leva arruolati”. Con questo sistema, ad esempio, sono stati cacciati dai loro appartamenti molti giovani arabi residenti nella città vecchia di Gerusalemme. Il termine “giovani di leva arruolati” vale anche per gli studenti delle scuole religiose ebraiche, Yeshiva, che non fanno il servizio militare. L’enumerator li chiama, e tanto basta per conservare tutti i privilegi di quelli che effettivamente sono arruolati nelle forze armate. Questo marchingegno burocratico riflette puntualmente la dottrina, ora parte della legge fondamentale, secondo cui Israele è lo Stati degli ebrei, israeliani e della diaspora, ma non dei cittadini di Israele.
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